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L'ACCELERAZIONE DELLA STORIA E LA SUA INFLUENZA SULLE STRUTTURE SOCIALI
di Marcel de Corte

Che la storia umana, individuale o collettiva, vada sempre più in fretta, è una scoperta recente. La scoperta è del genio divinatorio di Michelet, e noi possiamo prenderne coscienza grazie al saggio famoso di Daniel Halévy sull'accelerazione della storia.

La vita umana individuale si allunga, ma è sempre più densa di fatti, atti e avvenimenti che si sospingono, trascinati da un flusso torrentizio. Le sollecitazioni interne o esterne che ci assalgono in un'ora, sarebbero state sufficienti un tempo a riempire un anno dell'esistenza dei nostri antenati.

La vita collettiva è in preda alla stessa vertigine. Mentre i re di Francia impiegarono otto secoli per metterne insieme le diverse parti, Bismarck e Cavour hanno fondato in dieci anni Germania e Italia. I tempi di attesa e di maturazione si accorciano oggi vertiginosamente: degli uomini, definiti derisoriamente "di stato", e quindi di stabilità, degli "architetti della rovina" secondo le parole di Burke, pretendono di far passare delle intere popolazioni dalla civiltà della pietra a quella delle macchine elettroniche, per sola virtù magica di inchiostro e di saliva. Basta operare la trasformazione del mangiatore di uomini in mangiatore di bilanci, e il gioco è fatto; il neofita riceve il battesimo dell'ONU.

La corsa della scienza non è meno scatenata. Per due millenni ha regnato sui cervelli la fisica dei quattro elementi; la concezione del mondo di Newton è durata due secoli; quella di Einstein, già battuta in breccia, sarà durata appena due decenni. Ancora più veloci le singole discipline: nel giro di pochi anni sono state messe in discussione e completamente rivoluzionate le fondamenta della psicologia e dell'economia classiche, e quando un visionario come Teilhard de Chardin abbraccia con un colpo d'occhio profetico l'evoluzione dell'umanità, non si attarda più al passaggio, lento fino all'esasperazione, dalla monade di Haeckel all'uomo di Neanderthal: "l'ominizzazione" ha superato lo stadio della "noosfera" e dello spirito universale, per balzare d'un salto nella "cristosfera"! Quanto alle tecniche, la loro velocità propria e quella di reciproca sostituzione, superano quasi sempre il tempo di reazione della natura umana al loro imporsi.

Immaginiamo l'obelisco di Place de la Concorde di Parigi, sulla cima del quale sia stata deposta una moneta: l'altezza del monolito rappresenta il tempo lunghissimo della preistoria, lo spessore del metallo il tempo compresso della storia. Continuando il paragone, bisognerebbe ricorrere, per rendere l'idea dell'estrema densità del tempo nella nostra epoca, allo spessore di un biglietto di banca. La velocità del tempo contemporaneo si restringe in una durata così breve che si divora, per così dire, da sola. Al limite, sbocca nel terribile tuono dell'Avvenimento che si abbatterà d'un colpo solo sull'umanità atterrita. Non si contano più i segni di questo destino: l'accelerazione della storia s'affaccia sull'abisso d’una terza guerra mondiale, nella quale la bomba atomica potrebbe annientare il tempo per farlo risorgere sotto l'aspetto di un nuovo tempo preistorico. Condensato nell'istante della folgorazione, il tempo moderno avrà vissuto tutta la sua vita.

Quali sono i fattori di questa accelerazione della storia? E come agiscono sull'umanità al punto da distruggerne tutte le strutture e da inchiodarla ad una rovina prevedibile e definitiva? Per rispondere a queste domande, occorre fare un discorso preliminare. È impossibile infatti definire le cause dell'accelerazione della storia, se non individuiamo il grande cambiamento in atto sotto i nostri occhi nella odierna concezione della storia.

Essa non è più, contrariamente alla formula dello storico inglese V.H. Gaibraith, "the past, so far as we know it", il passato nella misura in cui può conoscerlo l'ingrato lavoro dei professionisti di questa scienza; nella misura in cui può trasmetterne a noi la conoscenza e farci cogliere l'articolazione delle cause e degli effetti che rende intelligibili le realtà storiche apparentemente più disparate. La storia ha preso la maiuscola; si è elevata a realtà, a sostanza, a ipostasi analoga all'idea platonica, impregnando fin nel profondo gli individui in carne ed ossa. La storia è un grande fiume divinizzato, il cui irresistibile corso trasporta tutti gli uomini e tutti i popoli. Inutile opporsi a questo flusso impetuoso: tutto ciò che può fare l'essere umano che emerge fra un'onda e l'altra, è di riconoscerne il senso e, se il suo spirito è abbastanza potente da cogliere dall'origine lo svolgersi di tutte le sue fasi, di prevederne l'esito ineluttabile e di collaborarvi. Chi tenta di mettere argini a questo slancio, o di drizzargli contro una barriera, è infallibilmente condannato dalla storia, supremo giudice dei comportamenti umani. "Die Weltgeschichte ist das Welgericht": questa la concezione storica oggi in auge, che sta alla base della volontà di potenza degli individui e delle nazioni, come dello spirito di debolezza. I forti l'adottano come i deboli, i primi perché giustifica il loro potere, i secondi perché scusa la loro debolezza. Tutte le conquiste e tutti gli abbandoni sono contraddistinti dal segno del movimento della storia.

Gli storici di mestiere hanno un bell'insorgere contro questa concezione, denunciandone le radici politiche. Niente da fare, M. Marrou, che non può certo essere sospettato di "reazionario", ritiene che la nozione di "senso della storia" non abbia altro fine che la "liquidazione" dell'avversario. Un giudizio sul senso della storia postulerebbe, secondo lui, una vera conoscenza della storia universale, della storia totale, ed egli si domanda, giustamente, "se sul piano razionale una simile conoscenza sia compatibile con la struttura e i limiti della condizione umana"; e, rincarando la dose, aggiunge che "c'è indubbiamente qualcuno che possiede questa conoscenza integrale e autentica, ma questo Qualcuno è Dio, e vien fatto di domandarsi se una filosofia della storia non sia esposta a commettere l'errore fatale, il peccato di dismisura, l'orgoglio".

Per esatta che sia questa analisi, non tocca il fondo del problema. Quel che importa sottolineare, non è l'opposizione fra la storia con la maiuscola e la storia "sic et simpliciter", ne’ il carattere irreale della prima e reale della seconda, ma le ragioni della sostituzione della prima alla seconda nella mentalità degli uomini d'oggi. Affermare che il moto della storia è un mito, è dire una verità indiscutibile, ma significa dimenticare che questo mito è un fenomeno storico, integrato nella storia del secolo XX, allo stesso titolo dell'accelerazione della storia. Lo storico non può far altro che constatare l'esistenza di questi due fatti, e ricercarne le cause.

Allora noterà immediatamente che l'accelerazione dei fenomeni storici e il mito del moto della storia non sono associati per puro caso. Quest'ultimo si nutre del primo, e la prima a sua volta si alimenta delle concrezioni accumulate dalla mitologia della storia nel suo sforzo per superare la realtà. Il fatto mentale del mito, e quello oggettivo della crescente velocità dei fenomeni, sono l'uno parassita dell'altro.

In realtà, quanto più i fenomeni storici accelerano il loro ritmo, tanto più l'uomo contemporaneo si ritrova impotente a dominarli, e si fa cosciente della sua soggezione alle potenze che lo superano, trascinandolo con il loro ritmo forsennato. Fallisce, se tenta di riunirle nella mente. L'accelerazione si estende a tutti i settori del sapere e dell'azione. Per rendersene padrone, bisognerebbe che l'uomo conoscesse tutto, e svolgesse la sua attività in campi innumerevoli, mentre invece si trova di fronte all'incomprensibile, e l'incomprensibile vissuto è la definizione stessa del Destino inesorabile. L'uomo contemporaneo, se non si rifugia nel recinto dell'anima, inaccessibile alle voci delle sirene, oppure nelle comunità ancora viventi che prolunghino e proteggano il suo essere minacciato, si sente immerso nel "Fatum" d'una storia che l'assorbe e lo trascende ad un tempo: non ha alcuna capacità di incidere sugli avvenimenti dai quali dipendono i suoi pensieri e le sue iniziative. Niente da stupirsi quindi che ne immagini la somma sotto l'aspetto di storia divinizzata che, senza lasciarsi prendere, lo prende e lo porta via.

Reciprocamente, la storia, così trasformata in mito mistificatore che assedia l'immaginazione degli uomini, tende a passare dall'esistenza mentale all'esistenza reale. La religione della storia, come ogni altra, lega nuovamente l'uomo alla divinità e al mondo esteriore: ogni mito diventa carne, diventa mondo. Ma la realtà resiste all'invasione del mito irreale e, per vincerne le difese, gli uomini sono costretti ad inventare sempre nuovi mezzi per accentuare la loro azione sulla realtà ribelle. Anzi, perché l'artificio assoluto del mito diventi realtà, gli è necessario superare via via tutti i mezzi reali che elabora a questo scopo, perché tutti si rivelano insufficienti, uno dopo l'altro. Essi allora si dialettizzano senza sosta, in un progresso continuo. Al limite, l'artificio del mito è costretto a distruggere ogni realtà per erigersi in unica realtà. Si cammina a grandi passi in questo senso: ci stiamo correndo. Il mondo dell'uomo d'oggi sta diventando sempre più un mondo costruito dall'uomo mistificato, che annienta, intorno a lui, il mondo naturale. E l'accelerazione di questo culto dell'artificio è evidente tanto nell'ordine individuale come in quello sociale; gli uomini diventano delle maschere e le istituzioni delle scene di teatro, che nascondono il reale e gli si sostituiscono.

Ed ecco che si chiude il circolo vizioso. L'accelerazione della storia rinforza il mito della storia, e il processo ricomincia. Basta osservare la politica contemporanea. I grandi miti della democrazia e del comunismo hanno messo sottosopra la terra: gli enormi mutamenti che determinano nella vita umana, nei costumi e nei fatti, sono per essi altrettante tappe verso la Terra promessa.

L'introduzione della ruota materiale nella tecnica non ha certo causato una rivoluzione simile all'invenzione della ruota ideologica.

La concezione della storia con la maiuscola, e la sua assimilazione ad un fiume sempre più rapido, del quale gli uomini non sarebbero che le inerti molecole, erano ignote ai nostri padri. Per essi, la storia era quella vissuta, fatta da loro, o da altri ai quali si affidavano, il sacerdote, il notabile, il principe, all'interno di piccole comunità, che essi potevano vedere, palpare, stringere vitalmente con tutto il loro essere, e soprattutto con i sensi che ne colgono direttamente la presenza. Era invece sconosciuta la rappresentazione cerebrale o immaginaria dei gruppi nei quali si svolgeva la loro storia: il pensiero e l'immagine delle loro comunità si riferivano immediatamente a delle relazioni concrete, da uomo a uomo. L’astrazione storica, della quale noi facciamo un uso incredibile, sarebbe sembrata assolutamente inintelligibile. La storia non superava affatto i limiti della famiglia, del comune, della provincia, della piccola patria. Al di là di questi limiti, si concretizzava non tanto in storia d'una istituzione o d'un regime, ma piuttosto in una serie di personaggi in carne ed ossa: i Papi, successori di san Pietro e vicari di Cristo, i re capetingi. I nostri padri vivevano in un mondo di differenze concrete e multiformi, sempre vissute e tradotte in termini di esperienza: le Spagne, le Germanie, i Paesi Bassi Belgi. Per riunire insieme, in un universo, queste distinzioni, ricorrevano a Dio, alla Chiesa e alla sua missione ecumenica.

Il termine civiltà, nel significato corrente, non esisteva nel loro vocabolario. Come la storia era per loro familiare, provata, consegnata nelle memorie, nelle tradizioni, nelle cronache, negli annali, così la civiltà, se ne avessero avuto l'idea, sarebbe sembrata loro come l'assimilazione, da parte di uomini più vigorosi di altri, di tutte queste differenze, fino ad un limite fissato dalla capacità d'assimilazione. Per questo i nostri padri avevano i loro classici, vale a dire dei modelli superiori, sempre concreti, portatori d'un nome proprio, nei quali la civiltà s'incarnava. Per unificare la diversità delle civiltà, non facevano ricorso ad un tipo di uomo astratto, ad un'idea di uomo in generale, ma, ancora una volta, ad un essere concreto, il Cristo, Dio fatto uomo, e massimo modello concreto, che dispensa la sua grazia a tutti gli uomini per la loro salvezza personale, e li coordina nella Chiesa, suo corpo mistico. Le sensibilità, i costumi, le storie particolari, le civiltà più diverse, potevano sussistere, maturare e giungere a perfezione in questa convergenza unanime e soprannaturale verso un unico punto.

Ricordiamo fin d'ora che la nozione di storia universale e di civilizzazione mondiale è comparsa solo nel momento in cui la religione cristiana perdeva il suo dominio sugli spiriti.

In un brillante saggio dedicato al "Tempo della storia", Philippe Ariès ha posto in rilievo sia questa opposizione fra la storia generale e la storia in particolare, che l'assorbimento della seconda nella prima nei due ultimi secoli. Vi si affrontano due concezioni del tempo: quella del tempo continuo, quasi uniforme, vissuto dagli individui nelle comunità ristrette, complesse, dense, che affondano le loro radici nel passato, e senza fratture portano la crescita dell'albero umano verso il fiore del presente e il frutto dell'avvenire; e la concezione del tempo discontinuo, fatto di bruschi cambiamenti, che rompe i ponti con il passato, trasforma il presente in un turbine di tendenze confuse, valorizza l'avvenire, e che non essendo più vissuto se non nelle rotture, può essere messo insieme soltanto al livello del pensiero astratto.

C'è una affinità sicura fra la nozione di cambiamento puro, e l'astrazione logica che esiste soltanto nel pensiero. La durata vissuta, continua, nella quale il passato si conclude organicamente nel presente, e il presente prepara in modo vitale l'avvenire, presuppone la permanenza dell'essere individuale o comunitario che la vive.

Direbbe La Palisse che è ciò che dura, vale a dire ciò che rimane. Il cambiamento puro, invece, è traforato da discontinuità dialettiche che s'oppongono, e le cui fasi disparate possono essere abbracciate soltanto dal di fuori dal pensiero e dalle immaginazioni disincarnate che le riuniscono. La tirannia del mutamento e il culto delle entità astratte coincidono rigorosamente.

