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Quell’articolo strano, inquietante e antiamericano di La Civiltà Cattolica
di Samuel Gregg
L’antiamericanismo è vecchio quanto la Rivoluzione americana stessa (se non di più).
Gli Stati Uniti, come tutte le nazioni, hanno i loro difetti, ma sono loro ad attirare un’attenzione spropositata da parte del resto del mondo.
Questo dipende anche dall’importanza dei mass-media americani, dal fatto che le loro notizie arrivano in tutto il mondo e dallo status di superpotenza degli Stati Uniti.
Su scala globale, le scelte fatte dall’Argentina o dall’Italia, ad esempio, non sono importanti per gli affari internazionali quanto quelle degli Stati Uniti.
Alcune delle analisi più acute sugli Stati Uniti non sono state scritte da americani. Un’analisi esemplare è La democrazia in America (1835/1840) di Alexis de Tocqueville.
Eppure, nonostante la grande e intensa attenzione dedicata agli Stati Uniti, non è difficile trovare articoli scritti da non americani intelligenti che però riflettono gravi incomprensioni e a volte una palese ignoranza sulle correnti politiche, economiche e culturali che definiscono l’America.
Questo mi porta a pensare ad un articolo strano pubblicato recentemente in La Civiltà Cattolica: la rivista quindicinale gesuita italiana che gode di uno status quasi ufficiale, in quanto il Segretariato di Stato della Santa Sede esercita la supervisione sugli articoli pubblicati.
L’articolo a cui mi riferisco è: “Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico. Un sorprendente ecumenismo”.
I suoi autori, Padre Antonio Spadaro, SJ (direttore di La Civiltà Cattolica)e il Pastore presbiteriano Marcelo Figueroa (direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano) esprimono diverse affermazioni su tendenze politiche e religiose specifiche degli Stati Uniti: affermazioni che, nella migliore delle ipotesi, sono inconsistenti e inesatte.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, l’analogia tra le prospettive teologiche di particolari filoni dell’evangelismo americano e l’ISIS.
Per quanto ne so, quelli che si definiscono fondamentalisti americani non distruggono 2000 anni di tesori architettonici, non decapitano i musulmani, non crocifiggono i cristiani mediorientali, non supportano una vile letteratura antisemita ne massacrano sacerdoti francesi ottantenni.
Un’altra tesi discutibile dell’articolo è che il Sacro Romano Impero sia stato costituito con l’intento di realizzare il Regno di Dio sulla terra.
Questa particolare analisi sarà vista come una novità dagli storici esperti di quella complicata entità politica che divenne, come dice il proverbio inglese, Sacra, romana e un impero.
Ci sono anche diversi legami tra lo scetticismo sul cambiamento climatico, la fede dei cristiani bianchi del sud degli Stati Uniti (commenti che se rivolti ad altri gruppi razziali sarebbero stati denunciati perché sconfina nel fanatismo) e i pensieri apocalittici di alcuni americani evangelici. In sostanza, si afferma che queste cose riflettono e aiutano ad alimentare una vista manichea del mondo da parte degli Stati Uniti.
Poi c’è la particolare associazione dell’articolo con l’eresia del "vangelo della prosperità" legata agli sforzi recenti per proteggere la libertà religiosa in America.
Senza dubbio, gli studiosi evangelici e altri esperti metteranno in evidenza i numerosi problemi riguardanti la comprensione della storia del cristianesimo evangelico e del fondamentalismo negli Stati Uniti.
Un mio amico agnostico, che è uno storico eminente dell’evangelismo americano in una prestigiosa università laica, mi ha detto che l’articolo mostra un’“ignoranza ridicola”.
Sospetto anche che il Pastore Figueroa e Padre Spadaro siano ignari, per esempio, dell’adesione di molti evangelici al diritto naturale negli ultimi decenni: qualcosa che, per definizione, immunizza ogni serio cristiano dalle tendenze fideiste.
Ma due particolari affermazioni degli autori richiedono una risposta più dettagliata.
Chi è un manicheo?
Come leggiamo nell’articolo, gli autori affermano che il fondamentalismo evangelicale ha fatto sì che l’America adottasse una comprensione manichea degli affari internazionali.
Essi sostengono, tuttavia, che Papa Francesco rifiuta ogni immagine di un mondo in cui si contrappongono il bene e il male assoluti.
Invece, dicono, il papa saggiamente riconosce che “alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere”.
Senza dubbio, il desiderio di potere motiva alcuni attori internazionali.
È altrettanto importante riconoscere che alcune idee – come marxismo, leninismo, jihadismo islamico o nazionalsocialismo – hanno spinto i movimenti transnazionali e gli stati-nazione ad agire in modo malvagio perché le idee stesse sono malvage.
Per gli americani (e per chiunque altro) riconoscere questo e chiamare queste cose con il loro nome non significa credere nel manicheismo.
Si tratta semplicemente di riconoscere che alcune idee sono veramente malvage e portano molte persone, persino nazioni, a compiere atti gravemente cattivi.
Non si può comprendere, per esempio, il regime populista che sta ora distruggendo il Venezuela, a meno che non ci rendiamo conto che la sua leadership e molti dei suoi sostenitori sono in parte motivati da una visione profondamente conflittuale del mondo.
Questa visione deriva soprattutto e direttamente da Marx e Lenin (cosa che potrà dichiarare chiunque abbia ascoltato una delle brevi sfuriate televisive di tre ore di Hugo Chávez).
Vale la pena ricordare che quando il presidente Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica “l’impero malvagio” nel 1983, milioni di persone al di là dalla Cortina di Ferro hanno immediatamente compreso quello di cui parlava.
Sapevano che i sistemi in cui vivevano erano basati su idee malvage sulla natura dell’uomo e della società.
Inoltre, il fatto che alcuni americani descrivano (spesso accuratamente) regimi particolari come malvagi non significa che considerino gli Stati Uniti un Regno di Dio embrionale sulla terra.
Oggi, molti americani evangelici sono profondamente angosciati, per esempio, dallo status dell’élite e della cultura popolare negli Stati Uniti. E sottolineano subito questi fallimenti, anche quando tali debolezze si manifestano nei loro ranghi.
Ciò dovrebbe far riflettere molti europei e latinoamericani prima di dire che milioni di cristiani negli Stati Uniti hanno una visione manichea del mondo.
Ecumenismo, evangelici e cattolici
Una seconda tesi problematica che caratterizza l’articolo di Spadaro-Figueroa che richiede maggiore attenzione è la sua definizione del rapporto tra molti cattolici ed evangelici negli Stati Uniti: un rapporto su cui il sacerdote e il pastore hanno chiaramente delle riserve.
Padre Spadaro e il Pastore Figueroa osservano correttamente che molti cattolici e evangelici hanno riconosciuto di aver avuto, negli ultimi decenni, obbiettivi comuni per quanto riguarda “aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori”.
Aggiungono che “sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici”.
Da “Integralisti cattolici” possiamo sicuramente presumere che gli autori si riferiscano ai tanti cattolici americani (normalmente etichettati come “conservatori”) che hanno scelto di allearsi con gli evangelici per difendere cose come la cultura della vita e la libertà religiosa da quella forma di secolarismo dottrinare dilagante sotto l’amministrazione Obama.
Ma la stragrande maggioranza di questi cattolici non sono “integralisti” per non parlare dei teocratici in attesa. Piuttosto il contrario. Né la maggioranza degli evangelici negli Stati Uniti spinge i programmi teocratici.
Se si esaminano, ad esempio, le dichiarazioni di vari studiosi e intellettuali coinvolti in movimenti come “Evangelicals and Catholics Together”, vediamo che non contengono nessuna aspirazione teocratica.
La discussione ecumenica tra coloro che si impegnano in questi sforzi ha portato nel tempo a risultati positivi con chiarimenti dei punti comuni, rimozione di idee sbagliate, individuazione di blocchi dottrinali reali e individuazione di aree in cui possono essere fatti insieme lavori pratici per promuovere il bene comune.
Ciò è in netto contrasto con i luoghi comuni e le assurdità che hanno da sempre caratterizzato la discussione ecumenica insieme al rapido declino delle confessioni protestanti che da tempo si sono allontanate dalle verità basilari cristiane sulla fede e la morale che la maggioranza degli evangelici continua ad affermare rigorosamente.
Inoltre, quando negli Stati Uniti i cristiani evangelici e i cattolici affermano che, ad esempio, gli esseri umani non ancora nati hanno diritto alle stesse protezioni dall’uso ingiusto della forza letale come qualsiasi altro essere umano o che la libertà religiosa è qualcosa in più di una semplice libertà di culto, o che i genitori hanno il diritto di insistere affinché i loro figli non debbano sorbirsi la sciocchezza della “teoria del gender” a scuola, tali argomenti sono sempre più trattati in termini appartenenti alla sfera pubblica.
I cattolici hanno una lunga tradizione su tali questioni. Eppure è anche un approccio che molti evangelici hanno iniziato ad adottare solo negli ultimi anni.
Questo non aggiunge nulla al discorso dell’imposizione della teocrazia o alla pretesa di privilegi speciali, per non parlare dei tentativi di facilitare accordi tra Stato e Chiesa o qualche tipo di nazionalismo americano evangelico/cattolico.
Contrariamente alle affermazioni di Padre Spadaro e del Pastore Figueroa, questa non è “una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato”.
Si tratta di affermare che le verità che tutte le persone possono conoscere attraverso la ragione naturale possono anche essere legittimamente riconosciute in società pluralistiche come gli Stati Uniti.
Inoltre, affermare così tali verità aiuta anche a facilitare la libertà e l’autentico pluralismo negli Stati Uniti (contrariamente all’ideologia della “diversità”).
Queste verità aiutano anche a proteggere i non cristiani e i non credenti, così come un qualsiasi altro americano, dalla coercizione ingiusta.
Un problema di attendibilità
Se l’articolo di La Civiltà Cattolica riflettesse semplicemente le opinioni di un qualsiasi prete cattolico occidentale e di un ministro argentino presbiteriano, pochi sarebbero preoccupati per il suo contenuto.
Ma gli articoli di La Civiltà Cattolica sono controllati dal Segretariato di Stato della Santa Sede.
Quindi, è curioso che chiunque abbia approvato l’articolo (supponendo che fosse stato correttamente verificato) presso la Segreteria di Stato non abbia preso in considerazione la mescolanza fatta dagli autori su questioni indirettamente collegate, o sollevato questioni sul tono emotivista dell’articolo, o notato che Padre Spadaro e il Pastore Figueroa hanno una conoscenza amatoriale della storia religiosa degli Stati Uniti e dei punti più importanti della politica americana.
Se è vero che la bandierina rossa non è stata alzata – o è stata ignorata – allora tutti i cattolici, americani e non, hanno ragione di preoccuparsi.
Non è semplicemente nell’interesse della Chiesa universale sviluppare o incoraggiare visioni generalmente false sugli Stati Uniti o sull’Anglosfera.
Tutte le persone, tra cui il papa e i suoi consiglieri, sono libere di avere le proprie opinioni sulle diverse nazioni e comportamenti internazionali.
Nessuno si aspetta che il vescovo di Roma sia acritico verso gli Stati Uniti o qualunque altro Paese.
C’è molto da criticare sugli Stati Uniti, proprio come sull’Argentina (fallimenti in materia economica, invidia sempre presente e idolatria della persona, incoraggiate dal veleno del peronismo) o sull’Italia (corruzione e clientelismo dilagante nella sua cultura politica ed economica a cui i funzionari vaticani e gli ecclesiastici italiani non hanno, purtroppo, dimostrato di essere immuni).
Tuttavia, lo sviluppo di tali opinioni dovrebbe essere accompagnato da un’attenta riflessione, informazioni dettagliate e una comprensione accurata della storia e dello sviluppo di un paese.
Purtroppo, tutto questo manca nell’articolo Spadaro-Figueroa ed è evidente.
Ma il danno maggiore lo subisce l’attendibilità della Santa Sede nel suo contributo sulla sfera internazionale. E nessuno trae beneficio da questo, meno di tutti Papa Francesco.
NOTE: L’articolo originale On that strange, disturbing, and anti-American “Civiltà Cattolica” article è stato pubblicato su The Catholic World Report il 14 luglio 2017. La traduzione italiana è dell’Istituto Acton.
Samuel Gregg
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D'Agostino choc:
Charlie doveva morire
di Renzo Puccetti, 30-07-2017
Per la gravità delle affermazioni e per la caratura del personaggio non possono passare inosservate le considerazioni del professor Francesco d’Agostino, già presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, espresse nella trasmissione Uno Mattina (Rai Uno) il 26 luglio sul caso del piccolo Charlie (clicca qui).
Dato il prestigio che avvolge la persona del presidente dei Giuristi Cattolici, tenterò di svolgere alcune considerazioni sforzandomi di rispettare l’etichetta accademica.
Richiesto dal giornalista Tiberio Timperi se per Charlie “c’è il rischio di accanimento terapeutico”, il professor D’Agostino ha risposto che tale rischio è per lui “plateale”, aggiungendo poi che “sicuramente Charlie da molti mesi è sottoposto ad accanimento terapeutico”.
Passi per me, che sono un semplice medico di campagna che si diletta di bioetica, passi per alcuni miei amici che mi precedono nell’insegnamento della bioetica nelle stesse prestigiose istituzioni universitarie a cui afferisce il professor d’Agostino, voglio giungere a dire passi per il neurochirurgo e psichiatra Massimo Gandolfini, direttore di dipartimento all’Ospedale Poliambulanza di Brescia che sulla Verità di ieri ha parlato di “eutanasia di Stato”, passi per Assuntina Morresi, collega di D’Agostino al Comitato Nazionale di Bioetica, per l’avvocato Simone Pillon, membro dei giuristi cattolici di Perugia, tutte persone che nel caso di Charlie di accanimento terapeutico non hanno visto neanche l’ombra; ma possibile che persino quel monumento vivente della bioetica in Italia e nel mondo, autore del manuale di riferimento per generazioni di bioeticisti, il professore e cardinale Elio Sgreccia non si sia accorto che Charlie era oggetto di una vera e propria tortura, anzi lo abbia escluso decisamente?
Ma non intendo invocare il solo argomento ex auctoritate per rigettare la tesi di D’Agostino. Egli infatti formula la propria convinzione su una definizione di accanimento terapeutico che contempla “interventi medici futili, inutili, privi di prospettive, altamente tecnologici, altamente invasivi, e in molti casi tali da dare forti sofferenze al malato”.
