Clicca qui sopra per tornare alla pagina iniziale del sito

 

LA CRISI DELLE ÉLITES
di Marcel de Corte
(Conferenza tenuta all'Istituto Canadese di Québec nel dicembre 1959)

Vorrei parlare in questo capitolo, il più semplicemente possibile, di alcune cose note e, soprattutto, di alcune cose meno conosciute, perché rese irriconoscibili dal mondo moderno. È un fatto che noi abbiamo oggi una quantità di nozioni che i nostri padri ignoravano. La nostra civiltà, che è essenzialmente una civiltà del libro e della carta stampata, introduce ogni giorno nei nostri cervelli una massa di conoscenze, che noi digeriamo più o meno bene, anzi piuttosto male che bene: la vastità di queste conoscenze avrebbe spaventato le generazioni anche immediatamente precedenti alle nostre. Basta pensare agli studi che si esigono oggi da un medico, rispetto a quelli di trenta o quarant'anni fa; ed è così in tutte le professioni. D'altra parte però, per una semplicissima legge, quella del proverbio "chiodo scaccia chiodo", questa massa di conoscenze ha sommerso certe evidenze elementari, relegandole nel dimenticatoio.

Gli incolti come gli eruditi, non conoscono più, tanto per fare un esempio, neppure il nome delle quattro virtù cardinali, che, qualche secolo fa, la gente del popolo poteva indicare con il dito sulle vetrate o tra le statue delle cattedrali. Tutta una immensa zona del sapere è oggi ricoperta d'ombra: il sapere morale, quello propriamente umano, è regredito dappertutto.

In due parole, si può dire che mai le conoscenze dell'uomo e del mondo sono state diverse e numerose come oggi, e che mai la conoscenza dell'uomo e del mondo è stata così misera e sbiadita. La distinzione fra questo plurale e questo singolare mi pare fondamentale: è la stessa che esiste tra un uomo che ha fatto delle esperienze in un campo qualsiasi, ed un uomo d'esperienza, fra gli onori e l'onore, fra le autorità e l'autorità, e così via. E non si tratta soltanto d'una contrapposizione fra conoscenze specializzate e il sapere che le coordina, cioè fra il molteplice e l'uno, ma tra la superficie e la profondità. La si può simboleggiare con la differenza che esiste, a colpo d'occhio, fra quella che si chiama "la psicologia delle profondità", che esplora il subcosciente umano, e la "psicologia profonda" che penetra fin nel cuore della natura umana, e la cui luce brilla a lampi da certe opere del genio; o ancora, con la differenza fra la microfisica, che studia le più piccole particelle della materia, e il senso dell'universo che il genio ha in sé.

Proprio queste ricchezze, accumulate dai più grandi uomini, sono oggi misconosciute comunemente: l'eterno di cui erano portatori ha lasciato posto all'attuale, alla novità; il gigantesco al normale; l'originale all'originalità, a volte perfino alla contorsione a tutti i costi, pur di sembrare originali: "Ci occorre del nuovo, quand'anche non ce ne fosse più al mondo", diceva già il Favolista.

Non vi parlerò quindi di cose nuove. Desidero semplicemente — e dico semplicemente perché dubito di essere all'altezza del compito — toccare in ciascuno di voi una corda (indubbiamente personale, e che esiste o non esiste più) che l'accumularsi delle conoscenze non ha rilassata. Cercherò di far scattare in voi, come dice il poeta, quei colpi d'ala confusi che fanno tutto risorgere. Socrate, nel "Gorgia", proclama: "Non obbligatemi a sottomettere le mie parole all'approvazione di chi le sente. Il solo che io sappia citare come testimonio delle mie parole è l'unico interlocutore; non so che farmene della massa. Chiedo soltanto l'approvazione di uno solo; alla folla, non rivolgo neppure la parola". E poiché stiamo chiamando in causa i poeti, lasciatemi aggiungere il vecchio Ibleo, che temeva "di offendere gli dèi acquistando successo presso gli uomini".

Ed eccoci dunque al nostro problema delle élites. Innanzi tutto, inutile sottolineare ciò che è evidentissimo, vale a dire che il termine implica un significato di superiorità. L'élite è il "fiorfiore" e, come questo, si eleva al di sopra del terra-terra, e indica quanto v'ha di meglio tra molti individui d'una stessa specie. Élite dell'esercito, e fiorfiore dell'esercito, sono la stessa cosa, ma con una sfumatura: fiorfiore indica ciò che v'ha di più brillante, di più distinto per bellezza, nascita, talento, mentre élite esprime ciò che v'ha di preferibile, di scelto. Del resto, "élite" deriva da un antico participio passato del verbo "eleggere", ed ogni elezione implica una designazione ad una dignità, ad una funzione, mediante una scelta.

L'élite presuppone quindi l'approvazione degli altri, intesa non nel senso di suffragio universale o di elezione democratica, ma di stima più o meno diffusa in un gruppo, senza il minimo intervento artificiale di propaganda, per una specie di riconoscimento naturale e spontaneo dei "migliori" in questo gruppo. Espressioni come l'élite dell'esercito, l'élite di una classe, l'élite di un paese, ne mostrano chiaramente il significato sociale: ma c'è società e società.

L'élite è espressa da una comunità gerarchicamente ordinata, del cui destino partecipa con maggior intensità e lucidità degli altri membri. In una comunità di questo genere, ognuno si trova sottoposto alle stesse vicende liete o tristi, in una reciproca dipendenza di cui l'élite assume le condizioni più dure, e gli onori che ne conseguono. Non si può neppur pensare per un attimo all'élite di un esercito che abbandona al suo destino l'armata nel corso d'una battaglia. Essa integra invece il destino comune, dal principio alla fine: sua caratteristica essenziale è quella di riunire in sé il massimo di vicinanza e ad un tempo il massimo di distanza dall'inferiore.

Per questo emerge al di sopra dei comuni mortali, e la sua esistenza è incompatibile con una struttura egualitaria e atomizzata della società, come pure con una società di tipo schiavistico: i capi degli schiavi non fanno parte di alcuna élite.