L'esempio più preciso è quello dell'evoluzione biologica. La soluzione di continuità degli archivi paleontologici, con i quali lo scienziato moderno non ha più la minima relazione vivente, ha determinato la nozione astratta, ipotetica, e mitica, d'uno slancio vitale creatore che dalla monade primitiva va all'uomo, se non fino all'uomo divinizzato. L'immaginazione, diceva Simone Weil, è essenzialmente portata a colmare dei vuoti.

Quando l'uomo non riesce più ad articolare il passato, il presente e l'avvenire in una esperienza vissuta, radicata nella permanenza del suo essere e delle comunità dove si svolge la sua esistenza, è la finzione astratta che ne tappa i buchi: essa sovrappone agli sparsi frammenti della vita individuale e sociale, l'immagine d'una continuità e d'una unità che, sotto un nome qualunque, come Spirito, Materia, Scienza o Libertà, passano dal segno meno al segno più, e dall'inferiore al superiore. La storia universale prende così la forma di un progresso coerente in tutti i campi; diventa filosofia del mutamento continuo e profondo che trascina l'umanità dalle avventure a tentoni fino alla padronanza del suo destino, e dalla dispersione all'unità organica. Roosevelt vaticinava; "Un solo mondo, o nulla". Hegelismo e marxismo ne sono l'illustrazione. In questi sistemi, la storia universale e la filosofia dell'astrazione totale si fondono insieme fino a diventare una cosa sola.

In realtà, per l'osservatore sprovvisto di pregiudizi, e nel quale l'immaginazione si subordini all'intelligenza obiettiva dei fatti, la storia generale si distingue dalla storia particolare come gli avvenimenti discontinui si distinguono dalla durata continua, le innovazioni dalla tradizione, il plurale dal singolare.

Ai confini dell'Europa, un popolo si sfascia perché i suoi pascoli si esauriscono: questo popolo ne spinge avanti a sé degli altri, che si gettano sulla Gallia romana, nella quale regna la calma; un profeta si alza nel deserto dell'Arabia, solleva guerrieri e nomadi, e li precipita sull'Africa e sull'Europa meridionale; Gutenberg inventa il libro stampato, e Lutero lo utilizza per diffondere i suoi appelli alla rivolta contro Roma: il protestantesimo si propaga nelle regioni impregnate di cattolicesimo. Tra questi avvenimenti e il loro punto d'incontro non c'è alcun metro comune: essi vengono a colpire le comunità organizzate che resistono o crollano, li assimilano o si lasciano assimilare, si arricchiscono o s'impoveriscono nei loro apporti. La storia generale è quella delle interazioni fra i momenti del tempo discontinuo e il tempo continuo delle storie particolari. Queste ultime tentano di ridurre il potere erosivo e distruttivo degli avvenimenti che le colpiscono, dal di dentro o dal di fuori; rifiutano i cambiamenti e le variazioni che assalgono il loro permanere. Talvolta, riescono a integrarli in eredità fedelmente conservate, altre volte non ci riescono.

Così procede l'essere vivente: ha una sua legge che lo governa dalla nascita alla morte, e che incorpora, in maniera vitale, nella sua sostanza tutto ciò che è utile alla sua vita. Sorgono però degli avvenimenti invisibili: l'albero lotta contro l'eccesso di pioggia o di arsura, di freddo o di caldo, che possono sopravvenire, e nello stesso modo l'uomo, nelle comunità in cui trova riparo, è continuamente alle prese con l'inatteso. Ogni storia particolare, individuale o collettiva che sia, è adattamento, rischio, lotta, perché si inscrive in un mondo più largo, solcato da linee di forza indipendenti le une dalle altre, in un universo al plurale, in un ambiente in continuo squilibrio del quale Dio solo conosce le strade. L'essere umano è dunque immerso in due specie di tempi, quello della vita e quello che gli antichi chiamavano giustamente Tuché, sotto il suo duplice aspetto di fortuna e di sfortuna. Il tempo vissuto le è immanente, fa corpo con il suo essere che ne lega le fasi. Il tempo non vissuto la trascende: il primo si fonda sulla costanza, il secondo sulla variazione. La storia generale si colloca nel punto d'incontro fra questi e le loro conseguenze.

Possiamo ora capire perché la storia generale si è trasformata in evoluzione o progresso, e questo in corsa accelerata verso un punto in cui si confondono l'unità e il caos. Marrou ha ragione; l'uomo moderno si è sostituito a Dio nella sua visione della storia. La caduta delle convinzioni religiose e la radicale trasformazione della coscienza di sé che ne è risultata, ce ne può spiegare la causa. Nella sua opera magistrale sulla crisi della coscienza occidentale, Paul Hazard ne ha fissato la data alla fine del secolo xvii.

A torto o a ragione (non vogliamo discutere su questo punto, dato che ci siamo semplicemente proposti di analizzare i comportamenti umani) i nostri padri ritenevano che gli avvenimenti dovessero essere subiti, sopportati, e infine vinti dalla costanza. Il teatro di Corneille è una delle ultime testimonianze della convinzione che gli avvenimenti derivino da insondabili disegni della Provvidenza, e che siano delle prove che l'energia dell'uomo deve superare per raggiungere la sua perfezione, con l'appoggio dell'ammirazione del gruppo al quale l'uomo appartiene.

Quello che Corneille ci dice dei suoi eroi e delle sue eroine, i nostri padri lo provavano nelle loro comunità. Quanti drammi, quanti lutti, quante pene si abbattevano sulle loro famiglie! Quante difficoltà per sbarcare il lunario! Quante guerre, dispute, carestie nelle piccole patrie e nelle grandi! La vita sociale, come quella individuale, era costantemente minacciata dagli avvenimenti.

Bisognava dominare le potenze che sconvolgono la vita, addomesticarle se possibile, o trame partito in modo da trasformare in bene il male da esse causato e, nell'impossibilità, raccogliersi in se stessi, lasciando che il tempo compisse la sua opera di pacificazione. L'interesse personale coincide con il dovere verso gli altri: "Se il tuo vicino muore", scrive La Fontaine, "il fardello cade sulle tue spalle". Per comportarsi in questo modo, non basta avere forza d'animo, non basta neppure sentire la vita del gruppo come un fenomeno di interdipendenza, bisogna credere che la comunità porti in sé, in qualche modo, un valore sacro; bisogna che un sentimento di fede, di pietà, di venerazione, elevi i suoi membri verso la luce d'una eternità inconsciamente intuita che la comunità possiede e mantiene a dispetto delle incombenti minacce del tempo esteriore.

Ma come credere che le comunità naturali, o seminaturali (famiglia, mestiere, villaggio, paese, piccola e grande patria) possiedano un valore sacro del quale le generazioni successive possano conservare l'eredità, se il soprannaturale, cioè il sacro per eccellenza, è battuto in breccia negli spiriti? Il sacro è una categoria dell'essere che implica ad un tempo la natura e la soprannatura, la creazione e il Creatore. Lo sapeva l'antico paganesimo, nei suoi momenti migliori, e il cristianesimo ne aveva ripreso l'insegnamento, gerarchizzandolo. È stata la filosofia dei lumi del secolo xviii a spezzare questa armonia: essa era stata preparata dal giansenismo, che separa la natura dal soprannaturale con la brutalità disumana caratteristica dell'orgoglio mistico, e che svaluta la prima a vantaggio della seconda, sola degna di considerazione; era bastato allora agli enciclopedisti ed ai filosofi demolire la chiave di volta senza fondamenta e difese che il giansenismo aveva sospeso per aria, per sconsacrare tutta la natura, abbandonata alle sole riserve che conservava ancora: riserve che, non più alimentate dalla circolazione fra naturale e soprannaturale, erano destinate ad esaurirsi con crescente rapidità nei secoli successivi.

L'avvenimento fondamentale del secolo xviii è dato dal secolarizzarsi della condotta umana; dalla buona novella, diffusa con le parole e con gli scritti, di un mondo sconsacrato; dal vangelo d'una natura restituita alla sua essenza profana, grazie all'eliminazione dei fattori religiosi accumulati dal millenario amalgama del paganesimo e del cristianesimo. Questa laicizzazione dei comportamenti nelle comunità tradizionali, è stata la causa essenziale dell'accelerazione della storia, e delle influenze che essa ha esercitato sulle strutture sociali. Le forze d'inerzia e di assimilazione che caratterizzano queste comunità furono amputate del loro rapporto all'eternità divina, delle quali sono, nel pensiero di chi le vive, la lontana ma reale imitazione. Priva della sostanza sacra che rende efficace il suo freno naturale e la sua facoltà di sviluppo, la coscienza del tempo continuo che trasporta con lentezza l'eredità delle generazioni, si sbriciolò a poco a poco, e il tempo discontinuo degli avvenimenti esteriori fu trattenuto soltanto da barriere sempre più fragili; cominciò ad accelerare, e determinò una pressione ancor più pesante sulle anemiche strutture sociali. Immaginazione e pensiero logico messi insieme ne legarono i punti d'incontro, e il mito dell'accelerazione della storia divenne realtà grazie alle distruzioni stesse che provocava. Tuttavia l'istinto sociale, per indebolito e impoverito che fosse, continuò a sussistere; il flusso degli avvenimenti esteriori però, e la loro rappresentazione astratta, se ne impadronirono dal di fuori e vi s'impressero come la forma d'una stampatrice; sotto il velo delle antiche denominazioni dei gruppi, fabbricarono letteralmente delle strutture sociali nuove, la cui sostanza artificiale era fino a quel momento sconosciuta.

Questo lo schema generale dell'influenza esercitata dall'accelerazione della storia sulle comunità umane.

Prima di andare avanti nella nostra analisi, bisogna ritornare al punto di partenza di questo schema: il secolo XVIII. Dice Holderlin: "È la nascita che conta per lo più". Molti avvenimenti hanno segnato il tempo discontinuo della storia generale prima del secolo xviii: guerre, invenzioni tecniche, scoperte geografiche, santi, geni, eroi, trasformazioni di idee religiose, e via dicendo. Però la loro diversità si può ricondurre all'unità: tutti questi avvenimenti toccano direttamente l'essere umano nella sua stessa vita, e per questo la vita può reagire in maniera diretta alla pressione di questi avvenimenti. Nessuno di essi tocca lo spirito in quanto separato dalla vita: neppure il cristianesimo, dal momento che Dio s'è fatto carne. Nessuno è un avvenimento puramente intellettuale, cioè soltanto mentale, rivolto alla mente umana come tale, in opposizione alla sensibilità e all'azione. La filosofia dei lumi invece è un fenomeno d'origine esclusivamente intellettuale, è un modo nuovo di guardare il mondo. L'uomo conosce in un modo diverso da una volta; il mondo gli si rivela in un'altra prospettiva, quella dell'intelligenza pura, dissociata dalla vita e dal mistero che la vita comporta. Prima del secolo xviii, la conoscenza era legata alla vita e alla sua capacità di comunione con l'universo. Dopo il secolo xviii, il patto nuziale è rotto: l'intelligenza proietta sugli esseri e sulle cose i suoi soli lumi. Non ci sono più tenebre: l'universo diventa perfettamente chiaro e trasparente, e ciò che non è luminoso, non esiste.

Si capisce a questo punto perché le comunità tradizionali si siano dimostrate incapaci di far proprio questo avvenimento inedito, puramente intellettuale. Le strutture sociali, infatti, appartengono non all'ordine del puro intelletto, ma a quello della vita; sono biologiche. Lo dimostrano le parole stesse: la famiglia fa subito pensare ai membri d'una casa uniti da legami di sangue; la corporazione agli organi complementari d'un corpo vivente; la patria al padre che da la vita al figlio. E in più sono continuamente irrorate da correnti affettive che l'intelligenza non conosce, o che nasconde sotto il velo della logica e della razionalità. Una rivoluzione nell'ordine dell'intelletto non tocca dunque direttamente le strutture sociali: l'avvenimento fondamentale del secolo xviii passò, per così dire, sulla loro testa senza che se ne accorgessero.

D'altra parte, non riguardava che una minoranza. Una legge costante vuole che le malattie aggrediscano prima chi è superiore, più fragile di chi è inferiore: le prime a essere contaminate furono le élites politiche, intellettuali e religiose, già profondamente separate dalle comunità tradizionali. Uomini di stato e alti prelati capitolarono di fronte alla vertigine della novità. Anche oggi, hanno i loro emuli. I membri delle comunità tradizionali, assorbiti dai loro compiti quotidiani e dalla trasmissione dell'eredità di vita che hanno per missione di conservare intatta, non si preoccuparono invece del fenomeno: era troppo lontano da loro, perché sembrasse un nemico da temere.

E tuttavia lo era, innanzi tutto perché scuoteva lo stato attraverso le élites che aveva formato, o meglio deformato, e perché ogni modificazione al vertice d'una società si comunica fatalmente alla base; e in secondo luogo, perché avrebbe imposto attraverso strade diverse, nate da questo scossone, degli schemi puramente razionali alla vita sociale.

Non si insisterà mai abbastanza sul primo punto. Fino al secolo xviii, lo stato non era un'istituzione, una struttura giuridica, una architettura intellettuale applicata dal di fuori alla vita sociale: lo stato era una persona. Questo significa la frase famosa di Luigi XIV: "Lo stato sono io". È un essere in carne ed ossa, affidato alla sorveglianza delle comunità che lo riconoscono come tale.

Michelet vide mirabilmente l'immensa trasformazione simultaneamente operata dai filosofi nella concezione della religione e in quella dello stato. Essi sostituirono il deismo alla fede in un Dio fatto carne, e l'istituto monarchico, razionalmente meccanizzato, allo stato fatto carne. L'astratto prende il posto del concreto. E Burke nota con perspicacia che la maggior parte dei nobili e dei sacerdoti che si rifugiarono in Inghilterra all'inizio della rivoluzione, ammettevano la necessità della monarchia, ma non amavano il monarca. L'amore delle entità astratte invase la società, e da allora non ha smesso di devastare la terra.

Quella del secolo xviii è senza dubbio la più grande trasformazione che abbia subito la specie umana, dal suo passaggio dallo stadio dell'"homo faber" a quello dell'"homo sapiens", con l'aggravante che si tratta d'un mutamento letale. L'influenza delle strutture istituzionali, prefabbricate razionalmente per decreto dogmatico della pura intelligenza, fanno sì che sia sistematicamente ignorato tutto ciò che riguarda la vita, la sensibilità, la simpatia, il cuore, l'adesione spontanea a realtà imponderabili e non traducibili in termini logici. Agli occhi del filosofo che considera l'uomo totale nell'equilibrio e nella complementarità - sempre precari! - dello spirito e della vita, la rivoluzione non consiste affatto nella sostituzione della forma repubblicana alla forma monarchica dello stato, e neppure nel passaggio dalla forma aristocratica a quella democratica della società, ma nel mutamento dell'uomo concreto, dell'uomo fatto di un'anima incarnata in un corpo, e nei corpi più estesi che sono le sue comunità di vita: mutamento effettuato da un tipo d'uomo nuovo, che s'identifica sempre più con un'astrazione.

