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LA CRISI DEL BUONSENSO
di Marcel de Corte

In questo nostro strano mondo, dire che il bianco è bianco, e che il nero è nero, è un atto che suscita la disapprovazione, se non l'ira, dei nostri contemporanei, e che pone l'autore al bando della società; rappresenta un'audacia che si paga talvolta con una pallottola nella nuca, e quasi sempre con un silenzio ostile dell'opinione pubblica, e degli intellettuali che la governano. Chi vien fuori con una affermazione così categorica, è considerato un povero di spirito, se non un antidiluviano, un disadattato alla sua epoca. Impossibile ottenere attenzione dagli uomini del nostro tempo, se non si volta la schiena al vero, al bello, al buono.

La prova? Guardiamo il panorama di foglie morte che cadono ogni giorno in abbondanza da quegli alberi di acciaio chiamati "tipografie": l'errore, l'orrore, l'impudicizia fanno da padroni; vi si sfogano l'inesistente, l'impossibile, l'incongruo, l'apparente, l'illusorio. Via libera all'impostura, alla dissimulazione, alla sfrontatezza, al belletto, alla panzana, alla falsità, all'iperbole, al romanzesco. E lasciamo da parte gli innumerevoli delitti contro il buon gusto ed i buoni costumi.

I cosiddetti moderati, gli spiriti aperti, diranno che sto facendo della caricatura, del "pamphlet": il nostro tempo - diranno - non è ne migliore ne peggiore di quelli che lo hanno preceduto. Ora, questo appello alla "misura" richiede due risposte. Primo: c'è da domandarsi prima di tutto se questa moderazione non sia in realtà il frutto d'una tolleranza talmente sproporzionata nei confronti della mancanza di limiti, da non aver neppur più coscienza di sé, sia pure per debolezza più che per complicità. Secondo: vorrei sapere come si possa spiegare il disordine del nostro tempo senza ricorrere all'ipotesi d'una malattia epidemica che ha colpito l'uomo d'oggi nel più profondo della sua sostanza umana.

Messe da parte queste obiezioni, bisogna dire che la nostra epoca si caratterizza per una perdita universale e massiccia del buonsenso, e che s'ingegna a porvi rimedio, senza far altro che renderla più grave. Questo bisogna dire, per comprendere l'ampiezza, mai vista finora nella storia, del vuoto che si apre sotto i nostri occhi nella natura dell'uomo, e nelle attività che ne sono governate.

Il destino dell'uomo è in gioco oggi in tutto il mondo. Per essere così minacciato, bisogna pure che l'elemento che costituisce l'essenza dell'animale ragionevole sia esso stesso colpito: e questo elemento essenziale è il buon senso. Tutti gli esseri, in natura, hanno un significato nel quale trovano il loro compimento, così come le cose inerti hanno delle proprietà fisiche e chimiche che le caratterizzano. Gli esseri viventi rivelano una tendenza che li muove verso la loro specie: il chicco di frumento non diventa quercia, l'uovo di gallina non genera un coccodrillo. Se gli esseri naturali non avessero un senso, da molto tempo la specie umana sarebbe scomparsa. A dispetto di tutti gli scetticismi, il mondo materiale, vegetale e animale non è un caos: l'uomo vi può riconoscere dei significati, delle direzioni e, in un certo modo, dei motivi musicali che si dispiegano in questo o quel senso, sempre o quasi sempre identico a se stesso.

Anche l'uomo ha un senso; inoltre, unico in tutta la natura, è dotato anche di un buonsenso, vale a dire d'una facoltà conoscitiva che lo rende capace di orientare il suo essere verso un ordine propriamente umano, in sé e nei diversi campi della sua attività. L'uomo soltanto ha il privilegio di sapere dove va, dove può e deve andare.