Ne viene che la natura dell'élite dipende essenzialmente dalla struttura del gruppo sociale di cui fa parte: varierà da gruppo a gruppo, e quindi l'élite del corpo dei pompieri non avrà lo stesso carattere di quella dei medici. Come definire dunque l'élite d'un gruppo sociale? Evidentemente, per mezzo della finalità perseguita dal gruppo stesso, e delle virtù messe in opera per raggiungerla. L'élite dell'esercito si definirà così attraverso il fine stesso dell'esercito, difendere l'integrità del territorio nazionale, e attraverso il coraggio che questo scopo richiede. L'élite d'una comunità contadina, attraverso la valorizzazione della terra, e con le virtù di pazienza, di attaccamento al suolo, di sottomissione ai ritmi della natura, e cosi via.

Ma al di là delle società ristrette, con fini limitati, che mettono in atto generalmente delle virtù morali legate all'esercizio di un mestiere o di una professione, c'è quella che potremmo chiamare la "grande società", cioè l'insieme degli uomini d'una stessa civiltà, e d'una uguale concezione dell'uomo. Tutte le civiltà del passato hanno avuto le loro élites, nelle quali s'è incarnato un certo ideale umano. Tutte si sono proposte come fine la realizzazione di un tipo d'uomo conforme alla loro essenza, e tutte hanno coltivato delle virtù propriamente umane per raggiungere questo fine. Per esempio, ci è impossibile capire la civiltà greca senza conoscere il "kalòs k'agathòs", il "bello e buono", che ne costituisce il fior fiore; come è impossibile capire la civiltà romana senza il "vir bonus dicendi peritus" o senza il "civis romanus"; o la civiltà medievale senza il santo, il cavaliere, l'hidalgo; o la civiltà francese del secolo XVII senza l'"honnéte homme"; e la civiltà anglosassone senza il gentleman.

Una civiltà non è soltanto un tesoro di opere letterarie, artistiche, scientifiche, religiose, ma essenzialmente un modo di vita, un insieme di atteggiamenti e di abitudini che distinguono l'uomo dall'animale, e che sono portate al loro punto di perfezione e di maturità proprio dai migliori, cioè dalle élites.

Per questo tutte le grandi civiltà hanno portato alla luce un tipo d'uomo, un modello, che forse non sempre è una realtà, ma la cui capacità di attrazione governa gli sforzi di tutti coloro che beneficiano della sua forza illuminante. Caratteristica delle élites, è di tendere verso questo tipo che vien loro proposto, con una testimonianza che è una affermazione, con un lavorio personale che lo fa proprio in profondità, con delle opere che lo concretizzano, e soprattutto con la pratica delle virtù umane che sono altrettanti passi verso di lui. All'altezza del fine al quale sono chiamate, le élites rispondono con un agire virtuoso che quel fine incarna. Non si tratta dunque più di virtù specializzate e orientate in un senso ben preciso, come nelle società ristrette; non si tratta cioè di capacità che possono benissimo, e assai spesso, accompagnarsi con delle carenze. Si può per esempio appartenere all'élite dell'esercito, avere al proprio attivo molte azioni di rilievo, mostrare un grande coraggio nel pericolo, e tuttavia mancare delle altre virtù che fanno l'uomo completo.

Si tratta invece di modelli realizzabili solo con la pratica delle virtù che fanno l'uomo nella sua interezza, delle virtù cardinali da cui tutte le altre dipendono: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Naturalmente, questi modelli umani non sono uguali da una civiltà all'altra. Il cavaliere medievale non è identico al cittadino romano, e questo è molto diverso dall'"honnéte homme". Ciò non toglie però che essi tendano tutti verso uno stesso fine, per vie analoghe. Non è inverosimile pensare ad una conversazione, nell'aldilà, fra "honnétes hommes" del tempo passato: essi si capirebbero, perché tutti mirarono a "educare bene gli uomini".

Guardando alle civilizzazioni succedutesi in Europa, si vede che ciascuna di essa ha generato un tipo d'uomo ispiratore delle sue élites, nel momento in cui veniva meno il modello precedente, con la civiltà alla quale era legato. Per una specie di rinascita, la nuova civiltà ha attinto dalle stesse profondità umane della precedente, tanto che da un capo all'altro del loro susseguirsi si manifesta una continuità e, a dispetto delle differenze, si osserva fra un tipo e l'altro una certa identità, o meglio una convergenza. È questo che spiega l'assenza di bruschi salti da uno all'altro di questi tipi: ciascuno eredita qualcosa del tipo che l'ha preceduto, perché tutti partecipano ad un sostrato comune. Sono questi i modelli umani che hanno formato la invisibile catena che unisce fra di loro le diverse civiltà succedutesi in occidente.

Prendiamo ad esempio, il rapporto fra l’"honnète homme" e il tipo che lo ha preceduto, l'uomo medievale di cui san Luigi rappresenta l'incarnazione: quest'ultimo ha dei caratteri ben precisi: è sottomesso alla rivelazione soprannaturale, diffida dell'esuberanza degli istinti, pratica l'ascetismo, protegge i deboli, è valente nel fisico e nel morale, rivolge lo spirito a Dio, si preoccupa della salvezza dell'anima. L'uomo medievale cerca il suo equilibrio nel punto più alto. Se sfronda i germogli sovrabbondanti che crescono dalle sue potenti radici vitali, non v'è tuttavia in lui traccia di dualismo, di opposizione fra le parti del suo essere, di conflitto fra spirito e vita. Se mai è esistito un tipo d'uomo "tutto d'un pezzo", è proprio l'uomo medievale.