Le lotte fra monarchici e repubblicani, fra conservatori e democratici, reazionari e progressisti, borghesi e proletari, fascisti e comunisti, e così via, sono dei fenomeni secondari che ricoprono appena il conflitto primario fra concreto e astratto. La prova ne è che ci si può considerare appartenenti ad uno dei gruppi della prima categoria, e dimostrare con gli atti che si aderisce invece al gruppo opposto. Già all'interno di un qualunque raggruppamento politico o sociale, l'urto fra dottrinari e riformisti sottolinea la differenza fra spiriti vuotati dall'astrazione, e quelli attratti dall'adattamento alle condizioni concrete della vita. Per quanto siano sempre meno numerosi gli uomini concreti, e sempre più numerosi quelli astratti, si possono citare esempi precisi d'inadeguatezza fra l'appartenenza esteriore e il comportamento inferiore. Péguy e Jaurès sono entrambi socialisti, ma il primo reagisce da uomo in carne ed ossa, il secondo da cerebrale. Proudhon e Marx sono entrambi all'estrema sinistra, ma il primo è appassionatamente legato al concreto, il secondo fabbrica con entusiasmo le sue esplosive danze di astrazioni. Churchill ed Eden erano entrambi conservatori, ma il primo è un ipervitale, l'altro un disincarnato; e l'opposizione è addirittura evidente in un Lenin e uno Stalin. Si possono citare facilmente dei borghesi che oscillano da destra a sinistra e viceversa, proprio perché isolati dalle loro radici. In tutti i paesi, i gruppi scoppiano, e si dividono in "duri" e "morbidi", forma degradata dell'antagonismo, meno patente, ma effettiva; si dividono fra i temperamenti che sacrificano le realtà della vita alla tirannia di un principio, e quelli che le stesse realtà finiscono per condurre all'ammorbidimento, se non al ripudio delle entità che fino a poco prima adoravano. Le etichette politiche e sociali, secondo noi, non hanno alcun significato. Il fosso che separa gli uomini d'oggi non è a questo livello, ma fra coloro il cui spirito disincarnato si isola dalla comunità vivente con gli altri, e quindi procrea comunità artificiali di sostituzione, e coloro la cui vitalità s'attacca ai frammenti dei corpi sociali organici, distrutti dall'accelerazione della storia. Noi assistiamo oggi alla nascita di sociogonie, a confronto delle quali le cosmogonie più arcaiche e più fruste appaiono intelligenti e profonde.

La stessa riflessione vale per la Chiesa, soprattutto nella religione cattolica. Man mano che s'attenua la relazione vivente del prossimo al prossimo, certe moderne teologie della Chiesa diventano delle teogonie, e crescono come la gramigna. Alcune prendono addirittura l'aspetto di vere e proprie gnosi, tanto che il credente si domanda se non deve per caso rinunciare al proprio credo, ai suoi antichissimi riti, per diluirsi in una specie di nuvolaglia che guiderebbe l'umanità in marcia verso la Terra promessa, e che i "progressisti" gratificano oggi del nome di Chiesa.

Per comprendere come questi sistemi sociogonici siano nati e abbiano sommerso le comunità tradizionali, bisogna ricollocarsi ancora una volta nella prospettiva dell'uomo nuovo del secolo XVIII. Il mutamento che caratterizza l'essere umano in questo periodo storico non sta soltanto nel predominio dell'astratto sul concreto, ma, più profondamente ancora, nella rottura dell'equilibrio sacramentale fra lo spirito e la vita. Se chiamiamo spirito l'insieme delle facoltà superiori dell'uomo, e vita il complesso delle potenze oscure che lo mettono in relazione immediata con il mondo, gli fanno percepire direttamente la sua realtà, lo radicano nell'essere, lo rendono capace di comunicare con la sua presenza, in sostanza quelle potenze dai nomi banali di sensazione, senso comune, buon senso, sentimento, istinto, ebbene, il grande risultato del secolo xviii fu proprio di dissociarli. Nell'uomo normale, spirito e vita sono complementari perché la vita nutre lo spirito e lo spirito rischiara la vita.

Al contrario, quando lo spirito divorzia dalla vita, non dispone più che di pensieri deboli, esangui, disincarnati. Privo di vitalità, esso non è più presente al mondo per l'intermediario della vita; incapace di raggiungere il reale, arriva soltanto più ai propri pensieri, e si costruisce un mondo inferiore del quale è padrone assoluto, perché la vita non gli ricorda più le esigenze del reale. Questo mondo, diverso da quello reale, diventa per lui il solo che esista, e il mondo dell'esperienza vissuta gli diviene odioso, perché gli rammenta le sue carenze.

Ogni legame reale, ogni comunione, ogni articolazione vivente con il mondo reale diventa una catena di cui deve liberarsi, un ostacolo che bisogna spezzare.

Nulla è più inebriante di questa impressione di collocarsi in un mondo di cui si è il demiurgo, il creatore e il dio. L'esaltazione che se ne prova compensa l'anemia di questo mondo, e il sentimento di pienezza soggettiva ne colma il vuoto oggettivo. La rovina del mondo reale che essa provoca per sopprimere un imbarazzante testimonio, e per inocularsi la convinzione che abbraccia tutto il reale, ne stimola ancora l'ardore. Per povero che sia il mondo della rappresentazione devitalizzata, è pur sempre il figlio unico delle opere dello spirito autonomo, e quindi è coccolato, adorato, esaltato. Inoltre ha una grande forza di persuasione: non presenta nulla di oscuro e di misterioso, come il reale: è trasparente da parte a parte. Ciò che abbiamo fabbricato noi stessi in tutte le sue parti, lo conosciamo perfettamente, senz'ombre, e lo spirito vi si ritrova a pennello. Credere in questo mondo, significa credere in sé. Aderirvi, significa aderire a sé. Fra questo mondo e l'io non c'è alcuna distanza da valicare: è là, immediatamente disponibile, specchio in cui l'io si contempla senza abbandonarsi.

Ora, nel medesimo tempo che lo spirito si fabbrica in questo modo un altro mondo, esso diventa altro da sé. Si trasforma a sua volta, creando se stesso: nato per unirsi alla vita, legato ad essa con l'incarnarsi che lo stabilisce come spirito umano, si altera, nel senso più completo della parola.

In realtà, l'equilibrio fra lo spirito e la vita è in noi estremamente precario: il suo mantenimento esige una vigilanza continua. È per assicurarsene, per quanto è possibile, la permanenza che gli uomini hanno edificate, a furia di incitamenti, avvertenze e proibizioni messi insieme, quel complicato insieme che si chiama civiltà. Per poco che si sprema la natura della civiltà, si vede che è un sistema di regole, che si riducono poi ad una sola: ciò che si può fare, e ciò che non si può fare. Il barbaro fa ciò che vuole, e non fa ciò che deve. La diversità delle regole è alla base della differenza fra le civiltà. Per mezzo di esse, l'uomo diventa quello che è, un uomo, uno spirito incarnato nel suo corpo individuale e sociale, sottratto ad ogni possibilità di evasione fuori del suo proprio essere. Il livello d'una civiltà dipende dalla qualità delle regole, e dalla loro azione, sia stimolatrice dell'equilibrio umano fra i membri, sia inibitrice dei loro squilibri. La più nobile e la più bella delle civiltà aveva per norma la misura: "nulla di troppo", si leggeva sul frontone del tempio di Delfo. Del pari, ogni civiltà si riconosce dall'impronta d'uno stesso stile su tutte le condotte umane, e costituisce un vero e proprio organismo vivente, ciascuna parte del quale corrisponde a tutte le altre. Una stessa legge dirige le attività dei suoi membri, i più elevati come i più umili, e impedisce loro di deviare. L'uomo che obbedisce a questa legge non scritta, è riconosciuto dagli altri, quale che sia il suo livello sociale, e non può diventare diverso da quello che è.

Tuttavia, la tentazione di non essere quello che si è, e di essere quello che non si è, è sempre presente nell'uomo a partire dal grande simbolo del peccato originale: "Eritis sicut dii", sarete come degli dèi. Per questo le civiltà sono mortali: il tipo umano equilibrato precipita dal momento in cui gli viene a mancare l'energia che lo alimenta. Perché una civiltà duri, occorre una disciplina, una costanza, nello sforzo e nell'azione, da parte dei suoi membri, delle élites soprattutto. Nulla è più difficile che cogliere l'uomo reale, il mondo reale; nulla è più raro e più fragile dell'equilibrio. Una civiltà è una protezione contro le cadute, esige attenzione al reale e forza d'animo. Al contrario, niente di più facile che cedere alla vertigine dell'irreale, rompere l'equilibrio dello spirito e della vita. Basta lasciarsi andare alla fatica di vivere, immaginare un altro stile di civiltà, in cui tutto sia facile, in cui l'uomo sia un altro, in cui gli si offra un altro mondo, meno duro.

Orbene, questa tentazione che noi tutti proviamo, il secolo xviii l'ha canonizzata, codificata, eretta a norma. Agli uomini viene proposta una nuova linea di condotta: la separazione fra spirito e vita, la fuga in un universo mentale popolato di rappresentazioni schematiche, dal quale è esclusa la densa presenza del reale, la costruzione d'un mondo fittizio in cui la prodigiosa varietà del reale e le differenze fra gli uomini sono ridotte ad un comune denominatore astratto. L'uomo è dappertutto e sempre lo stesso, il mondo non è che materia sempre uguale sotto la sua apparente diversità; il selvaggio dell'Orinoco e il filosofo dei salotti parigini, l'anima e il corpo sono gli stessi prodotti della natura. Lo spirito, privato della vita pullulante e dell'universo colorato, non può far altro che ridurre il diverso all'identico; nello stesso tempo, il processo di riduzione caratteristico dell'intelletto devitalizzato, libera l'uomo da tutti i suoi agganci al reale e, slegandolo, lo scatena. La grande rivoluzione non è in primo luogo politica e sociale; ma è tutt'intera nell'uomo, il cui spirito si sottrae alle ingiunzioni della vita. Le élites intellettuali del secolo XVIII ne hanno proposto il modello all'umanità.

Non si tratta qui d'un avvenimento limitato nelle sue conseguenze, simile a quelli del tempo discontinuo proprio della storia generale, ma di un fenomeno il cui principio di riduzione è totalitario, e le conseguenze infinite, dal momento che si esercitano ancor oggi con crescente ampiezza. Dopo aver disertato la vita, lo spirito umano, spinto dall'incosciente forza unificatrice che lo travaglia, la reintegra, riducendola e distruggendola per renderla conforme ai suoi schemi prefabbricati. Nasce una nuova continuità, la sola che valga, quella che Condorcet ha chiamato: il progresso infinito dello spirito umano.

Lo spirito strappato alle sue radici, e popolato di astrazioni, si annette come prima cosa lo stato. L'abbiamo già detto, ma ritorniamoci su un momento. Il nuovo stato, nato dallo spirito nuovo, ignora uno degli istinti più profondi della vita: l'istinto sociale. Esso viene a coronare, non più delle società diverse, accordate le une alle altre dai lenti adattamenti della storia, ma una collettività di automi rigorosamente simili. Una comunità di rassomiglianze prende il posto della comunità forgiata dal destino attraverso tempi e affinità comuni, derivati da rapporti concreti comuni, inavvertitamente costruiti nel corso di tutta un'esistenza. Per quanto operi nello spirito staccato dal reale, la sterile e astratta deduzione va imperterrita per la sua strada: gli uomini sono liberi perché hanno spezzato i loro agganci alle loro storie particolari, familiari, professionali, regionali; dunque, sono tutti uguali, perché nulla più li differenzia, e sono tutti fratelli, dal momento che sono identici. Non ci sono più società al plurale, come diceva Péguy; rimane soltanto una collettività composta di individui simili, sui quali lo stato domina da tiranno, perché privi di ogni capacità di resistenza sociale al suo arbitrio. Punto finale di questo fenomeno, il collettivismo e, al limite, il comunismo universale, il cui inno assicura, senza mezzi termini, che L'Internazionale sarà il genere umano.

Uno stato fondato su un principio universale, che non considera i suoi membri in quanto francesi, o americani, o tedeschi, o russi, ma in quanto liberi, uguali, fratelli, oppure in quanto destinati a rendere il mondo adatto alla democrazia, oppure ancora in quanto ariani, o lavoratori; uno stato del genere è necessariamente imperialista e conquistatore, perché mira a far entrare nell'esistenza una caratteristica astratta e universale, più larga della qualità concreta che caratterizza i componenti d'una stessa patria. Lo stesso accade per l'arabismo, o per il mondo di colore. Oggi, tutti gli stati sono affetti dai virus dell'astrazione, che trovano il loro terreno di coltura nella separazione dello spirito dalla vita, ed hanno alla base di tutti i loro atti il principio di Napoleone: "Io ho realizzato l'unione della filosofia e della spada". Nessuno stato fa eccezione, nemmeno la stessa Inghilterra, la quale, per empirico che sia il suo comportamento, nasconde nella sua politica una filosofia utilitaristica degli affari.

In una atmosfera così satura d'ideologia, gli stati si fanno e si disfano con una rapidità estrema: nulla è più accessibile dell'ideologia alle influenze straniere, alle diverse forme della volontà di potenza, agli interessi materiali, all'appetito di dominio, perché l'ideologia non s'attacca a niente di solido, di vivente, di radicato nell'esperienza vissuta e nel tempo continuo delle città carnali: è semplicemente il travestimento della pirateria. È proprio in nome della giustizia con la maiuscola, che si commettono le più flagranti ingiustizie.

Un esempio: la riprovazione che oggi è di moda scagliare sulla colonizzazione.

Il fatto è che ha buon gioco la giustizia astratta e maiuscola, perfetta nello spirito disincarnato che la contempla e la preconizza soltanto a parole; che non conosce la parte d'imperfezione che accompagna l'incarnazione dello spirito nella vita, ignora le realizzazioni concrete, e vilipende insieme il prima e il dopo dell'azione reale: che in una parola, è nichilista per definizione. Del resto, se ne erano accorti i nostri padri: "Summum ius, summa iniuria"; saggezza semplice, accessibile all'osservazione immediata, che è oggi fuori-corso, soprattutto fra i cosiddetti "intellettuali".