Non è per caso che si dice aver del buonsenso, per fruire della pienezza delle proprie facoltà intellettuali. È proprio questo, il buonsenso: la percezione sana, diretta e sicura nella direzione che bisogna tenere per essere uomini e per non uscire da questa prospettiva. Se è vero che la nostra intelligenza è la facoltà del reale, il buonsenso coincide con l'intuizione dell'autentica realtà umana, che ciascuno di noi è chiamato a perfezionare in sé e con i suoi atti. Per questo, come dice bene Bossuet, il buonsenso è "il maestro della vita degli uomini". Alla sua forza, alla sua vitalità si appoggiano e s'articolano tutti i momenti della nostra esistenza, perché è la pietra angolare, il fondamento, la radice dell'edificio umano che portiamo avanti, ciascuno per proprio conto. Senza di lui, ogni cosa si riduce a fragile ed effimera quinta da teatro. Il buonsenso è l'ordine immanente, nascosto, difficilmente afferrabile, chiarificatore, e non chiarificabile, che portiamo in noi e che sostiene con la sua potente presenza l'organizzazione della nostra vita.

Stando così le cose, il buonsenso risulta il senso stesso dell'agire permeato di intelligenza. E poiché non è possibile orientarsi bene senza un buon punto di partenza, il buonsenso presuppone l'afferrare in modo vitale e concreto un certo germe umano che si dispiega grazie a noi, con noi e in noi, verso il suo fiore e il suo frutto. Non si tratta d'uno schema prefissato, anche se lo si può ridurre a rappresentazione astratta; non si tratta di un progetto a priori, simile a quello d'un architetto, ma di una specie di salute, non solo del corpo o dello spirito, bensì del nostro essere umano totale, dataci all'origine, anche se poi possiamo alterarla o anche distruggerla: basta pensare ai momenti di aberrazione della nostra vita. Questa salute è dunque precaria e minacciata, ma ciò non significa che non costituisca una realtà abbastanza solida da poter essere sviluppata, con una specifica terapia, verso il suo pieno equilibrio.

Siamo di fronte ad un complesso di nozioni che si richiamano l'una con l'altra, come sempre accade quando tentiamo di cogliere una realtà semplice e profonda.

Vediamo di farcene un'idea complessiva e organica, domandandoci che cosa può significare la soluzione secondo buonsenso d'un problema particolarmente arduo, di cui non ci riesce di vedere a colpo d'occhio la via d'uscita.

Non è vero che, una volta adottata, messa in atto e portata fino in fondo, questa soluzione ci pare sempre più ragionevole e naturale? Ci domandiamo perfino come mai non ci sia venuta in mente prima. Era lì, la soluzione, a portata di mano: bastava aprire gli occhi per essere inondati dalla sua evidenza. Gli artifici logici ai quali avevamo fatto ricorso in un primo tempo, le vie tortuose che mentalmente avevamo tracciate, i giri e rigiri che avevamo pensato, ci paiono irrisori, assolutamente inadatti a determinare la stabile certezza che è proprio così: anzi erano tutti questi elementi estranei che c'impedivano di trovare quella soluzione, che una volta raggiunta, ci procura tanta soddisfazione. Adesso ci capita di irritarci se per caso ci viene proposta un'altra strada, che sappiamo impossibile. Il benessere che proviamo nel far nostra la soluzione del buonsenso, è quello dell'equilibrio ricuperato. Vacillavamo e sbandavamo, ed eccoci ora a tirar dritti, i piedi ben saldi su un terreno sicuro, nella sola direzione possibile. Non abbiamo dimenticato alcun dato, li abbiamo introdotti tutti, abbiamo attribuito loro il giusto valore, ed ecco che essi si articolano, si dispongono in una gerarchia, e tracciano, con la loro stessa organizzazione, l'attesa soluzione.