Orbene, questo modello delle élites venne a decadere con la crisi causata, nei secoli XV e XVI dalle grandi invenzioni, dalle scoperte, dalla nascita della scienza, dalla coscienza che l'uomo va acquistando di sé e delle sue forze, dallo svilupparsi della curiosità, dalla fiducia nella ragione umana per risolvere i problemi del mondo e della vita, dall'ammirazione e dall'esaltazione della natura, amputata nei suoi rapporti con il Verbo incarnato. Per cogliere l'antitesi fra il tipo medievale e quello rinascimentale, basta paragonare un san Luigi, un grande mistico, il fondatore di un ordine, un grande predicatore di crociate, con un Leone X, un Leonardo da Vinci, un Rabelais, un Machiavelli, un Montaigne, un Francesco I, un Enrico IV. In questi ultimi, assistiamo ad una esplosione di energie disperse, che invano tentano di coordinarsi, non più a livello del soprannaturale, ma a livello della natura interpretata dall'intelligenza umana.

L'uomo tutto d'un pezzo è scomparso. Ora, questi due tipi umani si sono scontrati e feriti a morte: nessuno dei due è sopravvissuto integro. Entrambi sono stati recuperati dal secolo XVII, che ne ha fatto la sintesi, nell'ordine, nell'armonia, nella gerarchia, che ha equilibrato le due aspirazioni contrapposte al livello più alto. Natura e fede hanno realizzato nuovamente il loro accordo, grazie ad uno strumento nuovo, anche se già forgiato dalle grandi teologie medievali e dalla filosofia greca: la ragione. La ragione del secolo xvii non ha nulla di razionalista, ma è invece piena e ardente, e ha orrore dei suoi propri eccessi. È una ragione che coglie il reale non solo nella sua generalità, ma anche nella sua molteplicità varia e dinamica, e che sa penetrare nelle sfumature più sottili della vita psicologica e morale. Sue direttrici, sempre unite, sono lo spirito "di geometria" e quello "di finezza".

La debolezza del tipo dell’"honnéte homme" - come quella del gentiluomo, la cui concezione è fondata sull'empirismo - è dovuta incontestabilmente al fatto che non si ricollegava ad una finalità trascendente dell'uomo, se non con legami intellettuali e affettivi piuttosto deboli. Nella civiltà francese del secolo xvii, la cui religione è prima di tutto tradizionale, non si ritrova in forma rinnovata né il rifiuto dell'illimitato, nel senso d'una prevaricazione della volontà divina, come lo provava "il bello e il buono"; né il culto degli avi e di Roma, prima cura del "civis romanus"; né l'amore di Dio e del prossimo, che animava il santo e il cavaliere medievale. Preoccupato di mantenere la ragione nei limiti d'un ragionevole equilibrio, e d'altra parte realizzando tutte le possibilità di questo equilibrio; timoroso dell'anarchico ritorno dei conflitti che superava e sublimava in sé, l’"honnéte homme" si fissa, per così dire, sul grande mezzo di cui dispone, la ragione, a tutto danno del fine. In ogni cosa s'ingegna a comportarsi secondo delle regole e delle opportunità, pur di non sottoporre la sua condotta ad un Essere che lo superi. Al fermento del Rinascimento, di cui sente ancora in sé l'influenza, oppone delle solide virtù, anziché una finalità superiore.

Nessuno come Pascal ha provato l'attrazione del duplice abisso, la ragione libera e gli istinti naturali scatenati, che fu la grande tentazione dell'uomo nato dal Rinascimento; nessuno ha con maggiore sapienza acuito la virtù dominatrice della ragione, in tutte le sue forme, sul ribollire di potenze oscure che travagliano l'uomo. "Lavoriamo a pensar bene": è una massima che mostra come Pascal, per mistico che fosse, concentrasse l'attenzione sul mezzo piuttosto che sul fine.

Ora, che questo tipo d'uomo abbia polarizzato le élites dell'epoca, è un fatto palese in tutta la letteratura del "Grande Secolo", come nelle memorie e nelle corrispondenze che ci sono pervenute: un'eco che sottolinea ancora una volta il rapporto fra modello ideale ed élite che lo incarna nella vita, tanto che si può affermare la legge: nessuna élite senza prototipo d'uomo.

Significativo il fatto che questo concetto di modello, nel quale l'uomo trova la perfezione del suo compimento, sia oggi scomparso, rimanendo soltanto nei libri di storia che ci ricordano una concezione comune dell'uomo verso la quale si orientavano, consciamente o meno, gli sforzi dei migliori, l'ammirazione e l'approvazione degli altri.

Sono note le lontane cause che determinarono questo crollo: le ha magistralmente descritte Paul Hazard nel suo libro "La crise de la conscience européenne". Il tipo dell'"honnéte homme" sparisce verso la fine del secolo xvii: da allora, nessun altro tipo durevole l'ha sostituito: non c'è perciò da stupirsi che, in assenza di modelli, le élites siano uscite di strada. Sono ugualmente note le cause di questo immenso fenomeno storico, la cui ampiezza, nello spazio e nel tempo, si può paragonare con i lunghi secoli di ristagno che seguirono la caduta della civiltà antica: l'individualismo distruttore della comune concezione dell'uomo, il crollo delle gerarchie, il venir meno della fede cristiana, e così via.

Queste cause, si possono riassumere in una formula: crisi dell'uomo. Da oltre due secoli gli uomini non sanno più che cosa sono; non hanno più modelli che propongano loro d'essere uomini completi, con i piedi sulla terra e il capo levato verso il cielo. Non sapendo che cosa sono, non possono naturalmente diventare ciò che sono: errano perciò a casaccio, alla ricerca del loro essere, s'attaccano alla prima cosa che capita. Gli uni diventano dei semplici ventri, gli altri dei puri cervelli, e l'una o l'altra delle due tendenze che si dividono l'essere umano, e che prima erano riunite nella sintesi del modello scomparso, viene elevata a fine totale della vita. Il totalitarismo è proprio questo gonfiare una parte in un tutto, e la nostra epoca si è specializzata nella fabbricazione di pseudomodelli di uomo amputato, mutilato in pezzi, ciascuno dei quali, con incredibile montatura, si fa passare per l'uomo integrale.