Esaminiamoli singolarmente in modo sintetico. La ventilazione per Charlie era tutt’altro che futile, essa gli assicurava la vita, tant’è che per porvi termine si è utilizzato la sua interruzione. La ventilazione era priva di prospettive soltanto se per prospettiva si assume il miglioramento delle condizioni cliniche e non la sopravvivenza.
Tuttavia sono innumerevoli gli interventi medici che assicurano non altra prospettiva che la sopravvivenza, a partire da quella nutrizione e idratazione che è artificiale tanto quanto lo è la ventilazione.
Per coerenza allora il professor D’Agostino dovrebbe annoverare tra gli accanimenti terapeutici tutte le situazioni in cui non vi sono prospettive come nei malati di Alzheimer, di cancro, i pazienti in stato vegetativo, per fare solo qualche esempio.
Che l’accanimento dipenda dal grado di tecnologia impiegato è una tesi che apprendo oggi quale stravagante novità.
Vi sono interventi che esprimono un altissimo livello di tecnologia robotica o protesica rimanendo totalmente proporzionati: pace-maker, defibrillatori, pompe d’insulina, impianto cocleare, mentre fare un massaggio cardiaco ad un paziente con cancro in fase terminale, intervento pur privo di tecnologia, costituirebbe davvero un accanimento.
D’altra parte non vi è molta differenza tecnologica tra una pompa per la Nutrizione e Idratazione e la stomia gastrica con la tecnologia impiegata per un ventilatore ed una tracheostomia.
Ha ragione D’Agostino quando tira in ballo che l’accanimento si configura tale quando il trattamento induce sofferenza.
Qui si deve però essere chiari. I trattamenti medici richiedono spesso la sopportazione di dolori o disagi da parte del paziente, si verificano effetti collaterali ed eventi avversi. Per limitarli i medici instaurano altri trattamenti in associazione.
Ecco che il dentista fa l’iniezione prima di mettere mano al trapano e poi prescrive gli antinfiammatori, o il chirurgo si fa aiutare dall’anestesista e poi prosegue con antalgici nel periodo post-chirurgico. Ciò avviene anche nei trattamenti cronici.
Ciò che per D’Agostino costituisce la prova dell’accanimento su Charlie - “la ventilazione artificiale a cui è sottoposto Charlie, è un intervento pesantissimo, e infatti il piccolo è sotto sedazione da molti mesi”, ha detto il giurista - fa parte del normale approccio di chi è sottoposto a ventilazione invasiva, a meno di non volere sostenere che i pazienti ventilati cronicamente siano tutti sottoposti ad accanimento terapeutico.
Peraltro gli stessi medici del GOSH hanno dovuto ammettere che non vi erano prove che il bambino avesse dolore.
Ho già ricordato sulla NBQ il caso dei bambini nati con atrofia muscolo-spinale tipo 1. A causa di una degenerazione neuronale, nel 95% dei casi non superano i 18 mesi di vita, la mortalità è del 100% a 2 anni, hanno necessità di ventilazione che viene routinariamente instaurata in modalità invasiva o non invasiva, ma nessun medico si sognerebbe mai di considerarla un accanimento terapeutico.
Vuole forse il professor D’Agostino accusare i pediatri di tutto il mondo che hanno in cura questi bambini di mancare al dovere professionale d’interrompere un trattamento che a tutti gli effetti soddisfa i criteri da lui elencati per definire l’accanimento terapeutico?
Prego, si accomodi pure.
Gli suggerisco di cominciare dalla presidente dell’ospedale Bambin Gesù Mariella Enoc che ha dichiarato: “Non so perché l'ospedale inglese abbia deciso di sospendere le cure al bimbo, so che qua da noi questo non sarebbe avvenuto”.
Il professor D’Agostino ha detto che l’accanimento terapeutico su Charlie “lo si può capire fino in fondo soltanto se si studia da vicino la terribile patologia di Charlie e tutti gli interventi che hanno fatto su di lui, partendo dalla ventilazione e partendo dal fatto che il piccolo Charlie non ha alcuna funzione organica attiva”.
Ora non vorrei essere irrispettoso, ma un umano che non ha alcuna funzione organica attiva si chiama cadavere ed è piuttosto difficile fare morire un cadavere, stante la sua condizione di già morto.
D’Agostino, che parrebbe parlasse perché ha studiato da vicino la condizione di Charlie, dice che al bambino inglese “non gli funzionano i reni, non gli funziona l’intestino”.
Strano però che queste informazioni non siano state riportate in alcun rapporto medico.
Non risulta che Charlie fosse sottoposto a dialisi renale, né risulta alcuna immagine dove la cute del bambino abbia manifestato la tipica colorazione che si riscontra nell’uremia legata all’accumulo di urocromi.
Inoltre se l’apparato digerente non avesse funzionato si sarebbe manifestato malassorbimento e ileo paralitico, sarebbe stato inutile nutrire e idratare Charlie per via enterale e la morte sarebbe sopraggiunta senza dovere aspettare di dovere intervenire con la rimozione della ventilazione.
D’Agostino poi aggiunge l’argomento della dipendenza dalle macchine. Sarebbe tale condizione a rendere la situazione di Charlie un accanimento terapeutico perché, sempre secondo il giurista, “nella definizione dell’accanimento terapeutico rientra proprio il caso in cui la vita sia supportata, non nell’attesa di una guarigione o di un miglioramento fisiologico, ma semplicemente perché ci sono delle macchine che impediscono all’organismo di arrivare alla propria fine naturale”.
Su questo lascio che la risposta a D’Agostino giunga da Mario Melazzini, direttore dell’Agenzia Italiana del Farmaco e malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica, il quale, commentando il caso di Charlie, ha dichiarato sull’Avvenire: “Per me essere nutrito con una pompa nella notte, essere ventilato, è la vita […], la Vita è una questione di sguardi e di speranza, anche per chi è legato a delle macchine. Guardiamo prima di tutto, e ascoltiamo, la persona, non fermiamoci alla 'macchina' e non consideriamo una maledizione la vita quotidiana che essa consente”.
Forse che un paziente dializzato, un grave bradicardico, un grave broncopneumopatico non sono tenuti in vita da una macchina? Sconcertante.
Così com’è sconcertante la definizione di eutanasia offerta dal professore: “Dare la morte ad un soggetto che ha possibilità di vita, sia pure tragiche, ma che non è in punto di morte e che potrebbe ancora esercitare il tempo che gli rimane da vivere in modo sensato e dignitoso”.
Forse che dare un’iniezione letale ad un paziente che ha un’aspettativa di vita di tre giorni, dunque in punto di morte, non sarebbe parimenti un’eutanasia?
Quanto prima della morte attesa deve essere attuata la condotta uccisiva perché per il professor D’Agostino si tratti di eutanasia?
Non è questione di tempi, né di condizione, ma, come recita la dottrina cattolica e la scienza medica, di mezzi e intenzioni.
Non posso affermare di sapere se la posizione del professor D’Agostino rispecchi il suo sincero convincimento, oppure sia una tattica volta ad arginare le richieste di eutanasia commissiva, concedendo un’eutanasia omissiva nella forma mascherata di astensione da trattamenti proporzionati, facendoli passare per accanimento terapeutico.
Se così fosse, si tratterebbe dell’ennesimo tentativo illusorio, puerile, maldestro e complice che non ha mai arginato alcuna progressione del fronte laicista contro la vita, il matrimonio e la famiglia.
Il professor D’Agostino è stato incluso tra i membri ordinari della Pontificia Accademia per la Vita (PAV).
Temo che le sue idee sul fine vita rappresenteranno un contributo fortemente innovativo nei documenti della PAV, un contributo che si andrà a sommare a quello del professor Biggar, della professoressa Le Blanc, di Steinberg e di altri ancora.
da:
[www.lanuovabq.it]
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Vittorio Messori, da: Il Timone
[www.iltimone.org] agosto 2017.
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Quando la finiremo di illuderci, ripetendo ossessivamente il mantra del “dialogo”, sempre e comunque, per affrontare ogni problema, persino l’aggressività mortifera dell’islamismo?
Il dialogo, tra l’altro, presuppone che ciascuno dei dialoganti metta sul tavolo, con chiarezza, le sue ragioni.
Cosa impraticabile se si ha di fronte un musulmano: uno dei capisaldi del Corano stesso non solo della tradizione maomettana, è che ebrei e cristiani hanno manipolato le Sacre Scritture.
Soprattutto, per quanto riguarda i cristiani, eliminando le parole di Gesù, quando avrebbe annunciato la venuta dopo di Lui del “Sigillo dei profeti”, Muhammad.
Dunque, dicono, inutile perdere tempo con dei falsari.
Così, all’islamico, è addirittura proibito leggere la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento (difatti non sono tradotti in arabo), perché si rischierebbe di prestar fede alle menzogne dei devoti di Jahvé e di quelli di Gesù Cristo.
Ma allora: che dialogo ci si può aspettare da un interlocutore che ti considera a priori uno spacciatore di menzogne?
Eppure, qualche dialogante ad ogni costo (anche nelle alte gerarchie ecclesiali) non si rassegna a ricorda il rispetto con il quale il Corano parla di Isa, Gesù, e di sua madre Maryam.
Stanco di queste argomentazioni, un docente della Sorbona di Parigi, Roger Arnaldez, considerato il maggiore islamologo francese, ha deciso di esaminare ciò che dicono di Gesù non soltanto il Corano ma anche le migliaia di hadit, cioè di detti attribuiti a Muhammad dalla tradizione islamica.
Vediamo le sue conclusioni, dopo la lunga ricerca: «I cristiani rischiano di emozionarsi, venendo a conoscere i molti versetti coranici su Gesù e Maria. Ma non si lascino ingannare: tutti i commenti islamici, dagli inizi ad oggi, convergono nell’indicare Gesù, senza esitazione, come il penultimo profeta. E’ un Gesù che non ha nulla a che fare con il Personaggio dei Vangeli: è interamente musulmano e condanna duramente i cristiani che lo hanno scambiato per Figlio di Dio, ricordando che Allah è l’unico Dio e non ha di certo prole. Ogni dialogo, poi, è interdetto anche perché, per il credente musulmano, sul mondo deve regnare soltanto la legge di Allah, rivelata a Muhammad, e l’islam non riconosce, anzi giudica blasfeme, le parole liberatorie di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”».
Cose, queste, che dovrebbero essere ben note ma che non fermano né fermeranno i dialoganti a ogni costo.
Liberi di sognare, ma la realtà non ha compassione per le intenzioni buone ma irrealistiche.
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La legge 119/2013 prevedeva un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere.
Votata in un Parlamento deserto e passata grazie alla insipienza delle opposizioni, ha come oggetto fenomeni del tutto marginali nella società italiana, mentre ignora casi ben più diffusi quale il suicidio.
Si tratta perciò di un provvedimento ideologico, che cerca di introdurre una specie di "reato di pensiero", in particolare per introdurre l'omosessualismo nella cultura e nella vita civile.
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Dopo il caso dei soldi pubblici diretti a finanziare le orge gay denunciato dalle “Iene” lo scorso febbraio, che hanno portato alle dimissioni il suo direttore Francesco Spano, l’Ufficio Nazionale anti-discriminazioni razziali del Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio si trova nuovamente al centro di un’inchiesta giornalistica che fa luce sull’incredibile spreco di denaro pubblico che si perpetra all’interno di tale inutile ente a carico dei contribuenti italiani.
Dalle colonne del Il Fatto Quotidiano, Thomas Mackinson scrive infatti come:
“Il numero verde contro le discriminazioni costa oltre 800 euro a chiamata. E poco importa se qualcuno ha sbagliato a digitarlo o se lo Stato già svolge lo stesso servizio. Possibile? Sì, perché in Italia discriminare sarebbe vietato e sprecare pure, ma spesso succedono entrambe le cose. Lo certifica il servizio di Contact Center istituito due anni fa dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità in seno alla Presidenza del Consiglio, proprio quello del direttore pizzicato dalle Iene a finanziare locali per prostituti che s’è poi dimesso“.
Il costo giornaliero di tale centralino è stato desunto da Mackinson dopo aver appreso i costi del servizio consultando il bando pubblicato in questi giorni per la gestione dei prossimi due anni del centralino antidiscriminazioni:
“Il numero verde 800901010 è decollato nel 2015 a suon di spot governativi con la missione di raccogliere segnalazioni di potenziali vittime o testimoni di comportamenti discriminatori fondati su razza, orientamento sessuale e diritti Lgbt, disabilità, religione ed età. Attività benemerita in un Paese dove un vicepresidente del Senato paragona un ministro a un orango e gli episodi di intolleranza, bullismo e sessismo sono all’ordine del giorno. Benemerita, ma sorprendentemente costosa. Proprio in questi giorni è stato pubblicato il bando per la prossima gestione biennale del centralino che comprende ricezione, compilazione scheda, report finale e monitoraggio attività. Costo: 1,9 milioni di euro più Iva. (…)”
Mackinson fa poi notare i numeri irrisori registrati dal Contact Center dell’Unar nel 2015:
“Si legge, ad esempio, che nel 2015 il Contact Center dell’Unar ha gestito 2.235 chiamate delle quali 1.814 considerate poi “pertinenti”, 421 no ed erano errori di chiamata o magari richieste di prenotazione di viaggi o di lettura della bolletta. In ogni caso chiamate “non pertinenti”. Per un paese ad alto tasso d’insulti e intolleranza è un numero relativamente basso, segno che il “servizio” – forse – nel suo primo anno di vita e nonostante gli spot non ha ancora raggiunto l’auspicata diffusione e conoscenza tra la popolazione italiana. (…) Nel 2016 le segnalazioni sono state 2.939 e 290 sono state giudicate dalla stessa Unar “non pertinenti”. Quelle effettivamente legate a episodi di discriminazione sono state grosso modo 2.600, il 64% relative a discriminazioni etnico-razziali, il 16,4% contro i disabili, l’8,5% di genere e quelle per età il 4,7.
Numeri in aumento ma pur sempre bassi e soprattutto “cari” in rapporto ai costi del servizio: una chiamata ricevuta nel 2016 è costata 788,70 euro, 891,5 se si contano solo quelle “pertinenti”. Roba che il chiamante accorto potrebbe farsi lo scrupolo tra la tutela dalla discriminazione subita e dal costo che la denuncia ha genera per la collettività”.