La nevrosi degli stati moderni è manifestata da una quantità di sintomi. Regnando su individui senza passato, senza presente e senza avvenire, lo stato oscilla continuamente fra tre posizioni, che è incapace di occupare stabilmente: l'anarchia, l'organizzazione dell'anarchia, la tirannide. La guerra civile, che è la forma acuta dell'anarchia, non è mai permanente, perché è troppo contraria alla natura sociale dell'uomo. Lo stesso vale per l'anarchia, che, paradossalmente, è stabile non già nel subcosciente dei cittadini, ma al contrario nella loro coscienza più illuminata, la più deformata dai "lumi".

Come può lo stato riunire la moltitudine di atomi sparsi e astratti dal loro contesto sociale, che si continua a chiamare "cittadini"? Unicamente attraverso ciò che li allontana di più dalle comunità concrete, cioè le loro opinioni, perché l'opinione ha proprio per oggetto ciò che si conosce di meno per esperienza vissuta. Io non ho affatto un'opinione sugli esseri e sulle cose con i quali sono in vivente relazione quotidiana: l'opinione è estranea all'oggetto stesso dell'opinione. In quanto belga, non posso avere un'opinione sulla mia patria, mentre posso averne una sull'America, nella quale ho viaggiato. Più in generale, non posso avere opinioni nell'immenso campo delle cose che mi sono date per nascita, che sono connaturate al mio essere, di ciò che prolunga organicamente la mia anima e il mio corpo, di ciò che tocca la mia vocazione e le mie tendenze più profonde. Non ho opinioni su ciò che mi interessa di più, mentre ne ho, e d'avanzo, su quanto m'interessa di meno. Ma lo stato moderno, separato dalla vita, non ha altro procedimento a disposizione, per organizzare l'anarchia, che la classificazione delle opinioni: può pormi domande soltanto su quello che non so, ed è incapace di interrogarmi su ciò che so.

Per questo il regime parlamentare della rappresentanza delle opinioni costituisce una vera e propria "impasse", un vicolo cieco, una caverna nel senso platonico del termine. All'origine, poté funzionare, bene o male, nella misura in cui deputati e senatori erano ancora attaccati con molteplici radici alle strutture sociali elementari nelle quali si svolge la vita degli uomini. Nel mio paese, in Belgio, dove l'evoluzione politica è stata meno rapida che in Francia, ho potuto conoscere ancora dei parlamentari che si preoccupavano delle comunità organiche nelle quali vivevano. Ora, sono scomparsi.

C'è però una conseguenza ancor più grave della loro eliminazione, ed è il carattere anonimo dello stato, riflesso del carattere anonimo delle opinioni. Uno stato in cui il re regna, ma non governa, in cui il magistrato supremo è senza potere, in cui egli è il capo di un partito politico, è uno stato in disarmo, una stato periodicamente da conquistare, uno stato che suscita le più folli mire. Ora, le opinioni che lo prendono d'assedio sono incapaci, in quanto opinioni, di esercitare la funzione di governo: l'atto di governare e quello di opinare sono in realtà inconciliabili. Il primo ha per oggetto degli esseri e delle cose, il secondo delle entità astratte che mascherano la visione degli esseri e delle cose. Per governare, l'uomo di stato è costretto a prendere una strada traversa, la sola che gli sia accessibile: dato che non si governano le opinioni e non si governano più le diverse comunità che costituiscono il paese, in modo da far loro superare il loro particolarismo e da articolarle le une alle altre, restano soltanto più gli interessi materiali nel senso stretto del termine. È l'unico punto di aggancio al reale che possiede la politica moderna. Reciprocamente, i fattori che determinano i governi all'azione sono strettamente materiali. Opinioni e interessi materiali vanno assai d'accordo, perché le une servono da paravento agli altri.

Sennonché lo stato vacante diventa preda di feudalità d'interessi, ed è l'anarchia organizzata. I gruppi economici dettano legge, sotto il fittizio pretesto del regime democratico, che ha solo un'esistenza nominale e retorica, etichetta di ben altro regime caotico; esso non ha ancora un nome, ma consiste di fatto nell'occupazione del potere da parte di una classe dirigente politico-economica (è quanto accade nei paesi comunisti), o nella consegna delle leve di comando dello stato nelle mani d'una "classe di tecnocrati", formata da funzionari e da rappresentanti di gruppi di pressione, che soppiantano lo stato e lo paralizzano, sia con il loro accordo che con il loro disaccordo (è quanto accade nei paesi cosiddetti liberi). Inutile aggiungere che queste due classi non si battono ad armi pari: lo spettacolo del mondo contemporaneo è abbastanza eloquente in questo senso. Anche qui, la storia accelera di giorno in giorno.

Ma lo spirito del secolo xviii non ha contaminato solo lo stato: ha pesato in modo decisivo anche sullo sviluppo delle scienze positive, delle tecniche e dell'economia.

Il monismo che anima tutte le teorie evoluzioniste, e che costituisce la filosofia occulta dell'accelerazione della storia, tende a riunire in un solo ed unico potere generatore le diverse correnti che traversano un'epoca.

Scienze, tecniche ed economia del secolo xviii formerebbero così, con lo spirito dei Lumi, un tutto coerente.

Ora, punti di vista così approssimativi non bastano per una attenta osservazione dei fatti storici: il monismo non si concilia con la natura della storia. È fuor di dubbio che esistano un genio greco, un genio latino, un genio francese, e perfino "an american way of life", che compenetrano le discipline dello spirito, le lettere, le arti, le scienze, e le colorano della loro presenza. Sennonché, una cosa è questa pregnanza nelle opere dell'uomo da parte d'una data mentalità, e altro la loro confusione in una stessa fonte, simile al caos dei miti arcaici, dal quale sarebbero usciti l'universo, gli dèi e gli uomini. Lo stile ed i fattori d'una civiltà differiscono, nonostante le loro rassomiglianze sul piano dell'espressione, per il semplice fatto che hanno oggetti diversi. Ogni attività umana è resa specifica dal suo oggetto, e la diversa natura di questo determina delle attività diverse in un universo a struttura pluralistica. L'universo storico non sfugge alla regola, e la nozione di storia universale non ha alcun senso a meno di non collocarla in una prospettiva di provvidenza, che ci sfugge. Non c'è, per esempio, alcuna valida ragione di riunire in uno stesso filone genetico il sistema scientifico di un'epoca e il suo sistema sociale. La geometria di Euclide non ha il minimo rapporto con la democrazia ateniese: la storia è tessuta di correnti le une dalle altre indipendenti, che interferiscono. In Saint-Just, il neo-classicismo e il furore rivoluzionario s'intersecano. È così, ed è la complessità stessa della storia che lo vuole. Ridurla ad un unico processo di espansione e di sviluppo è soltanto una costruzione dello spirito, in urto con la presenza della materia che diversifica gli individui e le comunità di base. Solo una visione gnosica può dar luogo ad una storia così concepita.

Il credito di teorie come questa va però aumentando. Per molti storici, come per l'uomo della strada, il progresso dei Lumi, e lo sviluppo delle scienze, delle tecniche e dell'economia sono creature gemelle dello spirito nuovo. Una pubblicazione come l'Enciclopedia ha contribuito non poco a diffondere questa favola smentita dalla storia: né le scienze, né le tecniche, né l'economia hanno atteso i filosofi del secolo xviii per nascere e costituirsi. Bisogna dire però che questa favola comporta anche una parte di verità. Non è un paradosso affermare che a partire dal secolo xviii, e per la prima volta nella storia, l'immaginario tende a diventare realtà: sotto la pressione della naturale tendenza all'unità che travaglia l'uomo, lo spirito staccato dalla vita, navigando nell'empireo della ragione pura sul soffio dell'immaginazione, non ha pace finché non ha raggiunto la vita, finché non ne ha toccato tutte le espressioni; e tra queste, le scienze, le tecniche e l'economia sono gli strumenti che in ogni tempo l'uomo ha inventato per adattarsi al reale. La ragione pura, però, non riesce mai a riarticolarsi organicamente alla vita: sarebbe una rinuncia a se stessa. Per riprendere la vita che ha abbandonato, la invade, se l'annette, in qualche modo se l'incorpora. Se si definisce il totalitarismo come la volontà di potenza della parte che pretende d'essere il tutto, il razionalismo è per definizione totalitarismo. L'unica via d'uscita che gli si offre è quella di penetrare nel cuore stesso della vita, per trasformarla radicalmente in ragione pura. Non si tratta più di conoscere il mondo, proclama Marx come un oracolo, ma di cambiarlo. Le categorie della vita devono ormai cedere completamente il posto alle categorie della ragione, che costruiscono un altro mondo, favoloso e artificiale: il nostro,

Un simile tentativo ha modificato la concezione della scienza, ed insieme, la sua direzione. La scienza è ormai investita d'una missione che non ha mai conosciuto: rendere il reale totalmente razionale, conoscere fino ad esaurimento la realtà. A questo scopo, il positivismo ha sostituito la nozione di legge a quella di causa, la fenomenologia ha ridotto l'essere ai soli fenomeni, lo scientismo ha fatto trionfare dappertutto il modulo meccanico che aveva condotto la fisica di successo in successo.

Se la scienza riuscisse ad eliminare tutte le resistenze che il reale oppone alle investigazioni della ragione umana, la ragione diventerebbe padrona di tutto, e null'altro incontrerebbe nell'universo se non la propria immagine.

Le filosofie che fino a qualche tempo fa deificavano la scienza, non hanno quasi più seguito oggi: restano però le due conseguenze della spinta razionalista ed imperialista che le fece nascere: la moltiplicazione delle scienze specializzate nell'esplorazione dei più nascosti meandri della realtà e, correlativamente, la convinzione che l'unità della scienza porterà una soluzione a tutti i problemi dello spirito umano. Un movimento di dispersione imprime al progresso scientifico una velocità accelerata che fa sorgere nuove scienze, ma nello stesso tempo le relega nel vicolo cieco d'un sapere raffinato, inintelligibile a chi pratica un altro settore del sapere. Un parallelo movimento di concentrazione, fortificato da questa stessa ignoranza, rianima continuamente, nella mente degli scienziati, la speranza che una vasta teoria potrà un giorno radunare tutte queste ricerche sparse in una sintesi razionale totale. Il favore incontrato dal sistema romantico di Teilhard de Chardin ha qualcosa a che vedere con questo stato d'animo dello scienziato, la cui carica si comunica alle scienze stesse. Dietro di esse, se lo scienziato non sta attento, si profila sempre il mito della scienza estendibile alla totalità del reale. Non è qui in causa il sapere scientifico in quanto tale, ma in quanto manovrato sotto sotto dalle astuzie della ragione, nelle quali, che lo voglia o no, lo scienziato si trova coinvolto. Lo spirito scientifico non ha ritrovato la coscienza dei suoi limiti ne del suo oggetto proprio: il misurabile. Il razionalismo occulto e disincarnato che gli si è avvinghiato da parassita da più di due secoli l'obbliga a compiacersi d'una rappresentazione degli esseri e delle cose sempre più lontana dalle altre possibili che ne abbiamo, a considerare la rappresentazione scientifica come l'unica valida e, per conseguenza, ad estenderla dispoticamente al di là del suo dominio.

Ormai è fatta. Le scienze hanno esiliato filosofia e teologia addirittura sulla luna. Per riconquistare credito, queste discipline si buttano in esibizioni grottesche: vedi l'esistenzialismo e il progressismo. Questo declino della sapienza non è dovuto, ancora una volta, al progresso delle scienze come tali, ma al complesso d'inferiorità che la filosofia e la teologia provano di fronte al cesarismo razionalistico di cui il progresso scientifico è portatore. I sapienti dell'antichità sapevano che la conoscenza umana implica livelli differenti: i filosofi ed i teologi moderni sono persuasi invece che conoscere significa conoscere scientificamente; e poiché non riescono a collocarsi nelle prospettive delle scienze esatte, abbandonano le loro posizioni per rifugiarsi nelle misteri e dell'utopia e delle visioni pseudoreligiose. Rare le eccezioni. La sapienza è data sempre meno da quella partecipazione vitale alla realtà, che, innalzata al livello del pensiero, penetra nell'intimità degli esseri e delle cose; è invece sostituita dalla perizia e dall'inchiesta, per non dire dalla statistica. Lo spirito, isolato dalla vita, che confisca a suo vantaggio le scoperte delle scienze, ha fatto guasti inauditi in questo campo: le esperienze hanno rovinato l'esperienza della realtà naturale e soprannaturale, di cui la filosofia e la teologia avevano un tempo l'appannaggio.

La conseguenza è fatale: grazie al prestigio delle vittorie che le scienze riportano nel campo della natura, l'impresa della scienza unica e solitaria si sviluppa continuamente, e dal mondo materiale si è ormai estesa all'uomo. Sintomatica l'introduzione della terminologia "scienze umane" nelle facoltà di lettere francesi. La psicologia, la sociologia, la pedagogia, ecc. ricalcano i loro metodi su quelli delle scienze positive e considerano l'uomo come una marionetta di cui vanno pazientemente smontando il sistema meccanico. Il vivente, l'imprevedibile, il meraviglioso che si scoprono ad occhio nudo nell'uomo, sono misconosciuti, a vantaggio d'una specie di radioscopia. Vengono portati alla luce tutti i canali in cui circola l'anima, ma l'anima in se, quella che ingloba lo spirito e la vita, è andata in fumo. L'uso della parola e strettamente riservato agli innamorati, agli "chansonniers", ai predicatori. Chi è disposto ancora ad ascoltare l'invocazione di Socrate ai discepoli: "Abbiate cura della vostra anima"?

Sotto l'impulso dello spirito nuovo, la distinzione fra scienze speculative e scienze pratiche è andata costantemente riducendosi. La teoria fa rimando alla pratica e questa a quella; la scienza pura chiede alla tecnica di perfezionarle i mezzi di investigazione e la tecnica esige dalla scienza pura una accresciuta precisione dei suoi obiettivi. Tra le due tendenze, che formano oggi un cerchio quasi perfetto, si stabilisce un va e vieni sempre più rapido. Scienze e tecniche, tutte quante, hanno rinunciato a contemplare il mondo e l'uomo, per conquistarlo e trasformarlo a loro somiglianza. Ne consegue la più terribile crisi che abbia mai agitato l'umanità.