Come si vede da questa breve descrizione, il buonsenso non si manifesta mai chiaramente ai nostri occhi, come un oggetto esterno che noi possiamo prendere in mano. Non è al di fuori di noi, ma in noi, inseparabile dal nostro stesso essere. Si manifesta soltanto nella luce che proietta sui dati ai quali si applica. È veramente un potere d'illuminazione latente, che resta nel sottofondo della nostra costituzione psichica, e si rivela con la sua luminosità e con il suo potere di cogliere l'essenziale, o meglio ancora, di rischiarare l'intelligenza nella sua ricerca della realtà. Non è esagerato definirlo l'intelligenza dell'intelligenza, o la forza che dirige l'intelligenza stessa all'inizio e nei suoi tentativi prima incerti e poi via via più sicuri. È la punta di diamante dell'intelligenza, quella che prende inconsciamente dalla realtà vigore e dinamismo, e li distribuisce all'intelligenza in cerca del suo oggetto, trasfondendole forza e senso del reale.

Una simile "sensibilità" alla presenza del reale presuppone evidentemente che il buonsenso, nella sua accezione più profonda, partecipi di tutta l'ampiezza dell'essere, e sia, per usare una formula di Aristotele, in un certo modo tutte le cose. Le sue antenne puntate sulla realtà sono anche delle arterie che lo uniscono all'universo. Ora, questa caratteristica del buonsenso richiederebbe tutto uno sviluppo del discorso, che possiamo solo riassumere dicendo che il buonsenso è simile a un istinto innato, capace di distinguere il reale dall'irreale, l'essere dall'apparenza, in quanto è in corrispondenza costitutiva con la sua presenza. Tutto il suo essere, sta nell'essere con l'essere nello stesso rapporto di un amico. In questo, differisce dall'intelligenza, che può volgersi al contrario verso l'irreale, e confondere l'essere con l'illusione.

Tutti noi abbiamo conosciuto uomini di buonsenso, relativamente poco "intelligenti", cioè poco abili nel maneggiare le idee, ma provvisti d'una capacità di giudizio solida e sicura, incapace di giustificare a se stessa la propria validità, che si esprimono in modo laconico perché vanno diritto allo scopo, cioè la semplicità del reale. I contadini ne sono spesso degli esempi. "Mi piace conversare con loro", diceva Montesquieu, "perché non sono abbastanza sapienti per essere imbecilli". All'opposto, possiamo constatare che spesso le persone intelligenti sono prive di buonsenso: esempio lampante, le elucubrazioni di molti intellettuali in fatto di condotta delle cose umane, individuali, familiari, nazionali o internazionali. Fin troppo vere le parole sferzanti di Bernanos: "Per me, l'intellettuale moderno è l'ultimo degli imbecilli, fino a che non abbia fornito la prova del contrario". Teniamo presente sia questa separazione fra buonsenso ed intelligenza che ci servirà poi per la nostra diagnosi, sia il fatto che esistono due forme di intelligenza: una che è alimentata dal buonsenso, l'altra che ne è priva.

Questa corrispondenza vitale del buonsenso con la realtà immediata, è proprio la caratteristica che lo apparenta ad una forza della natura vivente, che trionfa degli ostacoli, e si ostina verso la mèta. Il buonsenso cade nel centro degli esseri e delle cose, come un corpo pesante verso il centro della terra; va verso la luce come l'albero, verso ciò che è, come l'istinto animale verso il suo compimento. Tutto quanto si trova al di fuori del suo cammino, lo lascia da parte: non entrano nel suo campo d'azione il particolare, l'accessorio, il superfluo, il complicato, l'artificiale. E questo presuppone, evidentemente, che il buonsenso possieda una specie di visione globale del suo oggetto, che sappia che il reale è ben definito, rinchiuso in limiti essenziali, e che al di là di questi limiti c'è solo illusione. Per questo non devia dal suo cammino. Presuppone inoltre che il buonsenso sappia che i componenti del reale sono organicamente distribuiti, e che la molteplicità dei loro aspetti si ordina gerarchicamente in una unità centrale che la comanda. Ne segue che il buonsenso da luogo alla sicurezza, ad una sana ed ingenua convinzione e, alla fine, alla certezza incrollabile: c'è in lui non un "indubitabile logico", ma un indubitabile esistenziale: è ciò che è, o che deve essere, che trascina a dire sì.