A fare lievitare i costi sono i servizi di hosting/manutenzione e soprattutto il nutrito e variegato gruppo di lavoro composto da ben 12 persone tra cui il coordinatore, 5 operatori esperti, rigorosamente uno per ciascuna categoria discriminata e cioè etnico-razziale, 1 rom Sinti e Caminanti, 1 Lgbt, uno per età e disabilità, 4 mediatori culturali, un esperto statistico e un informatico, due giuristi e, dulcis in fundo, un addetto stampa.
Per di più il servizio non è attivo 24 ore come verrebbe da pensare ma come precisa il capitolato tecnico:
“il centralino multilingue gratuito (per chi chiama) “è attivo quotidianamente dalle 11 alle 14 con la presenza di un operatore” e, per la restante parte della giornata, dalle 8 alle 11 e dalle 14 alle 20, attraverso la segreteria telefonica”.
Infine, il giornalista de “Il Fatto Quotidiano” fa notare come il servizio dell’Unar oltre ad essere un inutile e dispendioso servizio a carico dei contribuenti italiani è anche una fotocopia di un analogo servizio attivo dal 2010 presso il Ministero dell’Interno
“Si chiama Oscad che sta per Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori ed è un organismo interforze incardinato nella Direzione centrale della polizia criminale.
Il prefetto Antonino Cufalo che lo presiede fa sapere che dalla sua istituzione al 30 aprile 2017 sono pervenute 1.936 segnalazioni riferibili alle diverse tipologie di discriminazione, di cui 945 per reati veri e propri. I numeri sono bassi anche perché i canali per la segnalazione si limitano a mail e fax (oscad@dcpc.interno.it – fax: 06 46542406 e 0646542407). Di fatto il centralino Unar ne è una duplicazione imbellettata e aggiornata”.
Ci auguriamo che questo nuovo scandalo sia la volta buona per chiudere, una volta per tutte, un ente inutile e oneroso per le casse pubbliche, voluto ed imposto dalle lobby gay per promuovere la “normalizzazione” dell’omosessualità e di ogni tendenza sessuale.
Ludovico Biglia, 25-7-2017 per
[https:]
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LA CHIESA FA DA STAMPELLA AI GAY E DIMENTICA IL SUO COMPITO MORALE
di LUIGI NEGRI,
Arcivescovo emerito di Ferrara e Comacchio
(La Verità, 28 luglio 2017)
Il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, qualche mese fa ha introdotto nel dibattito ecclesiale una preoccupazione e un tema cui si connettono queste brevi note. Egli ha parlato della possibilità di una mutazione del genoma del cattolicesimo, che avviene quasi senza colpo ferire e nella sostanziale mancanza di «cura» di troppa parte del mondo cattolico.
In questo senso vorrei riprendere un tema ormai largamente diffuso: l’omoeresia. Il problema dell’omosessualità non è impostato a partire dai contenuti che essa propugna, ma soltanto dalle modalità con cui viene vissuta. In troppo mondo cattolico l’omosessualità è un dato di partenza su cui non si formula un giudizio, o forse, più profondamente, si confonde il giudizio di fatto - l’estensione del fenomeno con il giudizio sul valore. Come dire: l’omosessualità c’è, è diffusa, perciò anche per noi cattolici deve andare bene.
In questa linea anche illustri ecclesiastici sono intervenuti su avvenimenti non discutibili, come fatti, ma cui si attribuisce il carattere di valore.
In ambito cattolico matrimoni omosessuali, seguiti da celebrazioni eucaristiche, nel corso delle quali i «coniugi» (si fa per dire) hanno potuto accostarsi alla comunione, come cosa normalissima. Quando un fatto, anche imponente nella sua diffusione, viene riconosciuto acriticamente come valore, si afferma sostanzialmente che non c’è più differenza fra bene e male e l’unico problema, per la Chiesa, diventa quello di un «accompagnamento». Non si pratica un giudizio per accompagnare, in modo autentico, ma ci si limita a un accompagnamento senza giudizio, che lascia gli omosessuali nella loro condizione, in qualche modo rafforzandone la percezione valoriale.
Chi afferma ancora, infatti, il dato indiscutibile, per la tradizione e il magistero ecclesiale, che l’omosessualità è una condizione di grave disordine e scorrettezza, teorica e morale? È a partire da questa consapevolezza, invece, che si deve assumere la responsabilità di aiutare coloro che vivono questa situazione obiettivamente errata, a prenderne coscienza e a maturarne un superamento, perché la verità della loro esistenza sia all’altezza della loro piena dignità e libertà.
Una corrente di pensiero, sempre più diffusa nell’ecclesiasticità, invece, sembra darsi come compito esclusivo l’aiuto, a coloro che vivono questa situazione, a viverla come sostanzialmente positiva.
Sembra, pertanto, che la Chiesa non abbia più la responsabilità fondamentale di aiutare gli omosessuali a camminare verso un superamento della loro situazione di partenza per la ripresa, o il primo incontro, con la vita nuova, buona e vera, cui Gesù Cristo introduce tutti coloro che credono in lui.
La Chiesa sembra non desiderare più di aiutare gli omosessuali a cambiare vita e a incominciare il lungo e doloroso cammino per assumere una condizione di vita in sintonia con l’antropologia che nasce dalla fede e si esprime nella carità.
Mi chiedo, qualche volta, se la Chiesa non riduca la sua azione educativa ad aiutare la condizione di partenza, l’omosessualità, in modo che sia una situazione adeguatamente vissuta, senza nessuna criticità.
Mi sorprendo a riflettere sulla grande testimonianza di fede e di carità che monsignor Luigi Giovanili Giussani dette a tutti noi, suoi amici, per l’amicizia e l’affezione che nutrì per anni per Giovanni Testori. Questi era considerato universalmente un’espressione di un’omosessualità teorizzata e praticata, punto di riferimento per i gruppi omosessuali lombardi che, a cavallo degli anni Ottanta del Novecento, andavano costituendosi in forma di movimento.
Testori non si sentì mai dire, da don Giussani, che l’omosessualità era una condizione corretta, ma fu aiutato a superare, attraverso un inevitabile sacrificio, sostenuto fraternamente, grazie a un giudizio critico, e non in assenza di esso, a superare la sua condizione, per tornare ad assumere l’antropologia e l’etica della fede e della carità.
Testori visse gli ultimi anni aderendo alla morale cattolica e dando anche pubblicamente testimonianza di una vita casta, consapevole dei propri errori passati e presenti, ma ai quali non guardava più con la presunzione di una posizione corretta e indiscutibile.
La Chiesa è chiamata ad accompagnare i nostri fratelli uomini, a partire dalle situazioni più diverse in cui vivono, talvolta negative, a incontrare la forza e la novità della fede, che cambia il cuore dell’uomo e lo restituisce alla grandezza e al sacrificio di un cammino, magari doloroso, ma sempre vero.
Se la Chiesa non giudica le situazioni di vita, in cui gli uomini sono talora costretti a vivere per l’arroganza del pensiero unico dominante, che ormai ha equiparato, di diritto e di fatto, l’omosessualità all’eterosessualità - la Chiesa si riduce ad essere una pura «terapia di sostegno» che, con modi garbati e talora sofisticati, in realtà abbandona l’uomo a vivere il suo male, come se fosse bene.
Questo processo, solo apparentemente caritatevole, oltre a essere un’evidente offesa alla dignità e alla responsabilità dell’uomo, è anche un’imperdonabile offesa a Dio e ai suoi diritti, cioè al bene profondo dell’uomo.
Su quest’atteggiamento verso l’omoeresia si gioca molto della verità della Chiesa di fronte all’uomo, ma si gioca anche molto del destino dell’uomo di fronte a se stesso e alla realtà.
Questo dibattito, cui abbiamo dato un contributo, ripropone l’attualità di un punto grandissimo del magistero del Vaticano II e di Paolo VI: la Chiesa è ancora «sommamente esperta di umanità»?
Da:
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Indagine sulla salute sessuale degli adolescenti.
Il ministero della Salute: genitori e studenti potranno decidere di non partecipare.
Ennesima bugia del clan Alfano? Oppure nasce il «dissenso informato»?
Qualunque sia la risposta, le motivazioni addotte dalla Battillomo sono tutte chiaramente pretestuose: la realtà è che lo Stato vuole sempre più inserirsi nella vita delle persone.
«Non c’è nessuna volontà da parte del ministero di sostituirsi alle famiglie su un terreno così delicato e così importante come quello dell’educazione all’affettività e alla sessualità. Anzi la nostra convinzione è che tra famiglie e istituzioni ci dev’essere piena collaborazione».
Una premessa indispensabile, secondo Serena Battilomo, responsabile del Settore donna e soggetti vulnerabili (bambini, anziani, disabili, ecc.) del ministero della Salute, per tornare a parlare dell’Indagine nazionale sulla salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti di cui avevamo già dato notizia il 6 luglio scorso. In quell’occasione avevamo anche dato conto di alcune perplessità emerse nell’ambito delle associazioni del Fonags (che raggruppa alcune realtà di genitori nell’ambito della scuola) a cui l’inchiesta era stata presentata in anteprima. Formule discutibili sul coito interrotto e sulla gravidanza. E poi una definizione minimalista della pillola del giorno dopo considerata semplicemente contraccettiva e non, come in realtà è, abortiva.
Ora Serena Battilomo assicura che il questionario è stato modificato proprio alla luce di quanto espresso dalle associazioni dei genitori.
Chiarita anche la questione del cosiddetto 'dissenso informato' che i genitori potranno esprimere alla luce dell’informativa diffusa in tutte le classi. «Abbiamo preferito parlare di 'dissenso' e non di 'consenso informato', perché nel secondo caso avremmo dovuto attendere la restituzione di un modulo firmato. Con il 'dissenso' invece – una volta presentato in classe il progetto e distribuito il materiale informativo – i genitori potranno esprimere la loro eventualità contrarietà alla partecipazione. Ma può essere il ragazzo stesso a decidere di non partecipare. In ogni caso siamo a disposizione per fornire tutte le informazioni sia attraverso gli insegnanti sia attraverso personale formato proprio per questa indagine».
Il 'dissenso informato' consente di non compromettere l’indagine, superando il rischio indifferenza che spesso è presente tra i genitori degli adolescenti. «Proprio perché vogliamo che questa indagine sia rappresentativa di quello che i ragazzi conoscono realmente a proposito della salute sessuale e riproduttiva – prosegue la responsabile del Settore salute della donna – vogliamo indagare anche in quell’ambito di popolazione forse meno consapevole e meno attenta ai problemi».
L’ultima indagine sul tema svolta nelle scuole risale a 17 anni fa. Ora, all’inizio dell’anno scolastico, prenderà il via il nuovo progetto che va a inquadrarsi in quel Piano nazionale sulla fertilità fortemente voluto dalla ministra Lorenzin. Si tratterà di una grande iniziativa.
In questa prima fase verranno coinvolti gli adolescenti – in particolare i sedicenni – poi toccherà agli studenti più grandi e infine agli universitari. In tutto circa ventimila studenti.
«Parlare di salute sessuale e riproduttiva è quanto mai urgente – riprende Battilomo – perché i giovani sono bombardati da informazioni a velocità della luce: i mondi dei social e di Internet riversano valanghe di dati che però non sono attenti alla gradualità con cui queste nozioni andrebbero proposte». Da qui la necessità di fare chiarezza, cercando di scoprire cosa sappiamo oggi di quello che i giovani pensano nell’ambito della sessualità e della riproduzione. Secondo l’esperta «molto poco».
Sia perché l’ultima indagine completa è dell’anno Duemila, sia perché sono cresciuti a dismisura comportamenti a rischio come alcol, droga, promiscuità sessuali.
«I giovani sanno che questi stili di vita possono incidere pesantemente sulla loro fertilità? Noi facciamo abbastanza per informarli? Eppure, per intervenire, il fatto di avere a disposizione un quadro epidemiologico nazionale rappresentativo è indispensabile».
Ma cosa significa intervenire? «Avviare un progetto di educazione nazionale all’affettività e alla sessualità in concerto con le famiglie e con la scuola. Siamo consapevoli che si tratta di un terreno a rischio, ma sarebbe colpevole da parte delle istituzioni non intervenire di fronte a una confusione crescente. Ma, lo ripeto, non faremo nulla senza il consenso delle associazioni familiari e dei genitori. Ogni passo verrà comunicato e deciso di comune accordo». E noi promettiamo fin d’ora di darne conto.
Luciano Moia venerdì 28 luglio 2017 per Avvenire.it
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Il «J’accuse!» di Padre Henri Boulad, gesuita egiziano
J’accuse! Padre Henri Boulad, gesuita egiziano esperto di islam, lancia un’infuocata filippica al mondo accademico musulmano e alle gerarchie ecclesiastiche cattoliche
Henri Boulad, 86 anni, dall’età di 19 anni membro della compagnia di Gesù. Una vita dedicata all’Egitto e alla sua ricca, vivace e numerosa comunità cristiana. In seguito ai recenti attentati contro i Copti ortodossi, ha deciso di uscire allo scoperto e pubblicare una lucida riflessione sul rapporto tra islam e violenza, intitolata J’accuse!
Un’analisi tanto profonda quanto inequivocabile che merita di essere letta, i cui contenuti sono stati approfonditi dallo stesso padre Boulad nel corso di una lunga intervista rilasciata a TV Libertés, in Francia, la settimana scorsa.
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TVL: padre Boulad, qual è la situazione dei cristiani in Egitto e qual è il loro ruolo in seno alla società?
HB: Su novanta milioni di abitanti, in Egitto vi sono dieci milioni di cristiani, duecentomila dei quali sono cattolici e il resto copti ortodossi. L’importanza morale e culturale della comunità cristiana è, al di là dei numeri, considerevole. Nel paese troviamo centosettanta scuole cattoliche private che rappresentano un’eccellenza assoluta, scuole che sono frequentate al 60% da studenti musulmani.
TVL: dopo i recenti attentati contro la comunità cristiana lei ha pubblicato una dura riflessione volta a destare le coscienze. A chi è rivolto, in particolare, il suo J’accuse! ?
HB: io accuso l’apparato ideologico che favorisce il comunitarismo, il radicalismo e, di conseguenza, il terrorismo islamico. Io accuso l’islam, poiché l’ideologia islamica è la fonte primaria del terrorismo.