Ancora una volta, non si tratta di mettere sotto accusa le tecniche, ma di sottolineare la deviazione che in esse opera il razionalismo, facendosene parassita. Se non bisogna negare il sentimento di grandezza che l'uomo prova dall'alto di un aereo, e che sentirà forse un giorno negli spazi interplanetari, non bisogna neppure sottovalutare l'assoggettamento dell'uomo nei confronti delle tecniche di dominio che ha inventato, e delle quali è schiavo, nella misura in cui non può padroneggiare la sua propria padronanza. Lo stesso accade per le tecniche più comuni. A partire da un certo grado di dominio sulla materia o sull'uomo, il volere abdica di fronte al potere; ciò che si può, lo si vuole, è una tentazione inevitabile, alla quale ben pochi sanno resistere. Per padroneggiare le tecniche, bisognerebbe che l'uomo cacciasse dal suo spirito il diffuso razionalismo che lo impregna e che le tecniche stesse, che ne sono i canali, contribuiscono ad espandere. Come essere padroni di sé e dello strumento che si utilizza, se non si ha il senso dei propri limiti? E come recuperare questo senso, se lo spirito non s'incarna nella vita, della quale la minima esperienza ci rivela i limiti?

D'altra parte, questo dominio di sé e dei propri strumenti è tanto più difficile, quanto più è irriducibilmente personale, mentre le tecniche ispirate dal razionalismo sono collettivizzanti. Esse dissolvono l'uomo nella massa e giustificano il collettivismo con il razionalismo di cui sono impregnate: non si rende forse l'umanità, grazie a loro, sovrana della natura e responsabile del suo destino? L'individuo in carne ed ossa è uno zero nel sistema: perché preoccuparsi di lui? Soltanto le collettività animate da una passione conquistatrice sono sicure di vincere la partita. Se degli scienziati e dei tecnici non si stancano, a titolo privato, di denunciare questo razionalismo totalitario, le loro proteste passano quasi inosservate. Non è forse vero che le due grandi potenze che si dividono la terra accelerano il progresso delle scienze e delle tecniche, per imporre al mondo la loro volontà dominatrice? Non è vero che il feticismo delle scienze e delle tecniche è la religione delle masse? Come far intendere, allora, la propria voce in questo tumulto? Un latente razionalismo, sotterraneo e profondo, più dannoso del vieto scientismo del secolo xix, è la caratteristica del secolo xx.

Guardando da questo punto di vista l'accelerazione della storia odierna, non ci si stupisce che abbia impresso ai fenomeni economici una andatura senza precedenti.

L'economia si trova al punto d'incontro della materia e dell'uomo, è lo sbocco delle scienze e delle tecniche, deriva da un lavoro collettivo, agisce sulla natura per trasformarla, è interamente frutto dello sforzo dell'uomo. L'uomo può fare a meno quasi di tutto, tranne che d'un minimo di beni materiali. Economia e vita umana, considerate come sostrato di valori più alti, sono intimamente associate. Anche qui è arrivato il razionalismo, e non basta dire che, nella sua fretta d'impadronirsi di tanti fattori associati e di infeudarsi la vita, lo spirito razionalista ha creato dal nulla la scienza economica. Il fatto è che la scienza economica è nata nel secolo Xviii e non si è mai potuta liberare del marchio d'origine. Le altre scienze e le altre tecniche sono potute sfuggire talvolta alle influenze del razionalismo, l'economia mai.

Si può dire, senza esagerare, che nel momento stesso in cui la civiltà moderna è entrata in una fase caratterizzata dal predominio dell'economia, questa scienza ha esercitato la più nefasta influenza sul corso degli avvenimenti, e l'ha sospinto sull'orlo dell'abisso. Basterà ricordare i nomi dei grandi economisti liberali del secolo xix, quelli di Marx e dei suoi successori, di Keynes e seguaci: le perturbazioni sociali più catastrofiche della storia umana sono la loro eredità.

All'origine di questo straordinario moto di dissoluzione che si va estendendo di giorno in giorno, malgrado brevi parentesi, si trova la separazione fra lo spirito e la vita, volgarizzata dal secolo xviii, e già contenuta in germe nel dualismo cartesiano. Il cambiamento della concezione dell'uomo non ha soltanto devitalizzato lo spirito, ma anche despiritualizzato la vita, riducendola alla materia. È apparso così, al livello dell'economia, un tipo d'uomo sconosciuto nella storia, l'"homo oeconomicus", ora macchina per produrre, ora macchina per consumare. Tutti i sistemi economici lo presuppongono dietro le loro ricerche, perché si affermano come scientifici, e d'altro non dispongono, per esserlo, che del modello meccanico e perfettamente razionale costruito dallo spirito nuovo. L'economia è un'enorme macchina, di cui la natura e l'uomo sono le rotelle. Per gli economisti liberali, bisogna "lasciar fare" la macchina: chi ne rispetta le regole imprescrittibili è ricompensato, chi le viola, è punito. Per gli economisti marxisti, bisogna invece costruire una nuova società di stile collettivistico, che s'adatti razionalmente alla macchina, e liquidare la vecchia società ormai logora. Per i seguaci di Keynes, bisogna agire ora sull'uno, ora sull'altro elemento della macchina, secondo il bisogno, in modo da ottenerne il pieno rendimento il più a lungo possibile, e ricominciare l'operazione su un altro organo, quando occorre. Economia libera, economia costretta, economia manovrata: l'uomo in carne ed ossa, però, non c'è mai.

È chiaro che in una economia così nettamente meccanicistica, interamente trasparente allo sguardo della ragione, ogni finalità è esclusa: l'economia non ha altro scopo che la propria conformità al modello razionale e astratto che le è stato scelto. Costruito il prototipo, il potere lo adotta, e la macchina economica si lancia a tutta velocità senza che nessuno sappia dove va. Nessuno si ricorda del principio, immediatamente evidente, che si produce per consumare, e che l'essere umano concreto, il solo che sia capace di consumare dei beni materiali, è l'unico fine dell'economia, che altri non ve ne sono, e che bisogna pur tenerne conto! Diceva un illustre economista: "Tutto andrebbe così bene nel mio sistema, se non ci fosse questo diavolo di consumatore!".

Dato che bisogna tenerne conto, lo si farà nella misura minore possibile. Come prima cosa, lo si amputerà di ciò che lo fa uomo, vale a dire della sua natura di spirito incarnato nella vita, della sua tendenza naturale a perseguire il completo sviluppo del suo essere indivisibile, in una parola, del suo fine morale. Unanimi, su questo punto, la teoria e la pratica: la scienza e la politica economiche hanno divorziato nel mondo d'oggi dalla morale. In seguito, s'isolerà l'interesse che l'uomo prova per i beni materiali da tutto il contesto umano del quale sono strumenti, e si erigeranno questi mezzi in fini. Anche qui, l'unanimità è totale: il mondo moderno ha come postulato che l'uomo desidera i beni materiali, senza andare a cercar altro. Infine, la riduzione si completa con l'identificazione dell'uomo in unità anonima di produzione e di consumo, immersa nella massa. La finalità dell'economia è così esorcizzata. Si tratta soltanto più, a questo punto, di far passare questa concezione dell'" homo oeconomicus" nei costumi: un gioco da ragazzi, quando si sa che l'economia è necessaria all'uomo, farla passare per l'unica cosa necessaria. La propaganda, la pubblicità, la violenza, la costrizione, le leggi e i regolamenti, la vecchia speranza d'un paradiso terrestre in cui i beni materiali saranno prodotti e distribuiti senza sforzo, come l'acqua e il gas a domicilio... e la macchina dell'economia gira, gira senza fine, follemente, sotto i nostri occhi.

Perché l'uomo resta un uomo e, a dispetto dell'accresciuto dinamismo dell'economia che ha cacciato i fantasmi della carestia e della fame da larghe zone della terra, rimane insoddisfatto. Qualcosa di informe, di terribilmente trascurato dentro di lui, protesta contro questa vita senz'anima, contro quest'anima senza vita.

L'accelerazione della storia ha distrutto tutto, dai valori sacri a quelli materiali. Ha costruito, artificio su artificio, sulle rovine dell'antico mondo, un mondo razionale la cui caratteristica è il cominciare assolutamente da capo. Ha fatto come l'architetto che si trova di fronte ad un terreno incolto, e sottomette l'edificio che costruirà ad un piano prestabilito. Ogni altro mezzo le era proibito, a meno di non compiacersi di una perpetua distruzione. Poiché aveva rifiutato le lente germinazioni della vita, poteva far ricorso soltanto alla pianificazione, ed essa doveva essere il più universale possibile, perché la ragione pura è universale, ovunque e sempre identica a sé. Le nostre menti sono a tal punto ipnotizzate, che riusciamo a comprendere la vita sociale soltanto più sotto l'aspetto delle "strutture" e delle "istituzioni", come se derivasse interamente da una pianta razionale che si tratta di far passare ulteriormente nella realtà. Non riusciamo più a vedere che la tendenza sociale è anteriore, e che tutta l'opera della ragione umana, in essa incarnata, è di condurla alla sua piena affermazione.

Non sappiamo più che lo spirito prolunga, corona e regolarizza la vita, la legge la natura, il diritto il fatto, l'astratto il concreto, le norme morali e sociali le inclinazioni spontanee dell'essere.

È la completa inversione dell'ordine sociale. Le comunità tradizionali sono tutte fondate sulla nozione, potente e oscura ad un tempo, del destino. È destino esser nati in una certa famiglia, in una data epoca, in un determinato posto della terra. È un destino sposarsi e fondare una famiglia, come avere una vocazione, o appartenere ad una certa patria. Il destino è l'insieme delle condizioni che s'integrano nell'atto di nascita dell'uomo, e l'incrociarsi dei destini costituisce la comunità. L'accettazione d'un destino comune è il fondamento dell'ordine sociale. Ora, questo destino non si può modificare: combatterlo o negarlo, significa urtare contro l'impossibile, collocarsi con l'immaginazione al di qua della propria nascita, per creare il proprio essere a partire dal nulla; significa figurarsi illusoriamente di essere prima di essere, ed è manifestamente contraddittorio. Ciò nonostante si è tentato di farlo, ed era logico per il razionalismo che, separando lo spirito dalla vita, lo rinchiude nel cerchio della rappresentazione: mentre si tagliava fuori la ragione dalla presenza degli esseri e delle cose, la si collegava strettamente con l'immaginario. Quanto più il razionalismo si vuole razionale, tanto più è irrazionale. Tutti i tentativi di ricostruzione di un ordine sociale a partire dalla ragione e dai suoi decreti, devono fare appello per forza alla finzione e all'attrattiva che la fantasia esercita sull'uomo. Lo aveva mirabilmente presentito Rousseau. Ecco l'esordio del suo "Discours sur l'inégalité": "Incominciamo con il mettere da parte tutti i fatti". La sua franchezza doveva attirargli l'odio di tutti i filosofi, il cui razionalismo virulento misconosceva la sua contropartita irrazionale. Rousseau non esitò un solo istante: per costruire il nuovo ordine sociale bisognava far tabula rasa di tutto ciò che il destino porta all'uomo all'atto della nascita e combinare le potenze della ragione e dell'immaginazione. In questo senso, è il solo pensatore coerente del secolo XVIII, e questo spiega il suo immenso seguito. Introducendo l'immaginario nel cuore stesso della ragione, egli faceva appello ad un surrogato della vita e, in mancanza di realtà, la nutriva di miraggi.

Sottratta al destino che tesse la trama degli incontri e ne mantiene saldamente i protagonisti in reciproca solidarietà, la concezione della società sviluppò la sua logica immanente. Folgorante la rapidità della sua diffusione: spesso ci fa meraviglia, mentre bisognerebbe stupirsi piuttosto del contrario. Non c'è niente che fiacchi più sicuramente gli uomini che un insieme di ragione e di disragione. È una lega che imita grottescamente la confusa intuizione d'una intelligenza misteriosa dalla quale dipende il proprio essere, e fa appello alle potenze religiose che lo travagliano, muovendo fino al parossismo il senso del sacro e proponendo un surrogato di Dio. Questo Dio, l'uomo lo porta in sé, nella sua ragione congiunta con la sua immaginazione. Con un lirismo un po' ridondante, ma di esatta portata, Edgar Quinet nota che "l'umanità è gravida come se stesse per partorire un dio". A livello sociologico, questo miscuglio di razionale ed irrazionale ha il suo corrispondente, negli ultimi due secoli, nell'implicazione delle società di pensiero e delle sétte occultiste: la mistica tecnocratica di oggi ne costituisce il prolungamento.

La rapidità con cui l'onda si propagò, valse a rinforzarne l'aspetto religioso: non soltanto la fisionomia del mondo cambiò nel giro di due generazioni ma, nello spirito e nell'immaginazione delle masse convenite, il carattere universale dell'avvenimento eresse la nuova storia in divinità. Le condotte umane non furono più regolate dall'oscuro destino della nascita ne dalle comunità di destino nate dai passi successivi; ma dall'enigmatico destino della storia e dalla nuova società scaturita dalla sua potenza. Il destino cambiò piano, passando dalle comunità particolari e concrete alle vaste società e all'umanità tutta, considerata come una astrazione. L'uomo divenne incapace di sottomettersi al suo destino individuale e sociale: divenne il suo stesso destino, ma collettivamente. Napoleone, con il suo acume di visionario, definì questo rovesciamento di posizioni con una formula geniale: "Io non sono un uomo, sono un destino". Il culto che le masse gli votarono gli da perfettamente ragione.

La mitica identificazione dell'uomo con una ragione universale, pensata e immaginata come una specie di divinità, ha segnato di sé tutta la nostra epoca. Il sentimento religioso, cacciato dal laicismo e dalla attività profanatrice dello spirito dei Lumi, non cessa di accumulare la sua forza esplosiva nell'inconscio: il suo enorme potenziale è sempre disponibile. I secoli XIX e XX provano abbondantemente che esso s'infiltra nella zona di minor resistenza, offertagli dalla rappresentazione immaginaria, dallo sradicamento dalla vita, dall'evasione nelle nuvole dell'ideologia. Il freudismo, probabilmente, non è altro che la trasposizione a livello della sessualità individuale di questo fenomeno sociologico di portata mondiale. Il nazionalismo, l'internazionalismo, le diverse forme dell'umanitarismo, dimostrano che l'uomo moderno si trova misticamente legato ad entità astratte, come Popolo, Razza, Classe, Umanità, che lo superano e lo costituiscono. Difficile trovare un altro periodo storico nel quale le epidemie religiose siano state altrettanto virulente, e non bisogna andare a cercare molto lontano per scoprirne le cause. Le entità astratte derivano la loro esistenza dal pensiero e dall'immaginazione: esistono solo nello spirito che le concepisce. TI popolo e la razza, per esempio, non sono più delle realtà in quanto tali. Con sovrano buon senso, Joseph de Maistre diceva che l'umanità non esiste, ma esistono soltanto degli uomini.