Fra i tipi mutilati che hanno cercato di imporsi, bisogna ricordare l’homo oeconomicus, comune al liberalismo economico e al marxismo, che riduce l'essere umano alla sua sola qualità di produttore; l’homo civis del fascismo, che lo restringe alla sua sola qualità di cittadino: l’homo democraticus, che lo riduce ad una lista elettorale; l’homo sexualis, che lo sottopone ai soli istinti del piacere e della morte.

È facile convincere l'uomo che una parte costituisce il tutto. È la china delle sue passioni e dei suoi istinti; è una caratteristica dell'uomo in preda alla passione di vedere in sé soltanto più quella, di dissolversi e identificarsi in quella. Per l'ubriacone, il suo essere e l'universo stanno in un bicchiere di liquore, per il morfinomane, in una siringa, il sensuale si riduce ad un fallo. Le propagande politiche moderne hanno colto a perfezione questa capacità mutilante della passione e si riconducono tutte ad uno schema comune: aizzare nell'uomo l'una o l'altra delle sue passioni, e innestarla, per mezzo della propaganda, sull'istinto gregario. L'uomo-moncone si moltiplica allora con una rapidità prodigiosa: esempio, la propaganda comunista, i cui maneggi si riducono ad una tattica costante: ridurre l'uomo ai suoi bisogni materiali, impedire che il problema economico sia risolto, fare in modo che l'uomo si senta sempre indifeso, e generalizzare questo largo desiderio con la pressione pubblicitaria. Lo confessa ingenuamente l'inno dell'"Internazionale": "Noi non siamo nulla: diventiamo tutto!". È lo slogan d'ogni totalitarismo, che incita le rane umane a diventare buoi planetari.

Esaminiamo ora un po' più da vicino questa nuova situazione dell'uomo contemporaneo.

Quando viene proposto alle élites e alle folle un tipo d'uomo completo, come quelli che conobbero epoche più fortunate della nostra, tutti tendono a imitarlo secondo i propri mezzi, e si sforzano di diventare uomini più o meno completi: ne risulta una forte coerenza nell'individuo e nella società. È quanto accadde nelle crociate: ciascuno cercava di imitare il tipo del cavaliere, e la società era impregnata dell'ideale cavalieresco. Naturalmente, il risultato non era perfetto, e non tutti i partecipanti alle crociate furono dei cavalieri; ma resta il fatto che il tipo del cavaliere magnetizzava il comportamento degli uomini; si incarnava nelle élites e, attraverso queste, si distribuiva su tutta la società.

Che accade invece quando non esiste più un tipo d'uomo completo? È chiaro che la coerenza umana e sociale è minacciata di distruzione. L'essere umano è una sostanza fragile, i cui limiti, biologici e spirituali, si coordinano soltanto a prezzo di duro sforzo. Dove scompaiono i modelli e le élites, c'è da aspettarsi la disorganizzazione interiore dell'essere umano. Svanita l'energia motrice dell'esempio ideale e vissuto, la stragrande maggioranza degli uomini si disgrega psichicamente. Se chiamiamo spirito l'insieme delle facoltà superiori che ci elevano al di là di noi stessi, e vita l'insieme delle facoltà inferiori che le fanno partecipare al mondo della natura, e le nutrono di realtà, accade che spirito e vita si disgiungano.

Lo spirito si devitalizza e si fa cerebrale, la vita si despiritualizza, e diventa animale. Nasce il conflitto: la personalità umana si divide in elementi antagonisti che si scontrano, ed ecco la psicosi, la nevrosi, la schizofrenia, le cui crisi si moltiplicano in modo inquietante nel mondo moderno, caratterizzato dalla formula di Valéry: "la moltiplicazione dei soli". Ci cadono tutti gli sradicati dall'esistenza, coloro che sono privati del caldo contatto con il loro ambiente naturale di vita e le élites che lo animano. L'uomo, isolato in mezzo alle masse anonime di oggi, si spezza interiormente: il suo spirito, separato dalla vita che ci mette in relazione con il reale, funziona a vuoto, come un mulino che macini meccanicamente delle chimere. Restano vere le parole di Chesterton: "Folle non è l'uomo che ha perduto la ragione, ma quello che ha perduto tutto, tranne la ragione".

L'uomo moderno tenterà bensì di rifare l'unità dello spirito e della vita, ma a livello più basso, ove sono precipitate le componenti del suo essere. Un cervello ipertrofizzato è capace di legarsi soltanto agli stimoli tenebrosi degli istinti; uno spirito freddo e calcolatore si aggrappa ai riflessi animali. La politica moderna ci offre innumerevoli esempi di questa confusione, nella straordinaria mescolanza di ideologia razionale e di passione irrazionale, che le serve per penetrare nel profondo dell'anima contemporanea, e farvi scattare le molle intime dell'azione: liberalismo e istinto egoista, egualitarismo e invidia, socialismo e istinto gregario, imperialismo e istinto di dominazione e di aggressività; pacifismo e paura, forma dell'istinto di difesa. Il marxismo rimescola nel suo sistema tutti questi istinti disordinati, è l'ideologia delle ideologie e la combinazione di tutte le passioni. È la politica che s'adatta come un guanto a ciò che l'uomo moderno sta per diventare, in mancanza di modelli e di élites. Ed è anche uno strumento critico di temibile efficacia contro il mondo, una volta libero, nella misura in cui questo non sa prendere coscienza della crisi delle élites, e non vi rimedia che con mezzi artificiali di selezione.

Abbiamo detto che le civiltà del passato avevano elaborato un tipo d'uomo completo, verso il quale convergevano le tendenze delle élites. Nell'assegnare a queste, come fine, l'imitazione del modello, le civiltà del passato trovavano naturalmente i mezzi per raggiungerlo, ed avevano costruito tutto un sistema di virtù. Appartenere alle élites, significava allora mettere in pratica le virtù dello spirito e della vita che fanno l'uomo completo. Il fine morale che esse si proponevano suscitava dei mezzi morali, realizzati dall'uomo completo.