Questa ideologia è costantemente e ufficialmente veicolata nelle scuole e nelle grandi università islamiche che formano gli imam. Essa è presente nelle fonti e nei testi fondamentali: il corano, gli hadith, la vita di Maometto etc., fonti che legittimano l’odio e la violenza dei musulmani verso i non-musulmani.
Se noi leggiamo questi testi, ci accorgiamo che coloro che chiamiamo “terroristi” sono in realtà coloro che mettono in pratica alla lettera i dettati coranici nonché l’esempio di Maometto stesso.
Io ho quindi deciso di denunciare le vere cause del pensiero estremista perché occorre avere il coraggio di dire che non si tratta di fonti islamiste ma di fonti islamiche in tutto e per tutto, io voglio denunciare ciò che l’islam è e ciò che l’islam insegna.
Occorre avere il coraggio e l’onestà intellettuale di riconoscere che il primo centro di radicalizzazione islamica del mondo intero è l’università al-Azhar del Cairo (dove papa Francesco si è recato di recente). Si tratta della più importante università sunnita ed è presentata in tutto l’occidente come un’istituzione moderata e tollerante, ma non è così!
Un esempio illuminante che dimostra quanto sia ingannevole pensare all’al-Azhar come ad un’istituzione moderata: di recente il presidente Al-Sisi ha a più riprese richiesto ufficialmente ed espressamente ai vertici dell’al-Azhar di sopprimere ogni insegnamento facente riferimento alle fonti islamiche che incitano all’odio e alla violenza contro ebrei e cristiani. Tali richieste sono sempre cadute nel vuoto.
Perché questo? Perché odio e violenza sono parte integrante e insopprimibile delle fondamenta dell’islam e quindi non possono non fare parte dell’insegnamento ufficiale degli imam e, di conseguenza, della loro predicazione. Sono proprio gli imam formati ad al-Azhar che in molte, troppe, moschee d’Europa vanificano ogni speranza di integrazione alla società occidentale delle nuove generazioni di giovani musulmani.
L’università al-Azhar del Cairo è il primo destinatario del mio J’accuse! perché essa è il primo responsabile del radicalismo che si diffonde in tutto il mondo.
TVL: se da un lato il mondo musulmano si radicalizza, dall’altro vi sono nuovi pensatori o filosofi impegnati nella diffusione di un islam più moderato che mette da parte le fonti inneggianti all’odio?
HB: è necessario distinguere l’islam dai musulmani. Una cosa è l’ideologia religiosa (e le istituzioni che la propagano), un’altra sono i c.d fedeli. Io ritengo che i musulmani siano le prime vittime dell’islam, del fascismo islamico. Molti di questi musulmani sono in realtà persone pacifiche.
Il fascismo islamico invece non lo è, e non può essere assolto.
Ritengo più coerente assolvere i terroristi che spesso sono cresciuti o sono stati immersi, nutriti a forza, di ideologia islamica e non hanno fatto altro che metterla in pratica, non hanno fatto nulla di diverso da ciò che i testi sacri, corano in primis, chiedono loro di fare.
Non è semplice dare un giudizio sulle “masse” del mondo musulmano.
Certo, al suo interno vi sono i giovani, vi sono i liberal-progressisti, che non accettano il radicalismo imposto dal “clero” islamico, in essi c’è la voglia di rompere le catene dell’ortodossia e dell’ortoprassia islamica. Tuttavia, si tratta di istanze ancora troppo minoritarie e, cosa ancor più grave, senza rappresentanza politica.
La maggioranza dei musulmani non chiede riforme e nello stesso tempo professa e vive una fede edulcorata, soft, limitandosi a rispettare la preghiera, il ramadan e parte dell’ortoprassi riguardante l’abbigliamento femminile o le regole alimentari, niente di più.
La stragrande maggioranza dei musulmani vive seguendo uno standard di regole sufficienti per essere accettati in seno alla umma, per mescolarsi alla comunità dei fedeli, senza preoccuparsi dell’islam ufficiale.
Questo perché l’islam, il vero islam del corano, degli hadith, l’islam dell’al-Azhar è semplicemente invivibile per la gente normale. Invivibile perché non lascia vivere. L’uomo è fatto per vivere tranquillo non per fare la jihad o per odiare.
In Egitto, coloro che incitano e predicano il vero islam, gli interpreti dell’islam delle fonti ufficiali, sono i Fratelli musulmani, non certo dei moderati… messi fuori legge da Al-Sisi, ma presenti ovunque, dappertutto, per questo l’islam non riesce a “modernizzarsi” e fallisce ineluttabilmente il necessario giro di boa della pace, del rifiuto dell’odio.
TVL: père Boulad, il vostro J’accuse! è rivolto anche alle gerarchie cattoliche, tanto francesi quanto vaticane. Perché?
HB: perché i vertici della Chiesa sono troppo compiacenti nei confronti dell’islam radicale!
Dal 1965, dal concilio vaticano II, la Chiesa ha deciso di iniziare un cammino di dialogo con l’islam. Quali sono i risultati di questo mezzo secolo di dialogo? Che quei paesi che un tempo erano le roccaforti della cristianità sono pieni di moschee mentre il mondo musulmano non conosce altro che discriminazioni, minacce e persecuzioni ai danni dei cristiani! Uccisi, cacciati! Che bel dialogo…
Non mancano i testi, i congressi, le conferenze, i caffè insieme, le dichiarazioni congiunte con i musulmani… abbiamo visto il papa recentemente al Cairo. E poi? Risultati concreti? Zero assoluto.
Per questo motivo, sono convinto che il solo vero dialogo provvisto di senso sia quello costruito sulla verità e sulla ragione. A carte scoperte, sul tavolo, come ebbe il coraggio di fare papa Benedetto XVI. Il coraggio di mettere il dito nella piaga, sfidando il politicamente corretto, e di domandare ai musulmani: “cosa volete farne delle incitazioni alla violenza e all’odio presenti nei vostri testi sacri e nell’insegnamento che da essi derivate?”.
Le conseguenze del discorso di Ratisbona furono alquanto paradossali. Da un lato, in occidente il Papa è stato accusato di intolleranza, razzismo e quant’altro, mentre nei paesi islamici si bruciavano chiese e si ammazzano i preti!
È chiaro che ognuno, cristiani e musulmani si richiama ai propri testi sacri, un punto d’incontro non può che essere trovato che sui valori comuni, la pace, il rispetto reciproco, la ragione, e sul riconoscimento dei fatti storici.
Ma siamo sicuri che l’islam sia pronto a questo passo? Guardando gli ultimi mille e cento anni di storia e ancor più gli ultimi cinquant’anni…direi di no.
TVL: il papa attuale, papa Francesco, è come voi un gesuita, questa circostanza non vi aiuta a dialogare con lui, a capire la sua strategia o a cercare di elaborarne una più efficace?
HB: Qualche mese fa gli ho scritto una lettera: “padre santissimo e fratello carissimo - visto che siamo entrambi gesuiti - vi ammiro e vi stimo ma permettetemi di farvi notare due cose. Primo, l’islam con il quale dialogate e del quale parlate voi non lo conoscete! (visto che in Argentina la presenza musulmana è pressoché inesistente), poiché l’islam è quasi impossibile da capire finché non ci si è vissuti con, a fianco, dentro! non si può studiare sui libri, non basta!
Secondo: questa invasione dell’Europa da parte di migranti musulmani che benedite e incoraggiate, merita una riflessione più profonda”.
A questa mia lettera, il papa non ha mai risposto. So con certezza che il cardinal Schönborn gliel’ha consegnata personalmente.
Allora ho deciso di tradurre la lettera in spagnolo e di fargliela consegnare da un amico, vescovo egiziano, in occasione della sua visita recente in Egitto, quindi l’ha ricevuta anche questa volta. E anche questa volta non mi ha risposto.
Ovunque, trovo persone che mi confermano che il papa risponde, o fa rispondere ai suoi segretari, anche ai biglietti di auguri di Natale.
Eppure a me, suo confratello, più anziano per giunta, della Compagnia di Gesù, che si rende disponibile a dialogare con lui su uno dei temi più scottanti della nostra epoca, niente, non risponde. Sono francamente sorpreso, e un po’ amareggiato.
L’integrale, in francese dell’intervista a padre Boulad, di cui questo pezzo è la fedele traduzione dei primi 20 minuti, può essere trovato su YouTube sul canale di TV Libertés.
Sempre in rete è disponibile, a questo link, il testo integrale del J’accuse! di padre Henri Boulad:
[https:]
A cura di Luca Costa, martedì 25 luglio 2017 da:
[www.culturacattolica.it]
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“Erasmus Plus” finanzia la “queerizzazione” dell’Europa con il progetto “QueerEUrope 2017”
Erasmus Plus, il programma dell’Unione europea 2014-2020 per l’Istruzione, la Formazione, la Gioventù e lo Sport, finanzia la queerizzazione dell’Europa con il progetto dal titolo inequivocabile QueerEUrope 2017.
Come si legge in un post pubblicato ad aprile scorso sul sito web del Gruppo fiorentino Giovani Glbti*, acronimo indecifrabile dove l’asterisco sta per qualsiasi genere di categoria sessuale, oltre a gay, lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali, il 10 giugno 2017 si è conclusa la prima iniziativa rivolta i giovani fino ai 30 anni, in possesso della lingua inglese, intitolata QueerEUrope 2017.
L’evento, che si è svolto dal 6 al 10 giugno 2017, ha visto la partecipazione di 28 giovani “attivist*” provenienti da quattro paesi europei che, dopo essere stati opportunamente “formati” sulle più attuali e dibattute tematiche lgbtiq*, hanno chiuso in “bellezza” la loro esperienza, partecipando alla mega parata gay del Christopher Street Day di Bielefeld.
Oltre a GGG di Firenze, sono state coinvolte nel progetto anche l’associazione LGBT tedesca SVLS, l’associazione LGBT slovacca Q-Centrum e l’Alleanza LGBT Ungherese.
A settembre il QueerEUrope 2017 SBARCA IN SICILIA
Ma i progetti finanziati da QueerEUrope 2017 continuano. A settembre 2017 è infatti già in programma un altro evento analogo, questo volta di 10 giorni, che si svolgerà in Sicilia
Sempre il Gruppo Giovani Glbti* di Firenze sul proprio sito invita infatti i suoi visitatori a partecipare, dal 2 al 12 settembre prossimi, presso la località di Sampieri nel comune di Scicli, in provincia di Ragusa, a:
“10 giorni di viaggio/scambio europeo giovanile su tematiche lgbtiq* per 30 giovani attivist* e interessat* al tema provenienti da Germania e Italia. Con le/i giovani del GGG di Firenze parteciperanno anche le/i giovani dell’associazione LGBT tedesca SVLS (together-virtuell.de/530-fotos.html)”.
TUTTO A SPESE DELL’EUROPA
Nel paragrafo dedicato ai costi viene specificato come il progetto sia finanziato dal programma Erasmus+ cosicché le spese a carico dei partecipanti risultano del tutto irrisorie:
“QueerEUrope 2017 è un progetto finanziato grazie al programma europeo Erasmus+.
La quota di partecipazione è di 40 euro ed include assicurazione, vitto, alloggi, trasporti interni che non saranno rimborsati in caso di rinuncia; potranno invece essere rimborsate al termine del progetto le spese per i trasporti fino ad un massimo che sarà comunicato successivamente in sede di selezione“.
Mentre l’Unione Europea soccombe drammaticamente sotto gli implacabili colpi incrociati sferrati dall’immigrazione di massa e dall’inarrestabile calo demografico, i burocrati di Bruxelles promuovono e finanziano scellerati scambi culturali “ri-educativi”, volti a inculcare nelle nuove generazioni il suo suicida diktat etico relativista.
Rodolfo de Mattei per
[https:]
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Nelle scorse ore i genitori del piccolo Charlie si sono arresi alla politica eutanasica di morte dell'Ospedale inglese.
Proprio ieri 25 luglio la Commissione del Senato ha rinviato la votazione sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (eutanasia).
Occorre non abbassare la guardia: appello al Comitato Difendiamo i Nostri Figli perchè metta in atto tutte le iniziative di lobbying possibili.
Biotestamento-eutanasia: troppi emendamenti, la discussione slitta in autunno Il dibattito in Senato sarebbe dovuto iniziare oggi, dopo l'approvazione alla Camera di aprile
di redazione - Lug 25, 2017
Quella in corso sarà ricordata in Italia come un’estate particolarmente calda e drammaticamente priva di risorse idriche. Ma non sarà ricordata come l’estate dell’approvazione della legge sul biotestamento-eutanasia.
Troppi emendamenti.
Il testo, la cui discussione in Senato era prevista per oggi 25 luglio, slitta infatti a settembre per via di una enorme mole di emendamenti: circa tremila. Troppi per essere discussi entro la chiusura dei lavori parlamentari per la pausa di agosto. È così che il discorso viene rimandato all’autunno prossimo, quando la possibilità concreta è che questa legge venga messa dietro ad altri provvedimenti considerati più urgenti, che devono essere discussi prima della fine della legislatura.
Le reazioni.
Prevedibile la reazione negativa dei radicali. “Una legge tradita”, commenta l’Associazione Luca Coscioni. Questa la giustificazione della presidente della commissione Sanità Emilia Grazia De Biasi: “Siamo in presenza di un atteggiamento di ostruzionismo, vista la grande quantità di interventi previsti in commissione e la presentazione di tremila emendamenti. Ciò rende il percorso molto accidentato”.
Più cauta Laura Bianconi, capogruppo Ap in Senato: “Certi temi, come il biotestamento, vanno approfonditi per le implicazioni etiche che comportano. Lavoriamo senza compressione, l’orizzonte è la fine della legislatura”.
Il testo.
Le norme erano passate alla Camera nell’aprile scorso, poco dopo la morte di Dj Fabo.
Con l’approvazione del testo, passava il consenso informato del fine vita, ma era stata introdotta, rispetto al disegno originale, l’obiezione di coscienza per il medico che si rifiuta di “staccare la spina”.