Tutto ciò presuppone infine che il buonsenso sia correlativo, nell'uomo che lo segue, ad una certa coerenza inferiore, ad una armonia e ad un equilibrio organico che fanno del soggetto che conosce un "essere tutto d'un pezzo", in cui la fermezza del giudizio si lega alla elasticità, e si caratterizza per la capacità di adattamento ai dati dell'esperienza. È chiaro infatti che un uomo internamente combattuto, privo di equilibrio, interiormente disordinato, le cui facoltà si accavallino confusamente, non può essere in grado di scoprire un ordine essenziale nelle cose e negli esseri sui quali appunta la sua indagine. Il simile può essere conosciuto soltanto dal simile. Dunque, il buonsenso unifica e gerarchizza l'uomo: per qualificarlo a fondo, dobbiamo ricorrere ancora una volta al concetto di salute, non solo fisica né solo psicologica, ma globale, nel senso umano, che abbracci il corpo e l'anima. Alla soluzione semplice, naturale, senza artifici né equivoci, prescritta dal buonsenso, deve corrispondere nell'uomo di buonsenso una semplicità, una naturalezza, una rettitudine che non lascino ombra nella luce proiettata sul problema da risolvere. Se l'oggetto è uno, uno è a sua volta il soggetto.

L'ultimo punto è d'importanza capitale. Il buonsenso è nell'uomo la caratteristica che lo colloca sulla scena dell'esistenza come un essere umano, con l'unità che accompagna l'essere, e le note essenziali della natura umana, riunite e coordinate da questa unità. È chiaro che si tratta qui di una unità concreta, esistenziale, governata da un principio interno che costituisce con essa un tutt'uno, e che definiamo, secondo l'uso, con il nome astratto di natura. Il buonsenso non è un'entità inserita nell'uomo come un nocciolo, né tantomeno si ricollega ad una natura infra-umana o super-umana: è l'uomo, e null'altro che l'uomo. Nessuno si sognerebbe di dire di un angelo o di una scimmia che hanno buonsenso. Ed è questa caratteristica che rende difficile il coglierlo: la condotta istintiva dell'animale, le folgoranti intuizioni dell'angelo sono relativamente accessibili all'analisi e alla rappresentazione. Il buonsenso, invece, oppone resistenza: la sua semplicità non si colloca ad un livello unico, o biologico o spirituale, ma invece nel punto in cui vengono a incrociarsi ed annodarsi vita e spirito, senso e intelletto; ad un livello al quale, per dirla in termini platonici, la diade sorregge la monade, e questa assume in sé la prima. E poi, dimostra categoricamente, non come un postulato, ma come un fatto, che l'uomo è spirito calato nella carne, e che lo stesso buonsenso ha una struttura incarnata. Verità fondamentale, non presupposta, ma implicita, o meglio ancora, vissuta e identificata, senza che la si possa distinguere, in tutti i movimenti; più o meno come la salute è diffusa in tutti gli organi e in tutte le attività dell'uomo che la possiede, fino a confondervisi.

Tanto essenziale è questa condizione dell'uomo per il buonsenso, che esso preferirà, in mancanza di altra soluzione, i dati nudi e semplici del senso e la loro sistemazione empirica alle divagazioni di un ideale disincarnato: per superficiali e fragili che siano, i primi almeno fanno parte dell'essere, ed esso ne può fare la prova.

Per il buonsenso, un cane vivo val meglio, non già di un leone morto, perché un leone morto non è nulla, ma d'un leone ideale, perché quest'ultimo non esiste. Tra l'essere e il non essere, ha fatto una volta per tutte la sua scelta. È vero che spesso il buonsenso finisce per non andare al di là del terra-terra: ma questa deformazione, questa ristrettezza, questo rifiuto di volare, di cui gli si fa, e spesso a buon diritto, una colpa, sono da imputarsi più che altro alle minorazioni che esso subisce nell'individuo o nella società. Come ogni attività dell'uomo, il buonsenso può essere misero, ma può essere anche grande, perfetto, penetrante. Ne ha dato il più bell'esempio santa Teresa d'Avila, che alle sue novizie imponeva con fermezza: "Sia ben chiaro che tutto ciò che ci attira al punto da toglierci l'uso della ragione, deve esserci sospetto".