La civiltà moderna, che non sa più che cosa sia l'uomo, che non propone più agli uomini di far bene il loro mestiere di uomini, ed è priva di ogni finalità, è essenzialmente una civiltà di mezzi, una civiltà tecnica. Non è più il fine che fa sorgere i mezzi, ma questi ultimi costituiscono i fini perseguiti. Non sapendo più convergere verso un tipo, le élites di oggi non hanno altra risorsa che ricorrere a tecniche artificiali di elevazione sociale. Mettere in opera delle tecniche, significa oggi automaticamente appartenere all'élite, possedere i mezzi è diventato possedere i fini. L'avere ha sostituito l'essere.

Le tecniche di elevazione sociale si riducono a due gruppi: quelle materiali e quelle intellettuali. Per questo noi assistiamo oggi ad una ampiezza, ignota nelle civiltà precedenti, della ricchezza da una parte, e dell'istruzione dall'altra. Denaro e diploma hanno oggi una importanza senza paragone con il passato. Finanza e scuola sono i due pilastri della civiltà contemporanea.

Non voglio contestare l'aspetto utilitario del denaro e del titolo di studio: bisogna pur ammettere però che la costituzione di élites fondate sulla sola ricchezza, o sulle sole qualità intellettuali, è un fenomeno assolutamente inedito nella storia. Senza dubbio, la ricchezza materiale ha sempre giocato un ruolo importante nelle società umane, ma, pur essendo oggetto di invidia, non è mai stata in compenso oggetto di ammirazione. L'uomo ha sempre ricercato il denaro, ma in passato questo non era considerato lo scopo della vita, ed è notevole che l'"auri sacra fames" sia stata denunciata con vigore da tutte le epoche in cui prevaleva un tipo umano coerente. Dalla civiltà greca a quella del secolo xvii, uno dei temi più costanti della morale, predicata o vissuta, è la riprovazione dell'avarizia. Ne fanno fede la commedia antica, come quella del "Grande Secolo": l'avaro che accumula ricchezze è considerato ridicolo. Non che la ricchezza fosse disprezzata in sé, ma i nostri antenati distinguevano con rigore fra ornamento e sostanza. Per loro, la ricchezza poteva accompagnarsi soltanto ad uno sforzo creatore. Era inimmaginabile il diventar qualcuno nella società grazie alla sola ricchezza, mentre pareva affatto normale che un uomo si elevasse nella gerarchia sociale, e diventasse perciò ricco. Quest'uomo non entrava nell'élite perché ricco, ma si arricchiva in quanto membro dell'élite. Così, tutta l'economia antica e medievale fu una economia in cui ciascuno spendeva - e quindi acquistava - in proporzione alla sua condizione. "Usus pecuniae est in emissione ipsius": il denaro è fatto per essere speso, è preordinato ad un fine diverso da se stesso. Tipo dell'uomo economico è allora l'opulento o, più esattamente, il liberale, il generoso: suo simbolo, la pioggia d'oro che Giove fa cadere dal suo seno per fecondare Danae.

Si dirà che il "borghese", che vive soltanto per accumulare ricchezze, è oggi in via d'esaurimento e che i contemporanei sono piuttosto inclini a gettare il denaro da tutte le parti. La ricchezza sarebbe dunque sulla strada del ritorno alla concezione d'un tempo: nulla di più inesatto. Fra avaro e prodigo, la distanza è minima, la parentela assai stretta: lo dice il proverbio, e non sbaglia. La poca cura dei contemporanei nel risparmiare non impedisce che essi corrano dietro il denaro come i loro antenati cupidi, rapaci, tesaurizzatori. La livida rigidezza dell'usuraio ha semplicemente ceduto il posto alla corruzione del dissipatore. Dal duro al molle, il passaggio quasi non s'avverte. Il borghese che guarda una moneta per il suo piacere, e il suo erede che si mangia il domani per il piacere dell'oggi, hanno la stessa struttura mentale: la ricchezza si identifica con il loro essere, "spesso" nel primo caso, "labile" nell'altro. Entrambi sono del resto indifferenti al ruolo che il denaro potrebbe far loro occupare nella gerarchia sociale, se fosse l'ornamento della sostanza che invece non hanno: contano soltanto essi stessi, e ci si può domandare quale sia l'egoismo più virulento, quello dell'avaro o quello del prodigo.

Ciò non toglie che la ricchezza, accumulata o sperperata che sia, susciti oggi l'ammirazione delle folle e l'apparizione di élites il cui ricordo si perde però con la stessa facilità della fortuna che avevano acquisito. Nel mondo moderno, la fortuna è certamente ancora più incostante che in passato, e alla sua origine sta spesso il caso più sfacciato. Lungi dal radicare il suo possessore nella vita e nella densità della materia, la fortuna fa di lui un essere superficiale come il fascino che suscita.

Per questo, a dispetto di ogni leggenda, lo stato moderno non incontra alcuna resistenza da parte di ricchi che possiedono la sola ricchezza come arma da opporre al suo sistema di ridistribuzione. La classe dei "rentiers" è quasi completamente scomparsa dalla faccia della terra, uccisa dalle imposte e dalle svalutazioni. La stessa plutocrazia, il cui peso sullo stato è fin troppo reale, non può opporsi all'"invidia democratica" se non venendo a patti.

Lungi dall'essere conservatrice, come la si accusa, essa si allea molto spesso ai movimenti sovversivi, come il tappo alla cresta dell'onda. In genere, la sua azione non ha effetto pratico se non a questo prezzo. Ora, se il livello più alto imita quello più basso, come potrà costituire un'élite?

Rimane l'élite intellettuale. Per una specie di reazione contro la scomparsa dei tipi e delle élites di un tempo, la società moderna si stima sempre di più capace di fabbricare le élites che le sono necessarie, e a questo scopo moltiplica quegli alveari che sono le scuole, d'ogni ordine e grado. Il fenomeno è ancora una volta inedito nella storia. Lotta contro l'analfabetismo, istruzione obbligatoria, moltiplicazione delle scuole medie e superiori, sono tutte cose recenti. Se ne attribuisce spesso la nascita alla democrazia, al "progresso dei lumi", alla filosofia e alla scienza, ad una serie di entità con la maiuscola, come Libertà, Uguaglianza, Diritto.