Il cuore della legge eutanasica è l’art. 3, che recita: “Ogni persona maggiorenne, capace di intendere e volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso Disposizioni anticipate di trattamento, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”.
da:
[www.interris.it]
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Sulle coste, soprattutto tirreniche e poi, nel centro-sud, il paesaggio italiano presenta tuttora alcune caratteristiche alle quali in genere non si fa caso ma che invece costituiscono un’indelebile testimonianza di un lungo e sanguinoso passato del quale si è persa la memoria. Si tratta delle torri a mare che costellano il litorale e dei numerosi paesi arroccati, in modo apparentemente incomprensibile, su ripidi pendii, ai quali si accede spesso solo attraverso una, ed una sola strada, incassata tra pareti altrettanto scoscese.
Non è però difficile, riflettendo un momento, ricordare che tutto questo, al pari, ad esempio, dei cognomi e delle varie alture che portano ancora il nome Saraceno, deriva dai quasi mille anni a partire dall’800, in cui l’Italia centro-meridionale e le isole furono oggetto delle razzie dei pirati musulmani ed, in qualche caso, come la Sicilia e certe zone della Puglia, caddero addirittura sotto la dominazione islamica.
Se, fino ad alcuni decenni orsono, ricordare tali vicende storiche poteva anche aver perso interesse stante il declino della civiltà musulmana, oggi, che il prepotente risveglio dell’islam suggerirebbe magari una loro rivisitazione, è il political correct che provvede a mantenere l’oblio tacciando di islamofobia ogni ingombrante ricordo di certi fatti.
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Rinaldo Panetta – I SARACENI IN ITALIA – Ugo Mursia Editore – Milano – 2016 - pag. 302 - €.17,00.
È dunque non poco merito di Rinaldo Panetta, già ufficiale durante la 2° guerra mondiale poi, dedito a studi di storia militare, l’essersi dato cura di reperire in archivi, storie locali e testi antichi, tutti pressoché introvabili, le tracce di un vistosissimo fenomeno che ha terrorizzato per secoli le popolazioni rivierasche – e non solo- della nostra nazione. Un fenomeno che le ha costrette ad erigere strumenti di avvistamento e difesa (le torri a mare) e spesso, ad abbandonare le coste per ricostruire gli abitati in luoghi alti ed inaccessibili, più facili però a difendersi.
Partendo dalle coste delle attuali Algeria e Tunisia e, fintantoché fu loro soggetta, anche dalla Sicilia, le navi saracene si spinsero per secoli, con metodica continuità, lungo la penisola attratte dalle ricchezze del paese e dalla possibilità di far razzia di schiavi destinati ad una sorte ancor più terribile di quella di coloro che invece, per essere vecchi o malati o infanti, erano di regola uccisi.
Nelle sue fitte pagine – peraltro ben leggibili- il libro di Panetta presenta così una serie pressoché infinita di episodi che sono poi solo una minima parte di quelli realmente accaduti; tutti, sempre apparentemente uguali: assedi, eccidi, razzie di beni e persone destinate ai mercati nord-africani per soddisfare (le donne ed i giovinetti) anche le voglie più libidinose dei ricchi ‘credenti’.
Mentre dunque si costruivano cattedrali o scrivevano Dante e Petrarca, un po’ tutta l’Italia peninsulare e costiera visse invece nel terrore degli sbarchi improvvisi, sempre pronta a chiudersi in lunghi assedi nella speranza di aiuti che spesso non arrivavano o arrivavano tardi o in modo insufficiente.
Non è neanche un caso, ad esempio, che in larghe zone del sud manchino abitazioni in campagna; le famiglie preferivano infatti, compiere ogni giorno lunghi tratti a piedi per recarsi alle terre (a costo di evidenti diseconomie) pur di non rischiare di divenire preda delle temutissime incursioni notturne dei saraceni che si spingevano anche nell’entroterra.
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Ma i meriti dell’autore del libro non si fermano qui. Da buon militare che, ogni tanto, non disdegna qualche avvincente descrizione di battaglie, Panetta non omette neanche, in pur veloci passaggi, di ricordare i motivi di fondo che ispiravano i comportamenti degli aggressori riuscendo così anche a dare un contributo di non poco conto per smontare molti luoghi comuni.
Eccone alcuni.
Primo e principale, non si trattò solo di imprese banditesche. Infatti, i proventi delle razzie costituivano regolari fonti di entrata degli emiri cioè – diremmo oggi- degli stati musulmani che facevano da copertura alle imprese piratesche, riservandosi regolarmente una parte del bottino.
Ma, il movente fondamentale forse non era neanche questo bensì la volontà di colpire gli infedeli (cioè i cristiani) e, non a caso, proprio nella penisola sede di Roma e dunque della città del Pontefice.
Non si deve dimenticare che lo stesso Profeta diede inizio all’espansione della nuova religione con razzie di carovane e successiva sottomissione delle vittime pena la loro eliminazione fisica.
Non meno interessante è poi il confronto che emerge tra le popolazioni cristiane: laboriose, capaci di coltivare le terre e di operare artigianalmente insomma, di produrre ricchezza e le genti dell’islam invece, prevalentemente dedite a vivere delle ricchezze prodotte da altri (la storia dei nostri giorni non mostra, in fin dei conti, nulla di diverso).
Fu del resto nei secoli della dominazione musulmana che il nord-africa passò dal costituire il granaio e il fiore all’occhiello dell’impero romano allo stato attuale.
Spicca quindi il ben diverso trattamento che era riservato al nemico. ai cristiani catturati era riservata una vita da schiavi dediti ai lavori forzati o, se si trattava di giovani donne, a riempire gli harem per essere poi lasciati, se vecchi o malati, a marcire nei cosiddetti “bagni di Barberia”: stanzoni fetidi pieni di ogni sporcizia con totale e voluto disprezzo di ogni pur minimo diritto umanitario.
Infine nell’ultima parte finale del libro, dedicata agli eventi dei secoli dopo il 1000, risplende la schiera dei religiosi (Trinitari e Mercedari) dediti in Europa alla raccolta di elemosine per il riscatto degli schiavi, spesso a rischio della vita; pronti anche, all’occorrenza, ad offrire se stessi come ostaggi per ottenere la liberazione di questi poveretti.
È dunque tutto un mondo dimenticato quello che emerge dalla lettura del libro; un mondo che fu pieno di enormi sofferenze ma anche di radiosi esempi di virtù e che ben ricorda come le persecuzioni non finirono con l’Editto di Milano dell’imperatore Costantino per riprendere nel XX secolo con la strage degli Armeni ed i milioni di vittime dell’ideologia comunista ma hanno accompagnato l’intera storia del cristianesimo anche in secoli e luoghi ai quali poco, in genere, si pone mente.
Andrea Gasperini
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L’Italia si accorge di avere avuto un ministro con delega alla Famiglia solo il giorno delle sue dimissioni.
L’ex esponente di Area Popolare Enrico Costa in oltre un anno mezzo di mandato non ha lasciato alcun segno se non legare in maniera indissolubile il suo nome a quello dell’approvazione delle Unioni Civili.
Proprio sotto il suo mandato si sugellò infatti lo storico accodo tra i moderati di Ndc guidati dall’allora Ministro degli Interni, Angelino Alfano, e il Partito Democratico di Renzi per far votare la legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso, privata però della Stepchild Adoption, ovvero la possibilità di adozione del figlio del partner.
L’intesa arrivò dopo che il testo si era impantanato in Senato per via della marcia indietro dei grillini e dei mal di pancia dei centristi e dei cattolici del Pd. A lanciare il salvagente fu quindi Alfano. “Se si tolgono le adozioni, la legge la votiamo anche domani”, disse l’ex delfino di Berlusconi a metà febbraio del 2016, mentre il ddl Cirinnà sembrava avviato su un binario morto.
In realtà Renzi aveva preparato il terreno al compromesso qualche settimana prima, esattamente alla vigilia dal grande Family day del 30 gennaio con oltre un milione di persone al Circo Massimo. In pratica, il 29 di quello stesso mese l’ex premier propose al Presidente della Repubblica la nomina di Enrico Costa come Ministro agli Affari regionali con delega alla Famiglia. Il tutto avvenne nella cornice di un piccolo rimpasto dell’esecutivo, che permise all’Ncd di ottenere una manciata di ulteriori poltrone. La mossa non passò inosservata e tutti i commentatori la legarono al patto in vista del voto sulle unioni civili.
Le cose in aula poi andarono come previsto da Renzi e Costa è stato il primo ministro alla Famiglia (prima di lui Guidi, Bindi, Giovanardi, Riccardi e varie deleghe tenute dalla presidenza del Consiglio) ad assistere inerme allo smantellamento del diritto famigliare, che vede venire meno il primato della differenza sessuale tra i coniugi e dell’apertura alla genitorialità.
Insomma se tutto è famiglia niente è più famiglia, come poi confermeranno le sentenze della giurisprudenza creativa che legittimano anche il presunto diritto di ottenere un figlio che per forza di cose sarà, fin dal suo concepimento, orfano della madre o del padre.
E cosa faceva Costa mentre avveniva tutto questo?
Al di là della diffusione di qualche comunicato in cui richiamava i giudici a rispettare la legge e non far rientrare per via giurisprudenziale quello che era uscito dalle proposte in Parlamento, l’esponente di Ncd non ha mai voluto rischiare la sua posizione per difendere quella visione pre-politica e antropologica della famiglia, riconosciuta anche dalla Costituzione italiana.
Lo stesso Costa ha raccontato che a pesare sulle sue dimissioni sono state infatti le tensioni sullo ius soli e la riforma penale voluta dal ministro della Giustizia Orlando, non le numerose proposte di legge già depositate in parlamento dal Pd con cui si chiede il matrimonio egualitario, le adozioni per le coppie dello stesso sesso e persino la legalizzazione dell’utero in affitto.
D’altra parte nessuno si aspettava di aver trovato un alleato contro la deriva antropologica che minaccia la cellula fondamentale della società.
In un’intervista rilasciata a Repubblica Tv pochi giorni prima dell’approvazione definitiva delle unioni civili nel maggio 2016, incalzato dalla giornalista sul diritto di filiazione dei gay, Costa spiegò che le adozioni furono eliminate per dare “un percorso più rapido alla legge”.
Tutto qui, questione di mero calcolo politico. Il ministro della famiglia non spese una parola sul diritto dei bambini ad avere un padre e una madre e sul ruolo sociale della famiglia naturale benché la giornalista chiedesse a lui motivi delle divisioni nella maggioranza. Non solo, ma Costa per non apparire “conservatore” ci tenne anche a sottolineare che quando sedeva al Consiglio regionale del Piemonte fu il primo a presentare una proposta sul registro delle unioni civili.
In effetti è una medaglia da appuntarsi sul petto se si parla negli studi del giornale fondato da Eugenio Scalfari.
"L'estremismo di centro può essere appassionante, ma rischia di essere velleitario", dice ora Costa facendo un esercizio di gattopardismo.
I risultati delle ultime amministrative hanno dato uno slancio quasi insperato ad un redivivo centro destra che adesso richiama sé anche i tanti che hanno fatto da stampella prima ai governi Renzi, poi Gentiloni. Costa probabilmente si prepara quindi a tornare nelle file di Forza Italia tra le quali ha militato fin dai primi anni 2000 o a dare vita a qualche sigla centrista da portare in dono a Berlusconi per una federazione moderata.
Si sappia però che alle urne i conti si faranno con le famiglie che hanno dato già prova di avere una memoria di ferro nelle ultime tornate elettorali.
Costa ci ricorderemo.
Marco Guerra, 21-07-2017 per
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P. Reginald Garrigou-Lagrange O.P.
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Rigoroso discepolo degli insegnamenti di san Tommaso d’Aquino e per questo definito «tomista di stretta osservanza», ma anche un metafisico e allo stesso tempo un contemplativo come san Giovanni della Croce.
È Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), il teologo domenicano conosciuto come il capostipite del tomismo romano e ricordato ancora oggi come uno dei grandi avversari della Nouvelle théologie impersonata da pensatori come Yves-Marie Congar, Henri de Lubac o Jean Daniélou.
Oggi, del “maestro dell’Angelicum”, (l’ateneo pontificio di Roma dove insegnò per più di mezzo secolo), rimane intatta e attuale la forza del suo pensiero, a cominciare da capolavori come Dieu, son existence et sa nature, De Revelatione, Le tre età della vita interiore, Perfezione cristiana e contemplazione, o di un testo giovanile del 1909, spesso citato e molto amato da Paolo VI, come Le sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques.
Réginald Garrigou-Lagrange incise così profondamente sulla teologia della prima metà del Novecento da essere definito da François Mauriac «il mostro sacro del tomismo».
Al secolo Gontran Marie, nasce in Guascogna il 21 febbraio del 1877 e nel 1897 deciderà di entrare nell’ordine dei frati predicatori (dopo aver abbandonato gli studi in medicina e una fidanzata). Studia filosofia alla Sorbona di Parigi e poi teologia alla famosa scuola belga Le Saulchoir: Garrigou-Lagrange si trova in perfetta sintonia con il magistero cattolico a cominciare dall’enciclica sulla riscoperta del tomismo di Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) o quella di san Pio X che condanna il modernismo (Pascendi, 1907).
Diventa – direbbe uno dei suoi futuri più grandi estimatori, il cardinale Pietro Parente – un vero «campione della teologia»; i suoi modelli di riferimento sono i commentatori classici del tomismo: da Gaetano a Báñez, da Giovanni da san Tommaso a Billurat.
Ma è con l’approdo all’Angelicum di Roma (1909) e con la fondazione della cattedra di Ascetica e mistica (nel 1917, assieme al confratello Juan Arintero) che emerge il Garrigou-Lagrange più originale e innovativo, innamorato della spiritualità di san Tommaso e della mistica di Giovanni della Croce.
Nel 1926 tocca proprio a lui, in veste di consultore, dare il parere definitivo al titolo di Dottore delle Chiesa per il santo riformatore del Carmelo.
Garrigou-Lagrange sarà in grado di infondere la passione per la mistica e la contemplazione in un suo promettente allievo di dottorato: Karol Wojtyla (1948). Il futuro Giovanni Paolo II si laurea con il teologo discutendo una tesi sulla fede nelle opere di Giovanni della Croce; a padre Garrigou-Lagrange Wojtyla rimarrà sempre legato, ricordandolo pubblicamente, nel ventennale della morte, nel 1984, come un «compianto e amato maestro».
Gli anni che anticipano il Vaticano II vedono Garrigou-Lagrange simpatizzare per le tesi dell’Action française (poi sconfessata da Pio XI, a cui prontamente obbedirà), aderire al cattolicesimo di stampo franchista e allontanarsi da Maritain dopo la pubblicazione di Umanesimo integrale; sarà questo il periodo degli scontri teologici con Blondel, De Lubac (feroce sarà la sua critica a Surnaturel del 1946) o Chenu.
