(di Roberto de Mattei) Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non sta nel documento, di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa. Al Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici. Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio 1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un “dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano, Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523) fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione, con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro (Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli, di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV, annunciò solennemente, con la bolla Laetentur Coeli (“che i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze, c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo della loro unione con Roma, o Greco-cattolici, perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz (1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657), apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984), deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire l’unità» e che «non si può quindi accettare l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora. L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo ottobre a Lund, in Svezia.
Intervista al Cardinale Sarah: non possiamo lasciare l'Uomo senza una strada sicura
Intervista al Cardinale Sarah di Lorenza Formicola | 3 Aprile 2016
“'Sono la Via, la Verità, e la Vita'. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare”. L'Occidentale ospita una intervista al Cardinale Robert Sarah, uomo dalla fede ardente, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e autore del libro "Dio o niente".
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Il Cardinale Burke, tempo fa ha detto: “Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista.” Rispondeva ad una provocazione data la sua nota e ripetuta opposizione a ogni mutamento della prassi pastorale in discussione al Sinodo. Si sente di sposare questo stesso sentire?
Papa Benedetto XVI ha sottolineato senza sosta il problema della dittatura del relativismo. Oggi tutto è possibile. Non abbiamo più radici. Niente di stabile. Eppure noi una Dottrina stabile l’abbiamo, abbiamo una Rivelazione. Far sì che la gente torni alle radici delle cose, della Rivelazione è un dovere per noi Vescovi. Non possiamo lasciare la gente senza una strada sicura. Senza una roccia su cui appoggiarsi. Nella parrocchia la roccia su cui appoggiarsi è il parroco, nella diocesi è il Vescovo, nella Chiesa universale, è il Papa. E noi cerchiamo di aiutare il Santo Padre ad assicurare la gente che una stabilità esiste. Che c’è una strada. E la strada è Gesù Cristo. Lo ha detto chiaramente: “Sono la Via, la Verità, e la Vita”. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare. Abbiamo davvero una roccia, abbiamo una strada, abbiamo una Verità che ci salva. È inutile spostarsi da lì.
Quindi è anche lei un “fondamentalista”, nel senso che ha attribuito Burke al termine?
Sì, sicuramente. (Sorride di gusto)
La parola ‘fondamentalismo’ è ormai associata all’islam. Tema che ha invaso le nostre conversazioni quotidiane. L’islam identifica il mondo politico e quello religioso, convinto che solo il potere politico possa moralizzare l’umanità. Qui si rende manifesta tutta la differenza e la novità del cristianesimo, il cui Dio non è il Re di un banale regno temporale. In quest’ottica, non è forse vero, quanto diceva, quando era ancora Cardinale, il Papa Emerito? “Nella pratica politica il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina della tentazione utopistica”. La Chiesa Cattolica del 2016 ha conservato questo stesso atteggiamento nei confronti della politica, oppure è convinta che in fondo, il Paradiso in terra si possa sempre realizzare?
Penso che dall’inizio noi dobbiamo dividere l’uomo. Separare cioè la sua identità propria e il suo lavoro, la sua politica. Non dobbiamo mischiare la religione con la politica. Però, allo stesso tempo, l’uomo è uno. Non puoi essere un cristiano in chiesa, e fuori un’altra persona. E come dunque radicare il Vangelo nel mio operare, nella politica, nell’economia? Questo è il problema fondamentale. Perché se divido, cosa succede? Sono un cristiano in chiesa, ma un passo fuori dalla chiesa e il mio comportamento è da pagano, da uomo che non crede a niente. Un uomo che crede solo nel suo avere, nel potere. Ma la vera fede opera nella carità. La vera fede si manifesta nella carità, cioè nella concretezza delle azioni. E dunque penso che il problema stia tutto nell’essere ‘cristiani veramente veri’ nell’attualità, nell’economia nella politica, nell’arte, nella cultura, nella vita familiare. È impossibile dire sono cristiano e poi non mi sposo in chiesa, per esempio. (Sorride). È difficile dire sono un cristiano però non vado a messa. L’esser cristiano deve riflettersi per forza nella vita pratica. E ognuno di noi è immerso nella società. Dobbiamo vedere nella nostra vita il Vangelo. C’è una trasparenza che deve vedersi nella vita quotidiana, e questo è la vera cristianità.