In realtà, la causa è molto più semplice: ogni società ha bisogno delle élites, ed una società vivente le fa nascere spontaneamente. Ma quando una società si devitalizza, si disperde in atomi, ne rimane soltanto la sovrastruttura, lo stato; ed è questa una delle caratteristiche più cospicue del nostro tempo: l'esistenza d'uno Stato privo di una società vivente che lo sostenga, in cui le famiglie, i mestieri, le province, le comunità costruite sulla misura dell'uomo sono sostituite da assembramenti astratti, definiti da rassomiglianze esteriori, come partiti, sindacati, gruppi padronali e finanziari, e così via.

Lo stato moderno è una forma senza contenuto, senza società nè gerarchie vere, che fabbrica artificialmente le élites che gli sono necessarie, con i soli mezzi di cui dispone, cioè la diffusione delle conoscenze. L'intelletto supplisce alla vita scomparsa, l'istruzione libresca al contatto con la natura delle cose, la protesi razionale al membro amputato. Là dove gli sforzi di tutti non convergono più verso un certo tipo d'uomo, ideale dello spirito, del carattere e dei costumi, non resta che la scuola, stampo comune che s'affonda nella materia malleabile dei cervelli, con un ritmo continuo, scaglionato nel tempo, secondo un determinato programma. Al termine della lavorazione, i pezzi prodotti sono catalogati a seconda del grado di perfezione dello stampaggio. Quando mancano gli esempi, si ricorre alla scuola per far sorgere delle élites.

E il sistema si espande in modo straordinario. Non solo i nostri ragazzi vanno a scuola, ma noi ammettiamo tacitamente, senza la minima ribellione, che essi passino al laminatoio scolastico fino all'età di sedici o diciott'anni. Tolleriamo, poi, che i programmi e i metodi di insegnamento siano fissati minuziosamente dallo Stato. Verrà il tempo in cui gli uomini, in certi paesi passeranno un terzo, se non la metà della vita sui banchi di scuola.

È mostruoso. Nota Jean Madiran che non c'è alcuna ragione valida per intruppare legalmente tutti quanti a scuola fino al termine dell'adolescenza. Questa pretesa diffusione dei lumi nasconde in realtà una intenzione oscurantista, che "presuppone arbitrariamente che tutto possa essere imparato su un banco e una sedia, di fronte ad un tavolo, con dei libri e dei quaderni davanti, ascoltando lezioni e discorsi, e che tutti gli spiriti siano fatti nello stesso modo, per imparare con questo metodo". Lo spirito umano si forma altrettanto bene di fronte ad un campo, una cucina, una stalla, degli utensili; insomma di fronte a delle cose che resistono alla sua azione, e alle quali esso imprime, con un incessante moto dallo spirito al reale e dal reale allo spirito, una finalità propriamente umana. Si forma sulla terra da lavorare, nella casa da ri-governare, nell'officina, e tanto più in quanto questa formazione si trasmette non come da un sacco pieno di conoscenze ad uno vuoto, ma per mezzo dell'esempio che stimola la ricerca e l'invenzione, apre l'anima e il corpo al reale, eccita la creatività. Qui è la vera educazione, nella natura delle cose affrontata attraverso la mediazione dell'esempio. E non ci si venga a dire che un rimedio è l'introduzione nelle scuole delle "lezioni pratiche", le quali, perfino nei laboratori o nell'insegnamento superiore, sono spesso null'altro che la "teoria della pratica", e conducono soltanto all'intellettualizzazione del reale mediante l'applicazione di formule apprese in precedenza. La realtà concreta degli esseri e delle cose si perde nel maneggiare le idee e le misure astratte. Il "tutto risolto" divora il reale, che ne diventa semplicemente il punto di inserzione.

Di qui, nelle élites intellettuali, quel rigido apriorismo, quell'imperialismo della ragione pura, quel disprezzo del dato, che produce tanti danni quando passa dalla scuola alla vita. "Non conosco nulla di più spregevole che un fatto", affermava superbamente Royer-Collard, e si potrebbero citare migliaia di esempi di intellettuali che, armati di una logica impavida, stendono la realtà sul letto di Procuste delle idee che hanno attinto dai libri, o elaborate dentro di sé come una bella costruzione meccanica. Insensibili a tutto ciò che non è razionale, essi diventano aggressivi, duri e crudeli verso la realtà umana che si oppone alle loro intimazioni, tanto da giustificare lo sferzante giudizio di Bernanos: "Per me, l'intellettuale moderno è l'ultimo degli imbecilli, fino a che non mi ha fornito la prova del contrario".

Una confessione, derivata dalla mia lunga esperienza universitaria: non riesco a provare che diffidenza di fronte agli intellettuali separati dalla vita, chiusi nei loro pensatoi, nei loro "thinking departments". Una cultura ancorata soltanto ai libri ed agli apparecchi di laboratorio non è cultura.

L'intellettuale che non è riuscito a conservare un animo di contadino nel contatto diretto con gli esseri e con le cose, mi pare senza profondità, a dispetto della corazza di erudiziene e di statistiche di cui si riveste: egli eseguisce materialmente un'opera intellettuale, mentre c'è una quantità di lavoratori manuali che compiono spiritualmente la loro fatica materiale. Si isola dietro uno schermo che gli nasconde la realtà, scende a duellare con concetti vuoti e, al limite, con delle parole. La prova: il gergo spaventoso della filosofia contemporanea, superato soltanto da quello degli economisti. La comunicazione fra uomo e uomo diventa allora impossibile e la cultura si bizantinizza con una rapidità folgorante.