Amaro il suo commento a un articolo di Daniélou apparso su “Études” nel dopoguerra, in cui sosteneva «un ritorno alle dottrine patristiche come assai più vicine alla mentalità moderna» rispetto a san Tommaso.
Di fronte a tante critiche la sua replica (raccolta in via confidenziale dal suo discepolo Innocenzo Colosio) è ferma: «Io sono l’ultimo tomista; dopo di me il tomismo muore!».
Se per gli avversari è soltanto il «piccolo fonografo di san Tommaso», sono questi però gli anni dei grandi riconoscimenti: sarà uno degli estensori dell’enciclica di Pio XII Humani generis (1950) e papa Giovanni XXIII lo nomina perito della commissione preparatoria del Concilio Vaticano II (1960), incarico che Garrigou-Lagrange, già dal 1955 consultore del Sant’Uffizio di Alfredo Ottaviani, non potrà accettare, per l’aggravarsi della sua salute: ma resterà sempre grato a papa Roncalli per quel «gesto di stima».
Rimangono fisse nella memoria di chi lo ha conosciuto le sue lezioni del sabato sera all’Angelicum, a cui accorrevano masse di studenti provenienti dagli altri atenei pontifici solo per ascoltarlo; o l’impronta lasciata su molti suoi allievi divenuti teologi di fama proprio durante il Vaticano II, come Michael Browne, Mario Luigi Ciappi (entrambi futuri cardinali) o Rosaire Gagnebet.
O ancora il suo proverbiale distacco dai beni materiali: per tutta la vita ha destinato l’intero stipendio da professore e i proventi dei diritti d’autore ai poveri e ai mendicanti che venivano a bussare alla porta della sua cella; proverbiale è anche la sua devozione per i bambini morti in concetto di santità, ai quali dedica parecchi saggi).
Ridotto da una malattia incurabile alla progressiva perdita della lucidità, dopo un soggiorno nel convento di Santa Sabina a Roma viene ricoverato alla clinica San Domenico in piazza Sassari; lì trova la forza per le sue estreme preghiere e per sperimentare, prima della morte il 15 febbraio 1964, la sua ultima «notte oscura» – come rivelò il domenicano Innocenzo Venchi – alla stregua del suo amato Giovanni della Croce.
(Filippo Rizzi, per Avvenire 2014)
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Rigoroso discepolo degli insegnamenti di san Tommaso d’Aquino e per questo definito «tomista di stretta osservanza», ma anche un metafisico e allo stesso tempo un contemplativo come san Giovanni della Croce.
È Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), il teologo domenicano conosciuto come il capostipite del tomismo romano e ricordato ancora oggi come uno dei grandi avversari della Nouvelle théologie impersonata da pensatori come Yves-Marie Congar, Henri de Lubac o Jean Daniélou.
Oggi, del “maestro dell’Angelicum”, (l’ateneo pontificio di Roma dove insegnò per più di mezzo secolo), rimane intatta e attuale la forza del suo pensiero, a cominciare da capolavori come Dieu, son existence et sa nature, De Revelatione, Le tre età della vita interiore, Perfezione cristiana e contemplazione, o di un testo giovanile del 1909, spesso citato e molto amato da Paolo VI, come Le sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques.
Réginald Garrigou-Lagrange incise così profondamente sulla teologia della prima metà del Novecento da essere definito da François Mauriac «il mostro sacro del tomismo».
Al secolo Gontran Marie, nasce in Guascogna il 21 febbraio del 1877 e nel 1897 deciderà di entrare nell’ordine dei frati predicatori (dopo aver abbandonato gli studi in medicina e una fidanzata). Studia filosofia alla Sorbona di Parigi e poi teologia alla famosa scuola belga Le Saulchoir: Garrigou-Lagrange si trova in perfetta sintonia con il magistero cattolico a cominciare dall’enciclica sulla riscoperta del tomismo di Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) o quella di san Pio X che condanna il modernismo (Pascendi, 1907).
Diventa – direbbe uno dei suoi futuri più grandi estimatori, il cardinale Pietro Parente – un vero «campione della teologia»; i suoi modelli di riferimento sono i commentatori classici del tomismo: da Gaetano a Báñez, da Giovanni da san Tommaso a Billurat.
Ma è con l’approdo all’Angelicum di Roma (1909) e con la fondazione della cattedra di Ascetica e mistica (nel 1917, assieme al confratello Juan Arintero) che emerge il Garrigou-Lagrange più originale e innovativo, innamorato della spiritualità di san Tommaso e della mistica di Giovanni della Croce.
Nel 1926 tocca proprio a lui, in veste di consultore, dare il parere definitivo al titolo di Dottore delle Chiesa per il santo riformatore del Carmelo.
Garrigou-Lagrange sarà in grado di infondere la passione per la mistica e la contemplazione in un suo promettente allievo di dottorato: Karol Wojtyla (1948). Il futuro Giovanni Paolo II si laurea con il teologo discutendo una tesi sulla fede nelle opere di Giovanni della Croce; a padre Garrigou-Lagrange Wojtyla rimarrà sempre legato, ricordandolo pubblicamente, nel ventennale della morte, nel 1984, come un «compianto e amato maestro».
Gli anni che anticipano il Vaticano II vedono Garrigou-Lagrange simpatizzare per le tesi dell’Action française (poi sconfessata da Pio XI, a cui prontamente obbedirà), aderire al cattolicesimo di stampo franchista e allontanarsi da Maritain dopo la pubblicazione di Umanesimo integrale; sarà questo il periodo degli scontri teologici con Blondel, De Lubac (feroce sarà la sua critica a Surnaturel del 1946) o Chenu.
Amaro il suo commento a un articolo di Daniélou apparso su “Études” nel dopoguerra, in cui sosteneva «un ritorno alle dottrine patristiche come assai più vicine alla mentalità moderna» rispetto a san Tommaso.
Di fronte a tante critiche la sua replica (raccolta in via confidenziale dal suo discepolo Innocenzo Colosio) è ferma: «Io sono l’ultimo tomista; dopo di me il tomismo muore!».
Se per gli avversari è soltanto il «piccolo fonografo di san Tommaso», sono questi però gli anni dei grandi riconoscimenti: sarà uno degli estensori dell’enciclica di Pio XII Humani generis (1950) e papa Giovanni XXIII lo nomina perito della commissione preparatoria del Concilio Vaticano II (1960), incarico che Garrigou-Lagrange, già dal 1955 consultore del Sant’Uffizio di Alfredo Ottaviani, non potrà accettare, per l’aggravarsi della sua salute: ma resterà sempre grato a papa Roncalli per quel «gesto di stima».
Rimangono fisse nella memoria di chi lo ha conosciuto le sue lezioni del sabato sera all’Angelicum, a cui accorrevano masse di studenti provenienti dagli altri atenei pontifici solo per ascoltarlo; o l’impronta lasciata su molti suoi allievi divenuti teologi di fama proprio durante il Vaticano II, come Michael Browne, Mario Luigi Ciappi (entrambi futuri cardinali) o Rosaire Gagnebet.
O ancora il suo proverbiale distacco dai beni materiali: per tutta la vita ha destinato l’intero stipendio da professore e i proventi dei diritti d’autore ai poveri e ai mendicanti che venivano a bussare alla porta della sua cella; proverbiale è anche la sua devozione per i bambini morti in concetto di santità, ai quali dedica parecchi saggi).
Ridotto da una malattia incurabile alla progressiva perdita della lucidità, dopo un soggiorno nel convento di Santa Sabina a Roma viene ricoverato alla clinica San Domenico in piazza Sassari; lì trova la forza per le sue estreme preghiere e per sperimentare, prima della morte il 15 febbraio 1964, la sua ultima «notte oscura» – come rivelò il domenicano Innocenzo Venchi – alla stregua del suo amato Giovanni della Croce.
(Filippo Rizzi, per Avvenire 2014)
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Negri: Perché siamo grati a Pietro Fiordelli, il vescovo che ci insegnò a difendere la vita da cristiani. Cioè senza ideologia
L’invito alla lettura scritto da Luigi Negri per il libro “La difesa sociale della famiglia”, dedicato al vescovo di Prato inventore delle “Giornate per la vita”
Anticipiamo l’invito alla lettura che monsignor Luigi Negri ha scritto al libro di Giuseppe Brienza La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, dedicato al primo vescovo di Prato (dal 1954 al 1991) “inventore” delle “Giornate per la vita”. Il volume è in uscita per la casa editrice Leonardo da Vinci (Roma 2014, 136 pagine, 15 euro).
Sono lieto di poter dare un contributo, sia pur limitato, a questo ottimo volume nel quale si esprime il dovere di profonda gratitudine che le comunità ecclesiali italiane dovrebbero avere per mons. Pietro Fiordelli (1916-2004), vescovo di Prato dal 1954 al 1991, e per ristabilire, come di fatto viene ristabilita, la verità della sua straordinaria esperienza ecclesiale e pastorale.
Inizio con un ricordo. Ero al liceo quando scoppiò in Italia il famoso caso del vescovo di Prato che, avendo obbedito alle disposizioni del Codice di diritto canonico, fu rinviato a giudizio e poi condannato, in prima istanza, ad un anno di reclusione.
Ricordo ancora la voce del presidente del tribunale che, in modo incolore e metallico, alla lettura della sentenza – che udii attraverso la radio – diceva: «… condanna Fiordelli Pietro…» e poi l’entità della pena.
Il caso del vescovo di Prato provocò una serrata e intelligente unità dei cattolici – soprattutto dei giovani presenti nella scuola e nell’università, luoghi in cui cominciava un profondo attacco di carattere secolaristico e anticattolico –, volta a ritrovare il senso della presenza della Chiesa e della sua missione.
Credo che, senza volerlo, mons. Fiordelli abbia aiutato centinaia e centinaia di giovani a ritrovare, nella militanza cristiana, una ragione di vita e di impegno, ma abbia anche scatenato l’anticristianesimo. Prova ne sia la nascita in quegli anni di moltissimi circoli radicali.
Ricordo ancora che in un’assemblea infuocata, al Liceo Berchet di Milano dove io studiavo e, tra l’altro, insegnava mons. Luigi Giussani, ricevetti il primo di una lunga serie di sputi, che poi ho ricevuto durante tutta la mia vita sia di laico cattolico che di prete, da parte di questa realtà minoritaria ma terribilmente protesa alla creazione di un’egemonia ideologica su cui non era ammessa nessuna discussione.
Tale egemonia, purtroppo, ha preso sempre più piede, basti vedere la situazione in cui oggi versa la società italiana.
Una situazione che è stata determinata dalla vittoria di questo radicalismo violento diventato poi, come aveva previsto in modo lungimirante Augusto Del Noce, un radicalismo di massa, con la protezione dell’allora partito comunista – che mutò la sua anima popolare in anima radicale, forse addirittura “radical-chic” –, per poter avere il controllo della mentalità del nostro popolo e attuare ciò che papa Francesco, in maniera vigorosa, ha indicato come la dittatura del pensiero unico anticristiano.
Questo è stato il motivo per cui ho sempre avuto un occhio di riguardo, pur vivendo in un’altra città, per la presenza di mons. Fiordelli.
Sono certo di aver compreso ed approfondito l’intuizione che oggi il volume di Giuseppe Brienza porta a splendida compiutezza: mons. Pietro Fiordelli lavorò per la difesa della famiglia, spendendosi in un’intensa, profonda, intelligente ed equilibrata pastorale che assunse, in più di un’occasione, un carattere obiettivamente profetico.
Capì e fece capire – certamente alla sua diocesi, ma non solo – che la battaglia per la difesa della sacralità della vita, della famiglia, della paternità, della maternità, dell’educazione dei figli, è stata ed è la grande battaglia della Chiesa e del popolo del nostro paese, e che la si poteva fare non soltanto con la chiarezza dei princìpi, che mons. Fiordelli sapeva evocare da par suo, ma anche con una vera esperienza di famiglia cristiana.
La sua battaglia non è stata ideologica, perché è stata l’espressione, nella Chiesa e nella società italiana, di quella novità di vita umana e sociale che è contenuta nella famiglia stessa.
I valori, ideali e pratici, sono stati l’espressione di questa vita; non si poteva pensare di poter continuare questa battaglia sui valori della famiglia senza contemporaneamente incrementare l’esperienza di novità, di verità, di intensità cristiana e missionaria, delle famiglie cristiane.
In questo io ritengo che mons. Fiordelli sia stato un grande vescovo, in un momento delicato della vita del nostro Paese, e abbia dato una straordinaria testimonianza di vita cristiana, forte ed intelligente.
+ Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa
settembre 1, 2014 Luigi Negri per
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Rino Cammilleri: Il vescovo che sfidò il Pci. Con il sostegno di tre Papi
Monsignor Pietro Fiordelli scomunicò due coniugi che si erano sposati civilmente, venne querelato dai comunisti per diffamazione e poi condannato da un tribunale
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Ero studente in Scienze Politiche all'Università di Pisa negli "anni caldi". Cioè, proprio nell'occhio del ciclone.
I docenti da baroni si erano trasformati in tribuni della plebe e i libri su cui dovevo studiare sembravano editi a Mosca (ce n'era anche uno di Carlo Cardia - oggi su tutt'altre posizioni- che propugnava i diritti costituzionali dell'ateismo).
Ebbene, quasi tutti questi testi ricordavano con indignazione l'orribile «caso del vescovo di Prato», avvenuto nel 1956, ma mai dimenticato dai livorosi compagni.
I succubi democristiani non finivano di vergognarsene sebbene fossero passati quasi vent'anni.
IL VESCOVO PIETRO FIORDELLI
Il vescovo in questione era Pietro Fiordelli (1916-2004) e fu pastore di Prato per quasi quarant'anni.
Fatto vescovo neanche quarantenne, il 12 agosto 1956 fece pubblicare una sua lettera sul giornale della parrocchia al cui responsabile l'aveva inviata. Riguardava due coniugi che si erano sposati col solo rito civile, in quanto lui era un militante comunista.
In base al diritto canonico il vescovo invitava il parroco in questione a considerare i due come pubblici concubini e quindi a escluderli dai sacramenti. Non solo. Anche i rispettivi genitori avevano mancato ai loro doveri cristiani permettendo che i figli contraessero matrimonio al di fuori della Chiesa, perciò non si doveva procedere alla tradizionale benedizione pasquale della loro casa.