Considerato in se stesso, e non ad un livello inferiore, il buonsenso non separa affatto l'intelligibile dal sensibile, ma cerca una soluzione che non disgiunga queste componenti della conoscenza umana. Si può immaginare un uomo di buonsenso che si fidi solo delle sue sensazioni, e rinunci deliberatamente, potendolo fare, a scoprire il loro significato, e il valore intelligibile delle verità che nascondono? Il buonsenso include bensì le sensazioni, ma, proprio perché è "buono", ne prolunga la direzione, ne decifra il significato, individua, ci si permetta il gioco di parole, il senso del senso. È chiaro che questo implica la stretta complementarità di corpo e anima, né d'altra parte contrasta con quanto abbiamo detto sul buonsenso come "intelligenza dell'intelligenza". L'intelligenza umana non è veramente se stessa se non nella misura in cui si articola alla sensazione, ed una metafisica senza una fisica non è che un gioco intellettuale. Di qui, alcune importanti conseguenze, che non possono essere messe in luce che negativamente, dato che siamo di fronte a un dono primigenio della conoscenza, al di là del quale non possiamo risalire.

Se è vero che il buonsenso implica l'incarnazione dello spirito, significa che è per ciò stesso individualizzato. È l'uomo in carne ed ossa, quello che porta un certo nome, che ha del buonsenso, e, contrariamente alla celebre enunciazione di Cartesio, non è vero che tutti ne siano ugualmente forniti. Si dirà che ciò accade per tutte le facoltà dell'uomo: i sensi più o meno affinati, l'immaginazione più o meno viva, la mente più o meno evoluta.

È vero, ma il buonsenso si colloca proprio nel punto di intersezione dell'anima e del corpo, e non si dispiega efficacemente che nel loro dinamismo sinergico: si può infatti provare una sensazione senza pensare, si può pensare senza provare una sensazione, ma non si può essere in linea con il buonsenso se l'esperienza sensibile e l'attenzione dell'intelligenza non si compenetrano. Potrà accadere che l'intelligenza urti in dati più o meno oscuri, dei quali debba rinunciare a mettere in luce la sostanza intelligibile, ma, in questo caso, il buonsenso non s'arrenderà completamente: con il suo intuito, farà ricorso a situazioni anteriori analoghe, che aveva precedentemente risolto; si affiderà agli insegnamenti della vita, scoprirà la via che unisce la radice ai frutti, giudicherà secondo tradizioni collaudate. Ed ecco nuovamente l'intima relazione del buonsenso con il corpo dell'uomo, e i suoi corpi più estesi, che sono la famiglia, la patria, la Chiesa, madre comune dei fedeli, e con tutti quegli organismi concretamente incarnati nella materia. Chi dice tradizione dice sostrato che trasmette, "hypokeimenon" materiale, continuità psichica, presenza visibile che lascia una traccia nella storia. Che questo appello al passato comporti dei rischi, d'accordo; che sia diffidente di fronte alle improvvise novità, innegabile. Ma è colpa del buonsenso o delle sue forme viziate?

Comunque sia, il buonsenso appare come intimamente connesso con l' essere-se-stessi. Definizione ambigua, che necessita d'una precisazione, ma che risponde bene all'espressione popolare "l'uomo che non è più in sé", che "è diventato un altro" e, in linguaggio scientifico, che è "alienato". Per poco che si esamini questa privazione del buon senso, allo scopo di chiarire il buonsenso stesso, ci si accorge che l'essere se-stessi non è caratteristica del bruto, della pura materia umana, ma dell'individuo in quanto natura umana incarnata e individualizzata. Non sono tanto la materia o il corpo, a trovarsi toccati dall'alterazione, dall'alienazione della personalità, ma la forma, nel senso aristotelico del termine, la determinazione ragionevole di un certo essere umano individuato. Dice tutto, a questo proposito, l'espressione "malattia mentale". L'essere se stessi significa dunque essere uomini essendo quel certo uomo, e quindi il segno maggiore della perdita del buonsenso sta nel voler essere altro che una natura umana incarnata.