Ma questi sono, tutto sommato, dei casi aberranti e, per numerosi che siano, non fanno danni così profondi come la pseudocultura diffusa oggi in tutte le élites intellettuali dal criterio moderno dell'insegnamento. Il vero insegnamento non consiste nel fare ingurgitare conoscenze e ricette di comportamento, ma nel rivelare come si conosce e come si agisce. Il vero maestro insegna più per quello che è che per quello che dice: in altre parole, perché l'insegnamento sia fruttuoso, occorre l'esempio incarnato e vissuto di un tipo d'uomo. Ma come potremmo avere esempi di questo genere in un clima sociale che non li tollera più? E come potrà la cultura delle élites, insieme soggetti e oggetti dell'insegnamento, non degenerare in un semplice accumulo di nozioni? È "normale", se si può dir così, che l'avere sostituisca l’essere manchevole: è una legge universale del comportamento umano. Ci si dice che l'ipertrofizzarsi dei programmi scolastici, in tutti i gradi, è dovuto ad una necessità sociale: per vivere e per adattarsi ad una società sempre più complessa, sempre più tecnicizzata, occorrono numerose conoscenze. Ma è falso: il pullulare delle conoscenze non è necessario oggi più d'un tempo, per la semplice ragione che ogni molteplicità può essere ricondotta all'unità, ed è proprio questo che fa difetto. In un mondo in cui i veri modelli, le vere élites sono scomparse, ciascuno finisce per avere il suo punto di vista sul conoscere e l'agire; non c'è più ordine nelle discipline scientifiche e pratiche perché non c'è più ordine nell'uomo. Il progresso è diventato anarchico, e così pure l'insegnamento, per quanto lo segua a passi lenti. Al posto di una cultura universale, ci troviamo ad avere una cultura enciclopedica, che procede addizionando nozioni disparate e successive, invece di legare organicamente quelle che deriviamo dal reale. Per lo più, questa pseudocultura si degrada in "digest" e in verbalismo, tanto che la si può definire, come umoristicamente è stato fatto: "La cultura era una volta ciò che restava dopo aver dimenticato tutto, oggi è ciò che manca dopo aver imparato tutto".

Ancora una mia esperienza universitaria. I miei giovani, l'élite intellettuale di domani, non sono certo meno intelligenti di quelli delle altre università, ma ho occasione di constatare che essi sanno servirsi sempre meno dello strumento del cervello. Ignorano che l'intelligenza è fatta proprio per cogliere il generale nel particolare; misconoscono il legame vivente che unisce l'astratto al concreto; diventano terribilmente nominalisti. L'universale non ha senso per loro, ma, nello stesso tempo, sono incapaci di comprendere l'individuale, il mondo realmente esistente, gli esseri e le cose che si alzano di fronte al loro sguardo. Le abitudini acquisite in anni di studio hanno polverizzato la capacità di giudicare, che consiste nel restituire al reale le nozioni che l'intelligenza ne ha tratte. I loro ragionamenti si svolgono in una specie di "no man's land", di informe universo, nel quale i più intellettualizzati proiettano una coerenza fittizia che mutila la realtà. Vogliono creare un "altro" mondo, un uomo "nuovo", che possa rispondere ai concetti disincarnati che essi hanno in testa e dar loro un senso. Questi iperintellettuali si trasformano con incredibile rapidità in rivoluzionari, e la cosa più notevole è che credono ingenuamente di essere i padroni del gioco, mentre la loro cecità verso il reale ne fa degli esseri guidati, manovrati dai tecnici della sovversione totalitaria.

Questo stesso fenomeno, la scissione fra l'astratto il concreto, nelle élites intellettuali, ne spiega un altro, tipicamente moderno: la specializzazione, fenomeno di estrema gravità, soprattutto nelle professioni cosiddette liberali. Generalmente si crede che la specializzazione sia un avvicinamento al reale: è invece il contrario. Una realtà, qualunque essa sia, non è veramente conosciuta se non nelle sue origini e nei suoi risultati, al suo posto nei piani d'essere che la abbracciano: considerarla isolatamente, significa allontanarsene: quanto più la si conosce, tanto più la si ignora. È giustissimo quanto affermava con sarcasmo Bernard Shaw: "Lo specialista è uno che conosce un numero sempre maggiore di cose in un settore sempre più ristretto, cosicché, al limite, conosce tutto di nulla". Il culto della specializzazione in tutti i campi ci pare tanto più nocivo all'intelligenza, in quanto sviluppa la tentazione di elevare la parte in tutto, aumenta l'istinto totalitario, la pretesa di conoscere fino in fondo la realtà, il desiderio di trasportare metodi che hanno dato buoni risultati in un campo ristretto, in tutti gli altri campi.

Da osservazioni limitate, si passa con facilità a generalizzazioni affrettate: scientismo, evoluzionismo, materialismo, e tutte le fragili costruzioni dello spirito, che altre osservazioni effettuate in settori diversi dal reale contraddicono, nascono proprio da questa tendenza. Allora, dato che risulta impossibile raggiungere la realtà e coglierla, ci si accanisce a tesserle intorno una ragnatela di metodi e ricette, per tentare di impadronirsene.

Scomparsa la spontaneità vitale, si elaborano tecniche per entrare in contatto con gli esseri e con le cose. I metodi per farsi degli amici, perconcludere un "buon matrimonio", per riuscire negli affari, per conservare la salute, e via dicendo, che si propagano oggi come la gramigna, sono l'inquietante segno della scomparsa dei doni naturali. E forse c'è dell'altro. L'enorme successo di questi "stratagemmi" non si spiega secondo me che con uno spostamento patologico delle capacità di stupore e di ammirazione dell'uomo. Oggi, non è più la realtà che meraviglia, ma la scienza. Ci si persuade che tutto s'impara, allorché si adora noi stessi, nella nostra differenza specifica, la ragione, e ci si estasia di fronte a noi stessi. Alla base di tutte le propagande, di tutte le pubblicità, c'è l'autolatria. Confessiamolo: la credulità dei nostri padri era un nonnulla a paragone con la puerile divinizzazione di sé dell'uomo d'oggi.