Sempre codice canonico alla mano, il vescovo rincarò la dose ordinando che la sua lettera fosse letta da tutti i pulpiti della diocesi.
Lì per lì non successe niente, anche perché ai coniugi in questione e alle loro famiglie non importava affatto quel che di loro pensavano i preti e il vescovo, il rito nuziale scelto lo dimostrava. Epperò si era negli anni Cinquanta e Prato non era ancora divenuta un feudo rosso.
La città era piccola, la gente mormorava. Qualcuno arrivò a recapitare pizzini insultanti alla coppia scomunicata.
Ma ciò che fece traboccare il vaso, tanto per cambiare, furono i soldi. Infatti, lo sposato "civile" aveva un negozio che in breve si ritrovò la clientela dimezzata.
Possibile che fosse tutta colpa dell'anatema vescovile? Infatti, come abbiamo detto, a quel tempo Prato era un centro di dimensioni relative e non è pensabile che la clientela non sapesse che quello nel tempo libero faceva l'attivista del Pci.
IL PCI E LA QUERELA
Boh. Sia come sia, il Partito prese in pugno la faccenda e convinse gli scomunicati a querelare il vescovo per diffamazione.
La cosa finì pure in Parlamento, dove il Pci poteva contare sui reggicoda socialisti, e partì anche una campagna internazionale il cui vero bersaglio era il papa Pio XII, che non molti anni prima aveva avallato la scomunica ai comunisti e a quelli che in ogni modo li aiutavano o condividevano.
Del caso di Prato si occupò perfino il famoso settimanale americano Life, creato dal fondatore della rivista Time, Henry Luce, che pubblicò con grande risalto tutte le foto degli implicati nella vicenda pratese. Henri Luce era anche marito di Claire Boothe Luce, prima donna ambasciatrice americana a Roma, fattasi cattolica nel 1946 dopo avere ascoltato un discorso di Pio XII.
Il Pontefice sostenne subito il suo vescovo mentre tutti gli occhi erano fissi sul tribunale adito dagli scomunicati. E i giudici, trovandosi vasi di coccio tra vasi di ferro, dopo interminabili discussioni in punta di diritto credettero di risolvere la situazione condannando il vescovo di Prato a un'ammenda simbolica, 40mila lire.
Ora, la somma non era poco per quei tempi, ma non era nemmeno molto. Però la condanna, anche se simbolica, sempre condanna era. E il vescovo era stato condannato per aver fatto il suo mestiere di pastore a norma di catechismo e dottrina. La quale vieta ai preti di dare i sacramenti a chi non li vuole; o li vuole, sì, ma alle sue condizioni e non a quelle della Chiesa.
Si dirà che il querelante allegava di aver visto rarefarsi la sua clientela dopo la pronuncia vescovile. Tuttavia il bigottismo di certuni non poteva certo essere imputato giudiziariamente al vescovo. Doveva, semmai, il querelante pensarci prima: sapendo come la pensavano i suoi clienti, poteva evitare il gesto inutilmente provocatorio di non sposarsi in chiesa. Oppure, se teneva tanto alle sue idee, essere disposto a pagarne il prezzo.
Malgrado ciò il tribunale aveva dato ragione a lui e torto al vescovo.
LA REAZIONE DI PIO XII
Ma papa Pacelli non era tipo da lasciarsi la mosca sul naso.
Non esitò a definire illegale quella sentenza e bacchettò l'inerzia del governo su tutta la vicenda. Sì, perché se si permetteva ai giudici di sindacare quel che i vescovi potevano o non potevano dire nelle materie di loro competenza (riconosciuta dal Concordato) si sarebbe finiti in un regime ideologico laicista (profetico...).
Non sazio, il Papa ordinò a tutte le nunziature apostoliche del mondo occidentale di organizzare manifestazioni di solidarietà col vescovo pratese e in segno di protesta arrivò a sospendere il tradizionale ricevimento d'inizio d'anno in onore del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
L'aperta solidarietà al vescovo di Prato arrivò pure, commossa e sentita, da Roncalli (patriarca di Venezia) e Montini (arcivescovo di Milano), futuri Papi, uno Santo e l'altro Beato.
Il più sfegatato fu il cardinale di Bologna, Lercaro (poi, però, divenuto progressista), che fece listare a lutto le porte delle chiese della sua Diocesi e suonare le campane a morto ogni cinque minuti per un mese.
Monsignor Pietro Fiordelli, nato a Città di Castello (Perugia), morì nella sua Prato. Nel 1986 fu onorato di una lunga visita da parte di Giovanni Paolo II (Santo).
La sua vicenda - e il suo insegnamento - tornano d'attualità nel presente momento storico: da qui il libro che Giuseppe Brienza gli ha dedicato, La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, vescovo di Prato (Casa Editrice Leonardo da Vinci), prefazione di monsignor Luigi Negri e postfazione di Antonio Livi, pp. 162.
Rino Cammilleri
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 14/11/2014
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Roberto Marchesini – Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio (Sugarco edizioni - Mi) – 2017 – pp. 115 – €.12,50)
Leggendo questo libro, viene spontaneo affiancare Roberto Marchesini che ne è l’autore a Costanza Miriano, entrambi tra i principali protagonisti del mondo family italiano.
Infatti, mentre quest’ultima, con le sue gags ampiamente diffuse nel web, nei libri ed in miriadi di incontri pubblici, va cercando di recuperare un’immagine della donna fuori dagli schemi che decenni di dominante femminismo le hanno cucito intorno, Marchesini svolge analoga funzione nei confronti della figura maschile.
Non meno della donna, anche l’uomo è stato mortalmente ferito da tale ideologia che si è venuta costruendo (quantomeno a partire dal saggio della Simone di Beauvoir – la compagna di una vita di Jean Paul Sartre - Il secondo sesso, scritto nel 1949) applicando i principi della dialettica marxista al rapporto tra i due sessi.
Il moderno femminismo ha infatti diffuso nell’opinione corrente l’idea che la diversità di ruoli tra i due sessi significhi sfruttamento della donna: né più né meno di come, secondo Marx, nella società capitalista, lo è la diversa posizione dell’imprenditore e del lavoratore subordinato.
Da qui, la necessaria affinità tra movimenti comunisti e femministi soprattutto dopo il ’68. Con estrema facilità, gli slogan e le rivendicazioni femministe hanno pertanto trovato, nei media e nei parlamenti il sostegno delle forze di sinistra ed insieme, l’acquiescenza, per conformismo o ignoranza, degli ambienti politici e religiosi che pure avrebbero dovuto opporsi.
Basti, a titolo di esempio, ricordare la superficiale esaltazione da parte dell’intero mondo cattolico italiano della c.d. riforma del diritto di famiglia del 1975 che sancì la scomparsa della potestà maritale della quale fu promotrice e relatrice di maggioranza la deputata democristiana, Maria Eletta Martini.
Questo avvenne nonostante il perfino inusualmente chiaro versetto di San Paolo (Efesini, 5,22), letto in tutte le messe nuziali: “le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, ...”, versetto che si fece … finta non esistesse.
Ma non sono stati solo la D.C. o i media a far dilagare le tesi femministe. Si farebbe infatti torto alla Magistratura, non ricordandone il metodico lavoro di cui si deve, ad esempio, la massima secondo cui la donna che, invaghitasi di altro uomo, chiede la separazione, ha comunque diritto a rimanere ed esser mantenuta con i figli nella casa coniugale del portandovi pure il nuovo compagno (spesso, alla fine, pur indirettamente, mantenuto anch’esso) e -si badi bene- potendo, di fatto almeno, impedire ogni contatto della prole con i suoceri se non anche con l’ex-marito. Né parziali rimedi degli ultimi anni hanno modificato granché il diritto vivente.
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Era necessario ricordare tutto questo per comprendere come, in fin dei conti, più che di affermazione della donna, l’affermazione del femminismo ha comportato la distruzione di quella cellula fondamentale della società che è la famiglia ed, insieme, anche della figura del padre e, con esso, della stessa immagine maschile.
Se poi si ricorda che l’altrettanto dilagante ideologia pacifista ha messo al bando qualsiasi modello conflittuale ed anzi, la stessa idea di sfida, di contrasto ecc. tanto che perfino l’uso di aggettivi come virile, maschile ha assunto connotati negativi, non è davvero difficile tirare le somme.
Esecrati i modelli maschili tradizionali, detronizzato l’uomo dalla funzione di capo della famiglia e ridotto in minoranza perfino in professioni che ne erano state per secoli appannaggio, costretto dalle quote rosa a doversi accontentare tutt’al più della parità numerica, esautorato da ogni potere perfino sulla decisione della donna di abortire un figlio che è anche suo, subissato da leggi a senso unico (ultimo: il femminicidio) e da un inusitato bombardamento mediatico, non è davvero un caso che il maschio abbia finito per perdere la propria identità.
Ci sarebbe semmai da chiedersi se tutto questo non ha influito su quello che sembra essere il visto aumento dei comportamenti omosessuali maschili.
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È in questo contesto di autentica débacle della figura maschile che, nel libro che presentiamo, Marchesini propone agli uomini il ritorno ad un Codice cavalleresco ove, per cavalleria, non intende certo la mera galanteria.
Quel che l’autore propone, con una forma semplice e scorrevole schiva da ogni pur minimo political correct, è infatti il recupero di quei valori di coraggio, sincerità, onore, lealtà, cortesia, franchezza ecc. che, per secoli, hanno contraddistinto l’uomo occidentale ed europeo e quindi, di fatto almeno, cristiano e che si possono riassumere con la parola cavalleria che compare nel titolo. Il cavaliere è infatti il personaggio “senza macchia e senza paura” che, messo da parte il proprio personale interesse, opera per il bene solo perché è giusto compierlo e non per l’utilità che può derivargliene.
Il cavaliere è anche colui che rimane fedele alla parola data e che si china sul debole anche a rischio di sé stesso e che, per tutto questo, non ha timore di affrontare conseguenze anche sgradevoli.
Di questo tipo di uomo, che nessun programma scolastico ministeriale più ricorda, Marchesini fornisce anche esempi a noi più vicini nel tempo pur se, in fin dei conti, il cavaliere medievale rimane sempre il tipo per eccellenza tramandato, nei secoli, dalla tradizione letteraria, artistica ed anche spirituale.
La cavalleria costituì infatti una componente religiosa di rilievo della società cristiana: basti pensare agli ordini militari religioso-cavallereschi di cui Templari e Cavalieri di Malta sono gli esempi più famosi e, per finire, a quella singolare fucina di santità che sono stati per secoli gli Esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio di Loyola, dettati dai gesuiti a legioni di persone a partire dal 1500.
Su di essi, si è costruita, almeno fino alla metà del ‘900, l’élite, cioè la classe dirigente, laica e religiosa, del mondo cattolico. Ed è proprio il modello del cavaliere quello che il santo propone nelle meditazioni chiave (La chiamata del re temporale ed I due stendardi) che debbono spronare il cristiano a darsi tutto a Dio.
Attraverso di essi come pure attraverso l’arte, anche quando il Medioevo cristiano era finito da un pezzo, è dunque sul modello del vero cavaliere che si è costruito il modello del cristiano e pertanto anche la spiritualità dominante in gran parte della Chiesa cattolica.
Poiché, da un lato, non è detto che questo non possa ripetersi e comunque perché le giovani generazioni non possono essere educate a lungo a forza di musica rap, tatuaggi e face-book, che gli spunti che si traggono dalla lettura del libro di Roberto Marchesini meritano di essere diffusi.
Andrea Gasperini
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La notizia che arriva da Londra, trasmessa sottotraccia dalle agenzie, è invece una di quelle che dovrebbe far riflettere profondamente. Si tratta di uno studio estremamente significativo condotto sulle circa sessantamila donne che hanno abortito nel 2016 nelle cliniche del British Pregnancy Advisory Service (Bpas), il servizio che riunisce circa 40 cliniche inglesi e che fornisce informazioni sulla “salute sessuale” e assistenza alle donne che decidono di abortire.
Nel 2016, emerge dai dati, il 51% delle 60.592 donne che si sono rivolte al Bpas per abortire stava utilizzando almeno una forma di contraccezione quando è rimasta incinta. E il 24%, circa 15.000, ovvero un quarto, stavano usando quelli che sono considerati i metodi contraccettivi più efficaci, ovvero quelli ormonali come la pillola, il cerotto o l'anello vaginale.
Inoltre chi ha utilizzato questi metodi ha avuto in media aborti in una fase successiva della gravidanza rispetto ad altre donne, poiché non si aspettava che la contraccezione fosse fallita. Nessun metodo, sottolinea il report, è efficace al 100%. Eppure le pillole contraccettive sono considerate di gran lunga il modo più popolare di “proteggere” contro una gravidanza indesiderata tra le donne, ma la loro efficacia è valutata dagli esperti intorno al 91%: ovvero su 100 donne che la usano 9 restano comunque incinta.
Ancora più bassa, come noto, l'efficacia dei preservativi, stimata intorno all’82%. Insomma: incinta nonostante la pillola, questo è il dato epidemiologicamente incontrovertibile che viene dalla Gran Bretagna, dove accade in un caso di aborto su quattro.
Per anni la propaganda cristianofobica si era accanita sulla Chiesa Cattolica, “rea” di non fare abbastanza per la prevenzione dell’aborto col suo veto sulla contraccezione artificiale. Ora invece abbiamo uno studio che dimostra scientificamente che le preoccupazioni della Chiesa sulla diffusione della contraccezione farmacologica erano più che fondate. La pillola offre una falsa sicurezza, e quando fallisce, non resta che l’aborto per “ovviare” a questo fallimento.
Come non andare col pensiero a Paolo VI e alla sua enciclica del 1968, quella Humanae Vitae che fu anche l’ultima enciclica pubblicata da papa Montini, la cui voce venne poi schiacciata dal furore dei “cattolici adulti”, teologi, preti, vescovi, suore, laici “illuminati”, che si schierarono con il pensiero mondano invece che con il Magistero della Chiesa.
Durante il pontificato di Paolo VI oltre mille scienziati allarmati e scandalizzati dalla posizione contraria agli anticoncezionali della Chiesa firmarono un manifesto per accusarla esplicitamente di essere “responsabile di un genocidio di vaste proporzioni condannando a morte milioni di esseri umani che nasceranno in condizioni da non poter avere né cibo né medicinali”.