L'istinto religioso compresso si sfoga in queste rappresentazioni mentali e, volendo stringere a sé un dio reale che lo conforti e lo soddisfi, le divinizza. Il processo di deificazione presenta due aspetti strettamente collegati: riguarda l'individuo dal quale le rappresentazioni mentali derivano la loro esistenza e le collettività che esse designano, la loro origine ed il loro termine. Erigere il proprio pensiero in idolo significa sempre idolatrare se stessi e adorare le entità collettive che corrispondono a queste astrazioni. L'uomo ha un solo dio di ricambio: il suo io, ed il collettivo ne differisce solo per il nome. L'idolo è l'io che si idolatra, trasformato e sublimato in nn individuo gigante, che incorpora e impasta tutti coloro che si trovano in una situazione analoga.

L'individuo sradicato dalla vita che gli fa da limite e che gli impedisce di affondare nell'autodivinizzazione, si sente e si interpreta come un destino che opera nella collettività, nel tempo stesso che sente la collettività come un destino che opera nel suo io. Il destino gli è al tempo stesso immanente e trascendente. Con la sua azione, egli determina la storia collettiva e la storia collettiva lo determina a sua volta. Il suo io è la legge suprema che concatena gli avvenimenti con forza invincibile e muove infallibilmente i membri della collettività: questa potenza collettiva da parte sua lo domina, lo costringe e lo orienta in tutto il suo comportamento.

Guardiamo i grandi attori del gioco politico e sociale negli ultimi due secoli, da quelli della rivoluzione francese a Sékou-Touré, N'Krumah e Lumumba: il virus mistico dell'autodivinizzazione e della divinizzazione del collettivo li travaglia ed essi potrebbero ripetere con Marx che "la coscienza umana è la più alta divinità" e che "il collettivismo coincide con l'umanesimo". È un fatto che non tutti i nostri contemporanei sono intossicati nello stesso modo da questa nuova forma del destino: come in tutte le religioni, ci sono dei condottieri e dei seguaci, dei profeti e predicatori, dei convertiti e degli zeloti; ci sono i semplici fedeli, i ritualisti, gli aderenti passivi che subiscono le pressioni sociali dell'ambiente. C'è la folla degli indecisi e dei quasi-indifferenti, che adottano soltanto le grandi linee del sistema, come i cattolici che hanno a che fare con la Chiesa solo per il battesimo, il matrimonio e la sepoltura. Tuttavia, virulento o edulcorato che sia, il delirio religioso è presente dappertutto: come tutti i fenomeni di nevrosi, attraversa delle fasi di esaltazione e di depressione, provoca eretismo e stanchezza, ma uno sguardo attento lo coglie sempre: "Non tutti ne morivano, ma tutti ne erano colpiti".

Un movimento storico così generale non poteva non rivoluzionare i comportamenti sociali tradizionali. Sono di fronte due concezioni opposte del destino: l'una, vitale, formata dalle tendenze naturali e dal loro incrociarsi; l'altra, pensata e immaginata. La prima tocca concretamente gli esseri che la compongono, li rende interdipendenti e li lega gli uni agli altri in modo organico.

Scambi effettivi e costanti li definiscono. Malgrado la diversità di situazioni e di vocazioni, il padre, la madre e i figli sono solidali in un destino comune vissuto fin nel profondo dell'essere. Lo stesso accade in un'impresa sana e in uno stato ben costituito: il padrone e l'operaio, il principe e i sudditi sono uniti nella felicità e nella prosperità come nella disgrazia e nell'avversità. I membri d'una comunità impregnata da una concezione vitale del destino vivono l'uno per l'altro.

Al contrario, i componenti d'una comunità avente una concezione del destino pensata e immaginata vivono gli uni come gli altri. Sono inglobati in una stessa ideologia astratta, che colpisce il pensiero e l'immaginazione per discendere nel comportamento e modellarlo secondo un tipo uniforme. Costituiscono dei partiti, delle classi, delle collettività i cui elementi si assomigliano, ma non sono solidali gli uni con gli altri se non nella misura in cui li coagula una frenesia religiosa. Nessun legame carnale e concreto unisce l'egiziano all'algerino, il cinese al cubano, il russo al congolese, l'operaio metalmeccanico di Billancourt a quello della Fiat, il borghese di Parigi a quello di Bruxelles, il partigiano d'un qualunque gruppo politico a quello della stessa setta. Comunicano soltanto a distanza nella stessa ideologia, nella stessa concezione del mondo, nel fanatismo o nel culto di una entità astratta.

I due tipi di comunità sono esattamente opposti. La prima si fonda sull'unità nella diversità, la seconda sull'identità nella separazione. Per durare, quella ha bisogno soltanto di obbedire agli imperativi della nascita e della vocazione. Le strutture che la coronano si pongono nel prolungamento diretto delle tendenze naturali che l'animano e la rinnovano in continuazione. All'opposto, questa esige strutture sempre più rigide, militarizzate, monolitiche, che contengano la separazione dei suoi membri e ne canalizzino il furore mistico. La prima è sempre relativamente ristretta, dato che è impossibile aver relazioni viventi con tutti. La seconda è estensiva, si annette le folle, le masse, le collettività anonime, ed è senza limiti, essendo fondata su una astrazione universale. L'una ha soltanto una storia particolare ed esige la presenza d'una gerarchia di animatori che la sollevino dal di dentro; l'altra determina sempre più la storia generale e richiede un livellamento delle condizioni, una netta distinzione tra seguaci e coloro che li manovrano dall'esterno, e dei pungoli esteriori che la spingano senza tregua all'azione.

Ciò spiega come la famiglia, che è per eccellenza la comunità del primo tipo, sia stata letteralmente schiacciata ai nostri giorni. Lo spirito nuovo l'ha fatta a pezzi.

Mentre la civiltà medievale era nata dalle rovine della civiltà antica incentrandosi intorno al concetto vissuto di "paterfamilias", come la cellula intorno al nucleo, la civiltà moderna ha completamente eliminato il padre in tutte le forme sociali dell'autorità o dell'affezione paterna. In nome della libertà astratta, sono entrati nei costumi e nella legge l'indipendenza della moglie, l'autonomia dei figli, il divorzio, la divisione ereditaria. Se l'accelerazione della storia giungesse a dividere completamente la famiglia, essa si ridurrebbe ad una giustapposizione di nomi sulla stessa pagina del registro di stato civile, e il compito del padre e della madre ad una occasionale funzione genitrice: non è un'ipotesi tanto utopistica. La prima fase del comunismo sovietico l'ha conosciuta in pratica; l'America la tollera e l'Europa, malgrado una più forte resistenza della vita, considera sempre più la famiglia non sotto l'aspetto d'una comunità organica, ma unicamente come un "focolare d'amore". Base della famiglia non è più il solido sentimento del destino comune, ma il destino precario del sentimento condiviso. Tonnellate di carta stampata sono state pubblicate sull'argomento, ed è un brutto segno: quando il destino, che è, per definizione, più forte di tutto, ha bisogno di essere sostenuto da una "mistica familiare", significa che la sua salute non è più così buona. Ci vuole ben altro che un fragile affetto reciproco per rinsaldare la famiglia contro la frana che la minaccia. Ci vuole il senso d'una reciproca obbligazione irrevocabile, che esiste in tutte le anime sagge.

Un eminente giurista, Tulien Bonnecase, nella sua opera "La Philosophie du Code Napoléon", ha descritto questa evoluzione fondamentale: "II diritto di famiglia della rivoluzione è stato la negazione dell'elemento sperimentale del diritto a favore dell'elemento razionale. Esso si riconduce ad una deduzione rigorosa e puramente logica, nel campo familiare, dei diritti assoluti dell'individuo. La famiglia considerata nella sua natura organica cede il posto al regno anarchico delle passioni individuali". La dissociazione fra lo spirito e la vita, la ruga nella libertà astratta, la scomparsa dell'interdipendenza, il culto delle emozioni viscerali, s'installano qui in tutta la loro ampiezza.

Correlativamente all'esaltazione del destino personale nella famiglia, appare un altro aspetto: l'influenza del destino collettivo. Tenuta insieme, nel caso più favorevole, soltanto dall'affetto, la famiglia non sussiste praticamente più dopo una generazione, misurata per di più sulla lunghezza della vita del padre e della madre. I nonni sono, nella maggior parte dei casi, abbandonati alle cure della collettività. Dal momento in cui fratelli e sorelle non abitano più insieme, i legami di parentela s'infiacchiscono. Ciascuno vive la sua vita, e la continuità familiare sparisce: antenati e cugini sono inghiottiti in un abisso vago e anonimo. Chi si da cura oggi del proprio albero genealogico? Chi conosce il nome dei suoi avi a1di là della seconda generazione? È un fenomeno abbastanza recente la concentrazione della famiglia nello spazio e nel tempo, su un terreno ristretto e occupato a breve termine. Chiaro il significato: la famiglia, devitalizzata dall'individualismo dei suoi componenti, ma avida ancora di vivere, si ritira di fronte all'abisso del collettivo che la minaccia. I suoi membri, non sentendo più la presenza d'un destino comune che vorrebbero poter servire, si difendono rifugiandosi in un riflesso emozionale, amputandosi delle ramificazioni lontane, restringendo la durata familiare. È ciò che fa l'albero battuto dalla tempesta.

Altro segno di questa repulsione per il comunitario è la cura gelosa che i genitori hanno per la persona fisica del figlio. Le attenzioni delle quali viene circondato sono innumerevoli. La famiglia si ripiega sul ragazzo, considerato come un oggetto prezioso e non più come l'elemento che continua il gruppo, s'integra in una persona sociale superiore alla propria ed è incaricato fin dalla nascita di trasmettere un bene che lo sorpassa, e quindi viene educato in questo senso. Il gruppo familiare, lungi dal subordinare a sé il ragazzo, si subordina a lui, al suo destino individuale, al suo avvenire. Non è paradossale affermare che questo culto del figlio contribuisce alla sparizione della famiglia. Assorbiti nelle cure che riversano sul ragazzo, i genitori scaricano invece sulla collettività la sua formazione morale, la disciplina che deve acquistare, l'insegnamento dei fini ai quali deve sottoporsi. Dietro la fragile ombra del ragazzo, s'innalza allora lo stato, che si arroga il diritto di istruire, di educare, di distribuire una visione morale e filosofica del mondo, di modellare l'anima e l'intelligenza. Il ragazzo è affidato alle mani meccaniche d'una astrazione gigante.

Non meno decisiva è stata l'influenza del razionalismo sulla professione e sul mestiere. Essi sono sempre stati collocati sotto il segno del destino, di una tendenza che fa corpo con l'essere stesso dell'uomo, e lo sottomette alla sua necessità. I nostri antenati non hanno mai immaginato che si potesse scegliere una professione o un mestiere: erano piuttosto questi che sceglievano il loro uomo. Essi rispondevano al destino della nascita, al mistero della vocazione, all'appello enigmatico della vita che aspira a prendere forma e contorno. Mestiere e professione erano ai loro occhi un vero e proprio destino, tradotto al di fuori, più o meno come fa l'albero che sprigiona il suo fiore e il suo frutto specifico: un prolungamento esteriore, una traduzione della necessità ulteriore dell'essere nel mondo visibile. D'altra parte, l'antica lingua ha conservato a lungo il significato di "bisogno" alla parola "mestieri" [Mestier in francese è termine arcaico che vale il nostro antico "mestieri" nel senso di "bisogno" (DANTE, Inf.. XXXIII. 18:"...dir non è mestieri"). In Normandia, nelle campagne, "métier" nel senso di bisogno, utilità (Littré)], e professione significa etimologicamente "dichiarazione di ciò che si è". Come la famiglia, il mestiere e la professione erano le conseguenze ineluttabili della crescita e della spinta del destino proprio dell'uomo. Mai i nostri antenati si sarebbero sognati di farli derivare da sostrati psichici complessi, come l'ambizione, il desiderio di guadagno, di ascesa sociale, la pressione di fattori economici, l'attrattiva della sicurezza, e via dicendo. Mestieri e professioni erano legati alla vita, agli imperativi vitali, alle inclinazioni innate; per questo si trasmettevano facilmente di padre in figlio, come la vita stessa. Abbiamo nella storia esempi di dinastie d'artigiani, di commercianti, di artisti, di uomini di Chiesa. Uniti così con una concezione vitale del destino, le professioni e i mestieri s'organizzavano come la vita. È naturale che gli uomini sottomessi allo stesso destino perseguissero le stesse mete, conducessero la stessa esistenza, formassero delle comunità.

Le corporazioni non sono mai state il prodotto d'una decisione giuridica, il risultato d'un atto volontario, una convenzione contrattuale. La loro origine si perde nella notte dei tempi, come quella della vita. Le organizzazioni professionali si ritrovano all'alba della storia, nell'oriente arcaico, nella Grecia preclassica, a Roma. La loro forma istituzionale è venuta ad adeguarsi alle interiori ed oscure esigenze di vita, proprio come l'anima, immessa nella carne dell'uomo, è dapprima incerta e barcollante, ma poi si sviluppa e matura man mano che l'essere umano diventa più umano. La comunità che deriva da una comune professione è uno spirito incarnato in quel grande corpo degli uomini che si chiama il loro stato, la loro posizione nel mondo, il posto che occupano, la parte di realtà in cui si esercitano le loro attività, e che si colloca nel prolungamento diretto del loro essere. L'organizzazione dei mestieri e delle professioni, così concepita e vissuta come sottomissione al destino, si è sempre aureolata di valori religiosi: per quanto indietro risaliamo nel passato, la vediamo associata a culti, divinità, protettori, santi.

È d'altronde evidente che le corporazioni sono integrate nell'economia generale, in un tipo di economia che differisce profondamente dal nostro. Fino al secolo XVIII, il miglioramento della produttività è stato estremamente lento: l'economia è rimasta più o meno ferma. Ora, in un sistema statico, nel quale i beni materiali si rinnovano con un ritmo quantitativo pressoché costante, l'organizzazione corporativa ha dei vantaggi che superano gli inconvenienti inevitabili in ogni forma di vita.