Ora, da questa miopia dell'élite intellettuale nasce il suo avvilimento. Malgrado il feticismo di cui sono circondati, e che li porta al settimo cielo, gli intellettuali sembrano oggi in ribasso. Per esempio, non v'è dubbio che stelle del cinema e atleti battono di gran lunga romanzieri e scienziati nel favore della pubblica opinione: Victor Hugo sarebbe oggi assai meno conosciuto e ammirato di una vedette cinematografica, e Pasteur del vincitore del Giro di Francia. Il fatto è che, a dispetto di tutti i suoi sforzi, l'intellettuale non riesce a dar vita ad un tipo che possa essere incarnato. È vero che aspira a "non essere separato" dal popolo, ma il popolo, restato sano pur nei suoi errori, e nonostante i suoi nutrimenti fasulli, non lo comprende: le idee che si propongono al popolo devono essere cariche di carne e d'anima o, in mancanza di questo, almeno d'istinto brutale e di ideologia.

È rimasto, il popolo, assai più naturale di quanto non si creda: ammira gli uomini che riescono a toccarlo nelle sue fibre sensibili; è vero che esse sono disaccordate, ma ciò nonostante sussistono. È estremamente significativo il fatto che nessun poeta contemporaneo incontri il favore del grande pubblico. I tipi del passato lo soggiogano ancora, quando gli sono ripresentati: vedi certi film in cui il santo, il genio, l'eroe, anche se deformati, raccolgono i loro bravi consensi. L'intellettuale moderno, disumanizzato dall'astrazione, non ha più alcun seguito.

Bisognerebbe a questo punto parlare della svalutazione della carriera del professore, dalla quale traggono origine tutte le élites intellettuali. Un professore universitario è forse ancora qualcuno nella piccola città di provincia, ma il suo prestigio tende a diminuire; stessa svalutazione nei professori delle classi secondarie e nei maestri. Questa bella caduta si ritrova anche nel trattamento che lo stato riserba loro. Mentre nel secolo xix erano l'élite delle élites, si sono lasciati ora incatenare dai pretesi bisogni della società, della quale diventano sempre più i servitori, per non dire i servi. La repubblica dei professori, di cui parlava Thibaudet, appartiene a un passato morto e sepolto: invece di dirigere la società, come aspiravano a fare un tempo, ne sono diretti.

Un buon numero di intellettuali seguono oggi la stessa china. Al posto di costituire una élite che polarizzi la considerazione del settore sociale cui appartengono, s'inseriscono nel comodo settore dei funzionari; si statalizzano come la stessa società di cui non sono più i centri di attrazione, unendosi, al contrario, alla universale meccanizzazione. Vengono spinti da una specie di aberrazione collettiva a ottenere a tutti i costi un diploma che permetta loro di guadagnarsi da vivere con la minima fatica possibile. Una volta ottenutolo, entrano in una carriera prestabilita, che li identifica alla loro funzione.

Le famiglie, dal canto loro, non si preoccupano più della formazione del carattere dei figli: cercano per loro sicurezza e stabilità, anziché instillare la vitalità che permetterebbe ai giovani di mordere nel reale, di costruirsi da soli una strada nella vita; oppure, li abbandonano senza guida ne sostegno, il che è esattamente lo stesso, perché, temendo oscuramente l'avvenire, i giovani cercano una difesa, una protezione contro i rischi e i colpi della sorte, in una società priva di modelli e di élites che li incarnino. A questi adolescenti devitalizzati, il titolo di studio appare come la sola via di salvezza, perché è la più facile, nonostante la pesantezza dei programmi di studio. Il titolo di studio non tiene conto - e come potrebbe? - dei fattori essenziali alla vita, carattere, volontà, onore, dovere, senso morale ed estetico. Il titolo di studio giudica soltanto dell'intelligenza formale, e rimane tutt'altra cosa dall'uomo nella sua interezza. L'idolatria della pergamena è segno indubitabile della perdita dell'inventività. Privata di quella fonte di rinnovamento che è l'esempio, la facoltà di ripresa si perde: i santi, i geni, gli eroi non hanno più emuli, ed i "grandi uomini" sono soltanto più delle rigonfie creazioni della pubblicità. Per quanto si agiti, la società moderna tende a ristagnare.

 

Concludendo: senza delle vere élites, una civiltà non può reggersi. Se non vuole essere sommersa dalla barbarie, deve recuperarle. Sotto i nostri occhi, se sappiamo aprirli, si stende la tragica antitesi delle nostre risorse: da una parte, mezzi immensi, una tecnica incomparabile, una conoscenza dei particolari spinta all'infinito; dall'altra, un'assenza quasi completa di finalità umana, uno straordinario silenzio sulla domanda fondamentale, "dove andiamo?", una massiccia caduta del senso della convergenza.

La salvezza della nostra civiltà dipende dalla soluzione che sapremo dare al problema della riarticolazione dei mezzi ai fini. Che sia difficile, nessun dubbio. A prima vista, il venir meno dei modelli di vita la rende perfino impossibile. Ma se è vero che i grandi modelli, come i santi, i geni e gli eroi, hanno perduto il loro potere di attrazione, ci restano, alle due estremità della catena, due tipi che hanno invece conservato il loro valore di esempio: da una parte, il Verbo incarnato, dall'altra, il padre e la madre di famiglia.

Nel cristianesimo e nel calore della famiglia si trovano ancora, inalterabili, esempi vissuti di vita totale. Alla persistenza del loro legame è sospeso tutto il nostro destino. La famiglia cristiana, ecco il solo luogo della terra in cui si mantengono vive le élites... se noi lo vogliamo. Ecco il punto: se lo vogliamo. Bisogna che padre e madre siano oggi tali che i figli possano ammirarli, accordargli la loro approvazione, imitarli, scoprire in essi dei modelli di uomini e di cristiani, degli esempi di finalità vissuta, naturale come soprannaturale. La subordinazione dei mezzi ai fini diventa un semplice gioco, quando i fini si incarnano lucidamente e volontariamente.

Così nasceranno le nuove élites, umili, solide, e vere: con il contagio dell'esempio, nel segreto del cuore che prega senza stancarsi, nell'intimo del focolare che irradia luce.