Scosso dalle accuse, Paolo VI convocò una commissione di esperti chiamandone a far parte scienziati, teologi, porporati ed esperti vari. La commissione concluse i suoi lavori raccomandando al Papa di eliminare i divieti, ritenendo che non esistevano motivi morali né religiosi desumibili dalla Scrittura che imponessero il divieto e terminò i propri lavori raccomandando al Papa di legittimare l’uso degli anticoncezionali, pillola e preservativo compresi.
Ciononostante, Paolo VI con un atto di grande coraggio ribaltò le conclusioni della commissione e confermò il divieto, motivandolo con una precisione e un dettaglio straordinari sia dal punto di vista medico-scientifico sia teologico sia antropologico.
Ora, mentre ci si avvia a celebrare il 50° anniversario della pubblicazione della Humanae Vitae, nel 2018, ci sono fior di teologi che vorrebbero “superarla”, ovvero rottamarla. Forse farebbero meglio a leggere con attenzione lo studio uscito in Inghilterra, per meglio valutare gli effetti di quell’“immenso progresso che si è verificato, nel corso della modernità”, che sembra affascinare e conquistare molti cristiani, incapaci di vedere come questo progresso si sia tradotto nel tentativo di esercitare un dominio sul mondo e sulla persona da parte dell'uomo, che rivela forse in un grado mai prima raggiunto, la multiforme sottomissione alla caducità e al male.
E speriamo che questo documento susciti un analogo interesse anche nel campo medico, dove la prescrizione di anticoncezionali viene fatta anche con leggerezza, e dove i metodi naturali non vengono nemmeno presi in considerazione e se non addirittura derisi. Infine, per tutti, la consapevolezza che la medicina deve essere intesa anzitutto come prendersi cura, farsi carico della salute da salvaguardare e della sofferenza che incontra, della malattia e della morte, in tutte le circostanze del suo lavoro.
Paolo Gulisano, 17/7/2017 per
[lanuovabq.it]
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16 luglio 2017
Nostra Signora del Carmelo
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E' lo studio dei grandi che ci spinge a grandi cose.
Se l'essere eroi è prerogativa di pochi eletti; se le opere gigantesche sono frutto di poche tempre tenaci ed indomite: se l'abnegazione, se la dedizione assoluta al sollievo dell'umanità sofferente è virtù di pochi entusiasti che vollero e poterono toccare la perfezione spirituale, tutti però possono rispecchiarsi in questo gigante della carità e santità e dal suo esempio vivo, vibrante ritrarre monito ed insegnamento per superare le debolezze umane, per suscitare le assopite energie spirituali, per tendere tutte le facoltà, spesso ricalcitranti, a rendersi utili, benefiche ai fratelli infelici, coll'alleviarne le pene, le sofferenze, i dolori.
La celebrazione dell'erezione del «Cottolengo», di quest'opera meravigliosa, deve ricordare a noi, così freddamente egoisti, l'amore immenso che il Beato Cottolengo nutriva verso gli infelici.
Tutta la sua vita venne consacrata all'esercizio della carità coll'immolazione più sublime: tutta la sua opera venne vivificata dallo spirito di abnegazione e di sacrificio, il più duro, il più spasimante.
Egli ideò e fece sorgere la Piccola Casa a fine di raccogliere sotto le immense e benefiche ali della carità tutte le miserie morali e fisiche dell'umana famiglia, tutti i rifiuti più fetenti e ripugnanti della società.
A chi gli domandava la ragione di tanto amore, di tanto delirio; a chi desiderava conoscere perché il fuoco di sua carità non languisse fra tanti contrasti, fra tante lotte, fra tanti stenti, rispondeva: Charitas Christi urget nos, è Gesù che alimenta in me questa fiamma, che il mio cuore ha convertito in un roveto perennemente ardente.
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Dopo il boom tra il ’78 ed il 2012, con l'avvento di Papa Francesco ha avuto inizio una flessione.
Al punto che, nella DIocesi di Bolzano, 25 parrocchie sono state drammaticamente affidate ai laici.
Il «boom» di vocazioni sacerdotali, registrato nei seminari di tutto il mondo tra il 1978 ed il 2012, è purtroppo ormai solo un ricordo: cinque anni fa è iniziata un’inversione di tendenza, da cui la Chiesa cattolica pare non riuscire più a sollevarsi. A dirlo, sono i dati diffusi dall’Ufficio Centrale di Statistica della Santa Sede nell’Annuarium Statisticum Ecclesiae, un tomo di ben 500 pagine.
Il picco di vocazioni si ebbe con Giovanni Paolo II, passato dai 63.882 seminaristi del suo primo anno di pontificato, il 1978, ai 114.439, quasi il doppio, nell’anno della sua morte, il 2005. Il dato ha registrato un’ulteriore crescita con Benedetto XVI, toccando quota 120.616 nel 2011. Situazione sostanzialmente stabile nel 2012 con 120.051 vocazioni.
Da allora, però, e con l’avvento di papa Bergoglio ha avuto inizio una flessione, ad oggi inarrestabile : dai 118.251 seminaristi del 2013 si è giunti ai 116.843 del 2015. E’ abbastanza per parlare di crisi, che ha significato carenza di sacerdoti e parrocchie chiuse soprattutto nelle comunità-simbolo del liberalismo teologico, come molte in Germania e in Svizzera; di contro, in altre Diocesi, soprattutto in Africa e negli Stati Uniti, fedeli alla Tradizione ed alla Dottrina cattolica, le vocazioni sono fiorite copiose.
Un esempio è dato dalla Diocesi di Madison, nel Wisconsin, noto bastione del cattoprogressismo sino al 2003, quando giunse come Vescovo mons. Robert Morlino. All’epoca, c’erano solo sei seminaristi; in dodici anni sono sestuplicati, divenendo 36 nel 2015. Come? Grazie all’attenta guida del nuovo Pastore col ritorno all’ortodossia cattolica, alla chiusura coatta di certi gruppi dissidenti, autoproclamantisi “cattolici”, benché lontani anni-luce dalla sana Dottrina, alla diffusione di lettere pastorali a tutela dell’insegnamento cattolico sul matrimonio, alle omelie inneggianti alla santità di vita, ai tabernacoli al centro delle chiese, a celebrazioni liturgiche dignitose, molte delle quali nella forma tridentina.
Lo stesso dicasi per la Diocesi di Lincoln, in Nebraska, dove Vescovi ortodossi hanno portato vocazioni sacerdotali in proporzione di molto maggiore a quella delle altre Diocesi. Il perché lo ha ben spiegato lo stesso Vescovo di Lincoln, mons. James D. Conley, che in un’intervista, rilasciata l’anno scorso al Catholic World Report, ha collegato senza esitazioni tale fenomeno alla fedeltà all’insegnamento tradizionale della Chiesa.
Insomma, un monito pastorale molto chiaro per quanti vogliano stare ad ascoltarlo…
(M.F., 25 giugno 2017 per
[https:]
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La teologia di Karl Rahner
e l’eutanasia della Dottrina sociale della Chiesa.
Apriamo una discussione sulla teologia di Rahner.
L’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi così scriveva nel libro “La Dottrina sociale della Chiesa. Una verifica a dieci anni dal Compendio (2004-2014)” (Cantagalli, Siena 2014):
« A mio modo di vedere la posizione di pensiero maggiormente influente per la critica alla Dottrina sociale della Chiesa è quella di Karl Rahner. Se andiamo a vedere nel dettaglio, molti dei teologi che, in seguito, hanno sferrato critiche e sviluppato percorsi alternativi alla Dottrina sociale sono stati suoi allievi. Rahner riflette sulla scia del pensiero di Heidegger, ossia al di fuori del contesto di una filosofia cristiana. Fuori anche dal contesto tracciato in seguito dalla Fides et ratio di san Giovanni Paolo II. Questa enciclica fa alcuni nomi, a titolo di esempio, di filosofi cristiani, ma Heidegger non figura tra essi. Rahner intende Dio come un “trascendentale esistenziale”.
Ciò significa due cose principalmente: che tutti gli uomini sono in Dio, perché Egli è la loro dimensioni apriorica, l’orizzonte non conoscibile e non categorizzabile della loro soggettività e della loro libertà, in pratica del loro essere persone; che a Dio si accede sempre dentro la nostra coscienza. Egli non viene conosciuto, ma coscienzialmente ed esistenzialmente esperito come orizzonte di ogni significato.
Ciò storicizza la fede, che non è un conoscere ma un fare esperienza esistenziale di un orizzonte intrascendibile. In questo consiste, per lui, la trascendenza. Non ci sono più atei e credenti, ma tutti sono dentro quest’orizzonte e si accompagnano reciprocamente nell’interpretazione della vita. Qualcuno passa da un cristianesimo anonimo ad uno non anonimo, ossia tematizzato e consapevole, senza perciò cessare di condividere quello stesso orizzonte. Il bene e il male non sono netti, ma svolgendosi l’esistenza tutta dentro l’orizzonte trascendentale di Dio, esistono vari livelli di bene da far lievitare, ma non mai da condannare. L’uomo non può mai sapere fino in fondo quando è in situazione di peccato. La Chiesa non è davanti al mondo, pur essendo anche nel mondo, ma si fa mondo, perché condivide col mondo il comune orizzonte esistenziale.
In questo quadro, che ho dovuto qui riassumere in poche battute col rischio di incompletezze, è molto difficile farci entrare la Dottrina sociale della Chiesa, a meno di smantellarne il carattere di corpus dottrinale, eliminarne la valenza missionaria e salvifica ed intenderla come una prassi dell’accoglienza, dell’ascolto e del camminare insieme, ma senza la luce della verità che viene dall’esterno di questo mondo, dal trascendente. Il trascendente, per Rahner, consiste appunto nella dimensione trascendentale esistenziale che, essendo la condizione di ogni senso, non può essere a sua volta tematizzata. Trascendente in questo senso».
Da queste affermazioni risulta l’incompatibilità della teologia rahneriana con la Dottrina sociale della Chiesa e perciò si capisce perché tutte le correnti che a Rahner si rifanno in realtà hanno sempre combattuto, in modo palese od occulto, la Dottrina sociale della Chiesa, anche nel lungo periodo – anzi soprattutto allora – in cui essa doveva essere rilanciata per volontà dei Pontefici. Si è trattato di un’opposizione sorda e pervicace che ha prodotto molti danni e che oggi sembra essere vincente. Ho potuto confermare questa tesi dell’Osservatorio nel mio ultimo libro “La nuova Chiesa di Karl Rahner. Il teologo che ha insegnato ad arrendersi al mondo” (Fede & Cultura, Verona 2017). Alla luce anche di quanto scritto in questo libro, può essere utile richiamare qui i punti fondamentali per cui la teologia che fa capo a Rahner rappresenta un tentativo di eutanasia della Dottrina sociale della Chiesa. Speriamo di suscitare così un dibattito che ospiteremo volentieri nel nostro sito.
La Chiesa nel mondo
Perché ci sia Dottrina sociale della Chiesa bisogna che la Chiesa non sia mondo. La Dottrina sociale della Chiesa è infatti l’annuncio di Cristo nelle realtà temporali. Se la Chiesa si immerge senza distinzione nelle realtà temporali, la missione della Dottrina sociale della Chiesa, e la Dottrina sociale della Chiesa come missione della Chiesa, sono già finite. Ma proprio questo è quanto afferma Rahner, secondo cui la Chiesa deve smetterla di voler “manipolare il mondo”. Essa deve intendersi come una parte del mondo, senza pretese di superiorità dottrinale e veritativa.
Dio si rivela nel mondo
Questo perché Dio non si rivela prioritariamente nella Chiesa ma nel mondo, dato che Egli si rivela indirettamente negli eventi dell’esistenza in quanto orizzonte primordiale e apriorico che li rende possibili. La rivelazione di Dio non è né cosmica né metafisica, è completamente storica. Dio si rivela indirettamente nei fatti storici. Ne consegue che la dottrina – e quindi anche la Dottrina sociale della Chiesa – non è l’elemento primario. Prima di tutto c’è la vita, la prassi … e poi la dottrina. Ecco perché la Dottrina sociale della Chiesa è stata accusata di ideologia e di astrattezza.
Dio è immanente nella storia
Secondo Rahner bisogna ripensare la trascendenza di Dio. Essa non è di carattere metafisico, ma esistenziale. Dio è trascendente nel senso che non è una cosa tra le cose, ma è l’orizzonte che rende possibile la nostra visione interessata, partecipe e libera delle cose. Trascendente per lui vuol dire a-priori. In questo senso Dio non ci rivela delle conoscenze, non ci trasmette una dottrina, non ci dà delle prescrizioni … Egli ci dice solo di vivere in modo partecipato, dialogando con gli altri perché Dio si rivela a tutti e non solo ai cristiani.
Dio pone domande e non dà risposte
La Dottrina sociale della Chiesa, pur con il suo carattere pratico e perfino sperimentale, aveva la pretesa di indicare delle risposte di bene e di salvezza all’umanità. Ma per Rahner Dio non dà regole, suggerimenti, indicazioni. La presenza di Dio in tutti gli uomini consiste nella loro “questionabilità”, ossia nella insaziabilità che li porta a mettere sempre in questione i nuovi risultati acquisiti. Il cristiano è semplicemente colui che è aperto al futuro, da cui derivano tutte le dottrine teologiche del futuro e della prassi che hanno caratterizzato i decenni postconciliari.
Dottrina e legge morale naturale no esistono più
La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto di fondarsi sulla rivelazione – vale a dire sulla dottrina della fede – e sul diritto naturale. Ma nella prospettiva rahneriana entrambe le cose non esistono più. La rivelazione non ci fa conoscere verità dottrinali, I dogmi sono storici e si evolvono, la “natura” va riassorbita completamente nella storia ed è un residuo metafisico del passato.
Come si vede da questi poveri accenni – sviluppati più adeguatamente bel libro sopra citato – tra la teologia di Karl Rahner e la Dottrina sociale della Chiesa c’è assoluta incompatibilità. Questo spiega, lo ripeto, perché essa sia stata e sia fortemente contestata e contrastata. Ma la ragione non sta dalla parte di Rahner e del rahnerismo, nonostante sembri oggi prevalente nella Chiesa.
Stefano Fontana
per Osservatorio Van Thuan del 5 maggio 2017:
[www.vanthuanobservatory.org]