I Greci hanno riconosciuto egregiamente questo significato del buonsenso. La massima "conosci te stesso", scolpita nel marmo nel tempio di Delfo, ricordava loro di riconoscersi uomini, esseri limitati da una natura propria. L'audace che sorpassava questi limiti, commetteva un delitto subito sanzionato dal castigo della follia inflittagli dagli dèi di natura superiore. L'hybris è l'antagonista della misura, il cui rapporto con la determinazione della forma incarnata, e di conseguenza, con il buonsenso, non ha bisogno di essere sottolineato. Accontentiamoci d'affermare che l'uomo di buonsenso ha la preoccupazione costante di richiamare alla misura tutto ciò che infrange la regola d'oro: gli avvenimenti, del resto, lo dimostrano assai bene: questa è senza dubbio la lezione che la Grecia ha tramandato all'umanità come una conquista eterna, almeno per quelli che la sanno ricevere. Il buonsenso assegna all'uomo dei limiti precisi, perché l'uomo è un essere incarnato, circoscritto dal suo corpo e dal rispetto per questa componente della sua natura: è proprio questa misura che permette all'uomo di giungere ai limiti della sua capacità di essere, senza perdersi negli innumerevoli e squallidi pantani dell'illusione e del nulla. Non sta in piedi l'obiezione romantica, che la misura costituisce una prigione: la misura immanente al buonsenso non è affatto una costrizione che esso esercita su di sé, ma al contrario un limite di perfezione e di maturità, al di là del quale il ritmo della vita si esaspera, per poi estinguersi. L'uomo di buonsenso si fonda su un solido fondamento che gli permette, nella misura stessa in cui realizza e sviluppa il suo essere, di abbracciare gli altri esseri, e di elevarsi fino alla conoscenza di Dio.

Ed ecco che ritroviamo la relazione dell'essere umano, limitato, con l'essere universale. Senza essere se stessi, è impossibile cogliere l'essere degli altri. Il limite di cui ci si accusa di esser prigionieri, non è il contrario dell'illimitato, nel senso di distribuzione analogica dell'essere, ma dell'assenza di limiti, dell'indefinito, dell'informe. E bisogna dire anche che il finito è, per l'uomo, la condizione per la conoscenza dell'infinito. Senza questa misura, di cui è custode e che si confonde addirittura con lui, il buonsenso non troverebbe altra via d'uscita agli interrogativi che l'assillano, che il più squallido dei deserti. Appassirebbe in se stesso, lasciando il campo libero all'intelligenza vagabonda, che, staccata dalla sua vitale relazione con l'essere se stessa, e priva del limite della natura incarnata, se ne andrebbe fuori dell'uomo, e si perderebbe in un mondo irreale e disumano.

A questo punto, possiamo analizzare la crisi del buonsenso. Il buonsenso si corrompe e svanisce, quando l'essere se stesso non gli offre più una solida base, per cui i componenti della natura incarnata si separano l'uno dall'altro, smembrando il fondamento dello stesso essere. Privo quindi del suo fondamento, vede il suo slancio spezzarsi e le sue forze affievolirsi, mentre la misura che esso comunica alla conoscenza e all'azione si volge in dismisura. Ne abbiamo tanti, oggi, di esempi del genere.