Innanzi tutto, attenua la tensione della concorrenza all'interno del gruppo e impedisce il monopolio individuale: secondo una espressione popolare, il mestiere può così nutrire il suo uomo. In secondo luogo, associa in maniera intima gli interessi dei padroni e dei dipendenti. Infine, dove fa difetto la quantità, obbliga i suoi membri ad una produzione qualitativa. La pignoleria dei regolamenti, i conflitti fra i diversi gruppi rivali, l'immobilismo che minaccia ogni atteggiamento difensivo, non sono nulla a paragone con l'equilibrio fra produzione e consumo che le corporazioni assicurano nei secoli di magra. Senza di esse, la storia economica e sociale dell'umanità sarebbe stata costantemente in preda al mercato nero che abbiamo conosciuto ai tempi dell'occupazione, con il suo corteo di profittatori e furfanti.

Al contrario, dal momento in cui il progresso economico incomincia a spuntare, nel secolo XVIII, l'organizzazione corporativa si rivela inadeguata nella sua stessa forma istituzionale, strettamente dipendente dal tipo statico dell'economia. Le corporazioni tendono a degenerare in monopoli collettivi e difendono con asprezza i loro privilegi contro le innovazioni tecniche che li scuotono. D'altra parte, di fronte al nascente dinamismo economico, la politica corporativa che i reali francesi avevano praticato durante tutto il medioevo, esita, cerca di barcamenarsi e oscilla continuamente fra un adattamento alle nuove condizioni dell'economia e la conservazione di privilegi a servizio dei loro imperiosi bisogni fiscali.

L'istituzione corporativa è già condannata dal secolo XVII. Gli storici sono d'accordo nel fissare il suo declino a partire da questa data. Nel secolo XVIII la filosofia dei Lumi le da il colpo di grazia. Scrive M. Coornaert, storico delle corporazioni: "Tutt'un partito di teorici e polemisti voleva la loro distruzione, e ne lanciava l'idea con forza irresistibile. La ragione fece giustizia della storia". Con Turgot, la nuova filosofia s'impadronisce del potere e impone una dottrina economica che contraddice formalmente quella delle corporazioni. "L'antico ideale", scrive ancora Coornaert, "era fondato sulla preoccupazione dell'uomo: era per l'uomo che i mestieri erano organizzati, per assicurare l'uguaglianza delle possibilità, per distribuire equamente il lavoro, per assicurare l'esistenza a tutti. Le comunità, organi di diritto quasi pubblico, coordinavano l'interesse dei singoli con l'interesse generale. Turgot invece, come tutti gli economisti del suo tempo, mira soprattutto ad aumentare la quantità delle ricchezze del paese per mezzo dell'espansione dell'iniziativa individuale. In astratto, si preoccupa della libertà di ogni uomo, in realtà, di quella della produzione guardata globalmente nel quadro nazionale. La novità dunque sono le grandi imprese, che promettono abbondanza: basta lasciar fare alla libertà per assicurarne lo slancio. Egli condanna le costrizioni ''per la ricerca del proprio interesse a detrimento della società in generale"... In breve, Turgot rimetteva alla legge il compito di dare corso alla libertà ripromettendosi che questa si amalgamasse con le cose in una armonia naturale, spezzata dalle convenzioni "arbitrarie". Le cose erano infatti, come il mondo intero, penetrate di ragione e l'uomo ne andava scoprendo a poco a poco le leggi".

La magistrale analisi dello storico mostra con la massima precisione l'opera dello spirito nuovo sul dinamismo economico che la comunità professionale creata dal destino si era rifiutata di integrare nella sua sostanza. In materia economica, come del resto in ogni altro campo, l'interesse a breve termine è un mirabile strumento che gli uomini impiegano per accecarsi. Le corporazioni non vollero rinnovarsi di fronte alle nuove tecniche che sorpassavano l'artigianato e davanti alle esigenze d'una economia che andava al di là dei limiti del mercato regionale o cittadino. Si attaccavano alla struttura esteriore della comunità assai più che alla sua vita. I filosofi dal canto loro costruivano delle nuove strutture, esclusivamente razionali e mentali, fondate sull'immaginario accordo tra una libertà astratta e delle astratte leggi economiche. A dispetto della loro opposizione, gli uni e gli altri avevano in comune lo stesso rifiuto della vita e della sua facoltà di assimilare gli avvenimenti che la colpiscono. Sotto questa duplice pressione, la comunità professionale cadde come un castello di carte. Il barone d'Allande, due volte fallito, sottopose nel 1791 alla Costituente un progetto di abolizione che doveva condurre alla famosa legge Le Chapellier. Soltanto Marat osò definire "insensato" questo decreto.

Il resto della storia è noto. Lo è meno l'azione parassitaria del nuovo spirito, staccato dalla vita, sulla nuova economia. Una libertà astratta, leggi naturali astratte, evolute nel quadro di uno stato e di una società astratti, non possono più produrre un equilibrio economico qualunque, per la semplicissima ragione che l'economia è fatta dagli uomini e per gli uomini, che sono esseri concreti, che perseguono, come tutti gli esseri della natura, certi fini, le cui attività sfuggono alla rappresentazione logica in cui il meccanismo pretende di collocarli. Nessun sistema economico può sussistere a parte nel sistema degli esseri e delle cose, se non su un piano immaginario.

La storia del liberalismo economico è quella della sua negazione da parte dei fatti: dove esiste, non genera altro che l'asservimento del debole al forte, il che equivale a negare se stesso. Il progetto d'instaurare un ordine economico puramente razionale, grazie al quale l'uomo possa giungere a dominare il suo destino, le sue relazioni con gli altri e i suoi rapporti con il mondo materiale, non è mai stato altro che un mito dietro al quale si sono sfogati, gli appetiti più violenti. L'elemento giustificatore ne è stato la religione del progresso: il domani farà perdonare l'oggi! Le lotte nelle quali sono in gioco i soli interessi materiali, separati dalle altre tendenze umane, hanno sempre per risultato di coalizzare i potenti e di ammassare gli altri, sui quali questi esercitano il loro potere. Malgrado tutte le divergenze, chi si riunisce a questo livello, si unisce. È quasi una legge fisica. La storia registra, all'origine stessa del liberalismo, dei tentativi taciti o espliciti di accordo fra i padroni e tentativi analoghi da parte dei dipendenti. Dove il vento turbina, gli elementi più pesanti si separano dai più leggeri. Dopo gli inevitabili tentennamenti dell'inizio, la scissione è oggi cosa fatta, ed ha preso forma di diritto quasi-pubblico. Ogni impresa che, volente o nolente, resta una comunità permeata da una concezione vitale del destino, in cui superiori e inferiori sono sottoposti agli stessi rischi, è ormai formata da due comunità, i cui membri sono giustapposti gli uni accanto agli altri, oppure opposti gli uni agli altri.

Ne ha subito il contraccolpo la finalità dell'economia. Invece di assicurare il suo fine proprio, e cioè il servizio del consumatore, in un momento in cui il suo dinamismo e la sua produttività lo permettono, l'economia si perde nei conflitti di interessi fra gruppi rivali di produttori, È un paradosso mostruoso: siamo in una epoca in cui i beni materiali sono più abbondanti che mai, in cui le lotte provocate dalla penuria sembrerebbero dover sparire, in cui pare così facile la risposta alle due questioni fondamentali di ogni economia, che cosa produrre, e come ripartirlo; eppure rinascono continuamente gli antagonismi fra le categorie di produttori e fra le molte associazioni professionali che si sono costituite secondo le affinità degli interessi collettivi.

È chiaro che siamo entrati in un'epoca in cui le feudalità economiche, nazionali e internazionali, grandi, medie e piccole, acquistano un'importanza estrema e si costituiscono in gruppi di pressione di malcelata influenza sullo stato e sulla vita politica e sociale. Un tempo, l'Ancien Regime si era basato sulle corporazioni per aver ragione del sistema feudale. Il "Nuovo Regime" non dispone di alcuna arma analoga per resistere alle feudalità ubiquitarie, le quali, nelle loro opposizioni, come nelle alleanze che fanno e disfano a seconda degli interessi a breve termine, minano il regime democratico al punto da non lasciarne sopravvivere che la carcassa.

Un regime di opinioni è incapace di resistere a delle coalizioni di interessi, non solo perché l'opinione è malleabile, debole e mutevole per definizione, ma soprattutto perché l'opinione si fabbrica, e i procedimenti di confezione sono oggi ben noti. Si spiega così l'ostinazione delle feudalità economiche a mantenere in vita un regime che esse stesse esauriscono: quel regime, è il solo in cui gli interessi possano dirigere il potere per interposta persona. La colonizzazione del politico ad opera dei gruppi economici, crea una situazione aberrante: la produzione dei beni materiali non ha più per fine il consumatore, ma il produttore stesso! La macchina economica è tecnicamente perfetta, ma gira a rovescio.

Ora, far correre a rovescio l'ordine naturale è un'impresa insensata, che esige delle strutture di sostegno, di protezione e di sicurezza, contro le quali il dinamismo economico va a sbattere come le acque d'un fiume in una diga. La finalità naturale dell'economia si cimenta in una vera e propria corsa ad ostacoli. Per strano che possa sembrare, mai come oggi il produttore ha trovato difficoltà a raggiungere il consumatore: eppure siamo in un tempo in cui la produttività ha raggiunto livelli inimmaginabili. La ragione è semplice: le strutture statali, parastatali e superstatali che mirano a proteggere i produttori contro gli inevitabili rischi di ogni iniziativa umana, sono estremamente onerose. Se si calcola l'incidenza delle imposte e dei mille salassi che esse fanno pesare sui benefici e sui salari realmente dovuti, si arriva ad un totale favoloso. Mai un'economia è costata così cara a paragone delle sue possibilità: è una economia che si divora da sola. Allora i produttori la fanno scivolare sulla china del totalitarismo comunista, perché infine l'ordine, sia pure fittizio, ha sempre ragione del disordine, e il collettivismo è la sola economia di produttori veramente coerente: presenta infatti una sistemazione perfettamente razionale dell'economia, una economia senza consumatori, in cui lo stato riunisce in sé la produzione e tutti i produttori, per reggere razionalmente l'universo. È la conclusione ultima della mitologia dei Lumi, come prevedeva Vigny:

È venuto il tuo regno, spirito puro, re del mondo!

e come aveva presentito Fedro: "La ragione del più forte è sempre la migliore". Il razionalismo integrale è integrale tirannia.

L'accelerazione della storia incide anche su un'altra comunità biologica creata dal destino: la patria. Anche in questo campo, la trasformazione è stata profonda e radicale, e la si può riassumere nella formula di Ramuz:

alle patrie di carne si sono sostituite le patrie ideologiche. La patria, nel senso pieno di luogo fisico e spirituale dove l'uomo è nato, di terra dei padri, di quadro di vita comune più o meno esteso, del quale l'individuo sposa vitalmente la sostanza nello spazio, nel tempo, nell'insieme delle abitudini materiali e morali trasmesse e rivivificate di generazione in generazione, tutto questo non era stato mai intaccato, fino al secolo XVIII, dalle rivoluzioni della geografia europea, dagli smembramenti e dalle ricostituzioni della carta politica occidentale, innumerevoli nel corso dei secoli. La storia generale e le storie particolari erano nettamente separate ed il patriottismo aveva un colore locale e regionale, era limitato ai paesaggi ed ai costumi che l'uomo poteva abbracciare - "durchseelen", dicono i tedeschi - e dei quali era a sua volta impregnato. Montesquieu individua ancora questo tipo di patria, quando nota che nell'antica monarchia capetingia "ogni patria era un centro di potere".

Nessun popolo europeo - tranne alcune rare élites - ha raggiunto il concetto di grande patria nazionale fino al secolo XVIII. Fa eccezione la sola Francia, ma bisogna sottolineare che il patriottismo francese aveva una caratteristica assai concreta e s'incarnava nella persona del monarca. Scrive Taine: "Fino al 1789, il popolo vedrà nel re il riparatore dei torti, il guardiano del diritto, il protettore dei deboli, il dispensatore di elemosina, il rifugio di tutti". Il culto della grande patria si confonde con il culto della persona reale, che riunisce le piccole patrie.

Come è avvenuto il passaggio dalla patria presente alla patria rappresentata? Esso non è dovuto ad un fenomeno storico, poiché i più grandi avvenimenti della storia non hanno mai scosso, in passato, le patrie di carne; neppure l'enorme sovvertimento della rivoluzione francese le ha annientate: "I miei soldati", diceva Napoleone, "sarebbero senza difetti, se non avessero né famiglia né patria". Per quanto grande sia oggi il numero degli "sradicati, il sentimento patriottico locale e regionale è ancora vivo nei cuori, in forma attenuata senza dubbio, ma effettiva. Soltanto il mutamento spirituale che appare nel secolo XVIII negli intellettuali, e che si è diffuso da allora come una marea in tutti gli strati della popolazione, può spiegare il fenomeno, la cui influenza sulle strutture sociali non ha ancora finito di stupirci. Il divorzio fra spirito e vita autorizza infatti il primo a fabbricare qualunque concetto di società, fuori da ogni controllo e limitazione imposta dall'esperienza. La patria ormai non è più il vivere insieme in un'area geografica comune e in una durata continua, l'una e l'altra sentite in un immediato contatto in cui è in gioco tutto l'essere: ormai, è una rappresentazione dello spirito o una immagine mentale.

Una simile nozione è per essenza estensibile all'infinito: vedi la concezione giacobina della patria, candidamente dichiarata da Michelet in un passo notevole.

Nel giro di due mesi, la rivoluzione aveva inondato tutt'intorno le sue sponde: saliva come il Nilo, salutare e feconda, tra le benedizioni degli uomini. La cosa più meravigliosa di questa mirabile conquista, fu che non si trattò d'una conquista, ma d'un reciproco slancio di fraternità. Sono due fratelli, da gran tempo lontani, che si incontrano e si abbracciano: ecco questa grande e semplice storia. Che bella vittoria, che unica, mai vista vittoria! Non c'erano dei vinti... tutti i popoli si gettarono nelle nostre braccia. Il retaggio di ragione e di libertà per il quale tanti uomini avevano sospirato invano, la Terra promessa che avrebbero voluto vedere per un momento solo a prezzo della vita, tutto questo la Francia lo regalava per niente a chi lo voleva! E le nazioni guardavano alla Francia, e la pregavano di conquistarle. La bandiera della Francia era quella del genere umano, quella dell'universale liberazione". Dal momento in cui la patria è assimilata ad un concetto astratto, come quello di libertà, si estende automaticamente a tutti gli uomini, e diventa senza sponde e senza frontiere.

Lo spirito, separato dalla vita che gli fa da limite, non ha più alcun limite.

La storia del secolo xix, come del nostro, prova d'altronde che tutti i nazionalismi hanno avuto origine da una "intellighenzia" che li ha forgiati e diffusi con una intensa propaganda. Non c'è dubbio che siano stati necessari, per fare la Germania e l'Italia, il pugno di ferro di Bismarck e l'astuzia di Cavour; ma questi uomini di stato non avrebbero mai potuto realizzare la loro opera, senza il lavoro svolto in precedenza negli spiriti da minoranze di intellettuali. Furono i membri della "intellighenzia" a prepararla con l'esempio: ed essi non si collegano ad alcun corpo sociale reale, non nutrono alcuna affezione per la comunità concreta nella quale dovrebbero vivere; non s'interessano al prossimo in carne ed ossa, ma a lontani esseri di ragione esistenti soltanto nella loro mente. Sono rinchiusi nel loro "pensatoio" nel quale ricreano il mondo con l'inchiostro, o nelle "società di pensiero" in cui lo sistemano a furia di saliva.

Staccati dall'universo, ne fanno nascere uno nuovo. Quanto all'universo reale, è assurdo, inintelligibile, rigurgitante di ingiustizie, di tare, di disordini: bisogna distruggerlo e sostituirlo. Le piccole patrie? Che meschinità! Soltanto una grande patria può essere proporzionata all'intelligenza che la penetra da cima a fondo perché l'ha fatta. La patria prodotta dalla vita, al bando! È troppo oscura per essere compresa. Abitudini, tradizioni, costumi, destino comuni, tessuti da innumerevoli fili invisibili che lo spirito incarnato coglie immediatamente perché è in comunione con la vita, lo spirito separato dalla vita li considera come aberrazioni perché è incapace di coglierne l'anima, il principio vitale. E poiché è pur necessario vivere insieme, cercherà di introdurre un facsimile di vita nelle astrazioni di cui è popolato il suo pensiero.

Impossibile far sorgere la vita dal nulla? Ebbene: si isolerà un frammento di vita comune alle piccole patrie, se ne farà un concetto e lo si estenderà a tutti gli individui che caratterizza. Per poco che si considerino i nazionalismi europei, asiatici e africani, ci si accorge che sono tutti fondati su un elemento vivente, arbitrariamente astratto dagli altri elementi della comunità creata dal destino che gli conferiscono il suo senso sempre relativo e trasformato in astrazione. Il nazionalismo giacobino, prototipo di tutti gli altri, isola la passione che i francesi hanno sempre messo nel difendere le loro libertà private e la rifonde in concetto di libertà. Altrove, sarà la lingua, o la razza, o un ricordo storico che ha lasciato una traccia nelle anime. La fabbricazione dei nazionalismi è terribilmente monotona: si tratta di convertire una particella di vita, talvolta infima, in una astrazione: tutto qui.

Sennonché, i nazionalismi sono per definizione delle entità in movimento, dato appunto che nascono dallo sradicamento dello spirito. Tipico il caso del nazionalismo tedesco. Se un gruppo parla la lingua germanica in un altro paese, bisogna ricondurlo nell'ambito della nazione germanica anche se la sua storia particolare si confonde con la storia di quel paese. I gruppi che parlano lingue apparentate, devono a loro volta entrare a far parte della grande Germania, ed ecco il pangermanesimo. Ma non basta. I tedeschi sono il popolo che ha conservato meglio i caratteri della originaria razza ariana: e quindi le frontiere della Germania devono estendersi fino ad abbracciare l'Europa ariana. Tutti i nazionalismi sono ricalcati su questo modello, si tratti del panslavismo, del panarabismo, del panafricanesimo, e via dicendo. Sono agitati, nervosi, frenetici, perché non hanno fondamento nella realtà. Al limite dell'evasione fuori dal reale, abbiamo il pandemonio dell'ONU, nel quale le astrazioni s'infilano una dentro l'altra in una perfetta e definitiva incoerenza.

È il caso di ricordare ora come milioni di vite umane siano state sacrificate a questi idoli insaziabili? È il caso di aggiungere che l'ultimo fiore avvelenato dei nazionalismi sia l'internazionalismo? che i proletari e i finanzieri, proprio come gli intellettuali, non hanno patria? È inutile. Nel vuoto dell'intelletto puro, come diceva Kant, la storia può sempre filare dritta, lasciando dietro di sé rovine su rovine. L'accelerazione è una caratteristica delle cadute: per non vederle, noi le chiamiamo ascese.

 

Per concludere, ci si può porre due domande.

In primo luogo: questa accelerazione della storia generale, che tanto contrasta con la permanenza, la stabilità, la resistenza alla morte delle comunità e delle società particolari edificate da millenni di storia, non è una illusione, ma una illusione che determina le sue conseguenze nella stessa realtà? Ogni perdita del senso del reale ricade sul reale. È una caratteristica delle costruzioni astratte e immaginarie di ridiscendere sulla terra degli uomini, come le nuvole vi ricadono in pioggia. D'altra parte, questa vertigine della storia generale e dell'evoluzione umana è portata da uomini che agiscono nel mondo. Noi constatiamo le loro distruzioni e le attribuiamo ad una causa alla quale imprestiamo una esistenza piena e completa, dimenticando che le entità immaginarie hanno solo un'esistenza immaginaria. Come Alice nel paese delle meraviglie, crediamo di vedere un gatto, mentre c'è soltanto una smorfia di gatto sullo schermo della nostra immaginazione. Nello stesso modo, crediamo all'esistenza d'una storia generale, di una storia con la maiuscola, di una ragione che agisce in questa storia, d'una accelerazione della storia dell'umanità.

In realtà invece, esiste solo una follia umana e la sua precipitosa caduta nell'abisso, che trascina con sé le sole storie che esistono realmente, quelle dell'uomo in carne ed ossa, della sua anima, del suo corpo, dei suoi corpi più vasti legati al suo essere: la famiglia, il mestiere, la professione, l'ambiente di lavoro, quello della nascita. La storia che porterebbe l'umanità, presa nel suo complesso, verso non si sa bene quale finalità, una sempre maggiore democrazia e libertà, il comunismo universale, il punto Omega, e via dicendo, con una specie di fatalità alla quale è vano opporre resistenza, tutto questo è un mito e un mito si veste di realtà soltanto quando vi aderisce. La credenza fa il dio.

Esempi. L'assassino dell'arciduca d'Austria a Sarajevo nel 1914 fu armato da un fantasma: il nazionalismo serbo, che noi rendiamo sovrano. La piccola Serbia si erge allora contro il gigante bicefalo Austria-Ungheria. Oggi, per la maggior parte dei contemporanei, sono alle prese due colossi: Russia e America. La storia moderna è piena di personaggi mitologici più dell'"Iliade". E non soltanto i fanatici credono all'esistenza di spettri inafferrabili, ma anche i loro avversati: l'allucinazione diventa universale. Gli uomini di stato tengono conto dell'esistenza delle entità collettive, gli uni per tirare le corde delle marionette, gli altri per evitare le conseguenze della loro intrusione nella realtà.

La vita, la vera vita nel seno di realtà vere, diventa allora impossibile. L'uomo che, per caso, o per grazia divina, ha conservato il suo buonsenso, si ritrova solo in un manicomio, assediato da chimere che si formano e si disfano continuamente sotto i suoi occhi e trascinano nelle bufere della storia i pazzi di cui hanno fatto la propria preda. C'è una sola logica dell'illogico: la fatalità. Il folle non obbedisce che agli ordini dei suoi sogni. Il razionalismo irrazionale, che corrode da tre secoli la ragione umana e l'allontana dalla presenza del reale, è un fenomeno di alienazione. Una folla di uomini espulsi dal mondo reale abita un altro mondo, che li domina, li assilla, dirige tutti i loro atti: sono gli schiavi dei loro sogni. Folle, diceva giustamente Chesterton, non è chi ha perduto la ragione, ma chi ha perduto tutto, tranne la ragione.

Se vogliamo evitare l'esplosione finale di queste entità collettive in un cataclisma universale, ci rimane un solo mezzo: non stancarci mai di denunciarle, di spezzare gli idoli. Una fatica d'Erede? Può darsi, ma bisogna che noi stacchiamo d'un colpo solo tutte le teste dell'idra di Lerna. Se ne lasciamo anche una sola, le altre rinascono. Il nostro primo dovere, in questo nostro tempo d'apparente ateismo, è quello dell'incredulità totale. Solo chi non crede a nulla sarà salvato. D'altra parte, non credere a nulla e credere in Dio, come credere in qualcosa e non più in Dio, è la stessa cosa. Vedremo allora, chiaro come il giorno, che l'accelerazione della storia che ci rende schiavi non esiste se non nella misura in cui cediamo alle sue lusinghe. Ridiventeremo allora degli uomini liberi, uniti da arterie viventi alla realtà, sgravati dalle carene che ci legano ai nostri sogni e alle nostre menzogne.

Seconda domanda: come indirizzare, canalizzare e dominare il torrente della storia? La risposta può essere una sola: ritornando, ciascuno per proprio conto, secondo il destino della nostra nascita, della nostra vocazione e delle nostre capacità, all'uomo eterno, fatto di un'anima e di un corpo, e di corpi più estesi che lo diversificano, e nei quali egli si propone, come programma d'azione, la definizione di sé come animale ragionevole, volontario e libero. In questo modo, ciascuno può: tendere, a suo modo, secondo la sua propria realtà, a nessun'altra simile, verso la realizzazione del suo essere umano effettivo, senza mai perdere il contatto con ciò che esiste, senza mai affondare nei miraggi dell'immaginazione. La sola strada che si apre davanti all'uomo per ricuperare il senso del reale, è ritornare quello che è, a partire dai dati concreti della propria esistenza. Se rifiuta di diventare individualmente e socialmente ciò che è, si mette sulla via dell'irreale, all'infinito, e tutti i suoi tentativi per essere diverso da quello che è falliranno miseramente: egli sarà sempre e soltanto, per uno sguardo attento, una maschera posta sul nulla.

Il ritorno all'uomo reale, diversificato dal suo corpo e dai suoi corpi più estesi, costituisce una conversione personale, necessaria ma insufficiente. È indispensabile ritrovare il punto fisso che resiste all'universale scorrere degli esseri e delle cose: il tempo non altera questo nucleo solido e incrollabile. Rinunciarvi, è trasformarsi in un cane annegato in balìa della corrente, e bisogna essere l'ultimo degli uomini per consentire ad una simile fine. Ma il ritorno all'uomo reale non può da solo scongiurare questo destino, perché non attirerà mai che una élite, e i suoi frutti non saranno immediati.

Al di fuori di questa adesione profonda alle radici della realtà umana, quale altro punto d'appoggio nel reale ci resta? Soltanto i beni materiali. Le ideologie hanno devastato le realtà spirituali, hanno addomesticato le scienze e le tecniche. Rimangono soltanto queste umili realtà. È questo, d'altra parte, il motivo per cui la nostra civiltà è di tipo strettamente economico, una civiltà che produce solo dei beni materiali. Tutti gli altri che essa da alla luce, sono immaginari o asserviti all'immaginazione. La nostra civiltà si è senza dubbio impegnata sulla strada dell'economia, perché non aveva altra via d'uscita: così, la maggior parte degli uomini sono oggi, direttamente o indirettamente, dei produttori di beni materiali. Perché ogni individuo e ogni impresa siano al loro posto reale nella società economica che, volenti o nolenti, è la nostra, perché siano ricompensati secondo i loro meriti reali, non rimane che l'economia concorrenziale fondata sulla libera scelta del consumatore e retta da leggi morali sistemate in un codice economico.

Una soluzione del problema economico che è quelle del nostro tempo, la si potrà anche cercare altrove: ma non si troverà altro che l'arbitrato dei poteri pubblici e, al limite, la collettivizzazione dei beni produttivi, il dirigismo del consumo, l'asservimento del produttore e del consumatore ad un razionalismo economico integrale. Si è detto tutto il male possibile dell'economia concorrenziale ed i misfatti del liberalismo hanno dato credito a questa favola. In realtà, non è mai esistita concorrenza sotto il regime liberale, per la semplice ragione che ogni concorso esige delle regole, mentre il liberalismo le rifiuta. L'epoca liberale ha semplicemente battezzato concorrenza il bailamme in cui il suo sistema, fondato sulla nozione di libertà astratta, affondava senza scampo. Questo processo di eufemizzazione è vecchio come il mondo. La vera concorrenza, al contrario, la concorrenza all'altezza dell’essere umano, implica delle regole giuridiche e morali, un Codice dell'Economia, uno statuto che normalizzi lo scorrere anarchico dell'economia abbandonata a se stessa, e la cui ispirazione non sia convenzionale. ma derivi dalla concezione dell'uomo reale delineata prima.

È evidente che questa politica concorrenziale esige una riforma profonda dello stato. La condizione "sine qua non" della salvezza sta nel decolonizzare lo staio dal parassitismo dei partiti politici e dei gruppi di pressione: sta nel restituirgli la sua funzione di governante, di giudice e di arbitro; nel renderlo indipendente dagli interessi particolari, in modo che possa salvaguardare il bene comune. È nell'essenza stessa dello stato il far regnare l'ordine e, in una società economica, di vegliare sull'ordine economico. Adempiendo a questa funzione lo stato, sottratto ad ogni appetito, moralizzerà, vale a dire umanizzerà, la prosperità materiale.

Utopia platonica d'una repubblica ideale? No. L'utopia non è qui, ma nella vana speranza che si possa imprigionare l'accelerazione della storia in strutture artificiali, trattati, convenzioni, piani. Soltanto ciò che è eterno nell'uomo emerge fuori del tempo che si porta via ogni cosa. Finché sarà provvisto di un corpo, l'uomo continuerà a ricercare i beni materiali: è il solo frammento di eternità che gli resti oggi, è una legge della natura. Le assise della ricostruzione dell'uomo individuale e sociale sono ristrette, basse, volgari? Sia pure: ma resta il fatto che, a paragone con le ideologie, sono reali, infinitamente più reali, a dispetto della loro pesantezza, che i deliri dell'immaginazione e i concetti della pura ragione. È quanto basta: le grandi cose, all'inizio, sono sempre state piccole.