Prima di vederne qualcuno, fermiamoci a precisare la nozione di malattia della natura umana incarnata, e partiamo dal dogma del peccato originale. Non abbiamo la competenza per dire altro, tranne che ci pare impossibile che il primo fallo abbia interamente corrotto la natura umana: se così fosse, da tempo ormai l'umanità avrebbe terminato la sua marcia. Invece, per profonde che siano le crisi dell'umanità, resta il fatto che è sempre riuscita a far emergere al di sopra dei mali che la schiacciano, il suo primo e fondamentale bene: l'esistenza. Significa che possiede delle risorse che un male radicale non ha potuto distruggere. Presa alla lettera, la teoria protestante nega il tempo ed i cicli di nascita e rinascita, di decadenza e di miglioramento che pure la storia mostra evidenti; atomizza l'umanità in individui stagni gli uni agli altri, senza una natura umana comune, proiettati in una specie di angelica intemporalità. Jean Guitton ha dimostrato esattamente come la nozione di durata vivente, con le sue virtualità e i suoi sviluppi, sia assente dal protestantesimo. Al limite, la dottrina protestante è quanto di più "abiologico" esista.

Altrettanto vale per la teoria rousseauiana. Se l'uomo è buono e soltanto la società lo rende malvagio, è perché l'uomo trascende per sua natura la continuità biologica della famiglia e dei corpi sociali che essa produce. L'uomo è soltanto coscienza pura ed il male gli sopravviene esclusivamente dal di fuori, per caso, in quanto la vita del corpo proprio e degli altri, gli succhia lo spirito: "Coscienza, coscienza, voce immortale e celeste!".

Queste due concezioni dell'uomo, in apparenza antitetiche, finiscono per condurre entrambe ad un dualismo, il quale, spezzando l'unità, e perciò i limiti, della natura umana, porta entrambi i sistemi alla concezione d'un progresso indefinito dell'uomo. È curioso constatare come, laicizzandosi, il protestantesimo conduca allo stesso punto in cui va a parare la teoria di Rousseau quando diventa una fede: la visione d'una umanità divinizzata, nel quadro d'una evoluzione dalla materia allo spirito. Ciò avviene perché sorge il bisogno di riassorbire l'insostenibile dualismo di partenza, pur conservando la fondamentale negazione dell'aspetto biologico dell'uomo. Il vertice di questa apoteosi sta nel pensiero di Teilhard de Chardin. Si può osservare, d'altronde, che queste teorie del progresso indefinito sono paradossalmente fondate sull'intemporalità del divenire: il tempo si riduce ad un istante infinitamente dilatato, dato che il termine è già compreso nel punto di partenza.

Ma lasciamo perdere questi problemi, e contentiamoci di notare come sia più conforme all'esperienza la constatazione della precarietà della natura umana incarnata: ne vediamo gli effetti. È un luogo comune che sarà bene sottolineare, proprio in un momento in cui non è più affatto comune: è arduo fare bene il mestiere di uomo. La complementarità gerarchizzata dei componenti della natura umana avrebbe potuto essere normale: invece non lo è, ma sussiste un elemento di salute e di equilibrio che ci traccia la via: il buonsenso. Non è tutto, ma non è neppure nulla. È fin troppo chiaro tuttavia che il buonsenso è discontinuo, e ce lo prova la più grossolana esperienza della nostra vita. Le eclissi dell'individuo possono dipendere da diversi fattori: educazione, influenza, prestigio, contagiosità, magnetismo personale, e così via, ma questi fenomeni sociali sono generalmente di breve durata. Perché si protraggano, bisogna che il rifiuto del buonsenso derivi da una concezione dell'uomo che giustifichi questo rifiuto, e che sia in grado di diffondersi socialmente, in modo stabile, grazie ad organi pubblicitari.

È la stessa labilità della natura umana, sperimentalmente constatata, ma non razionalmente spiegata, che porta a questa sostituzione: se non è possibile spiegare razionalmente questa fragilità, significa che la ragione non è abbastanza sviluppata nell'uomo; bisogna dunque stimolarla, bisogna che l'uomo diventi un essere interamente ragionevole. Significa che l'animalità fa resistenza in lui alla necessaria apertura. E allora bisogna ridurla, se non eliminarla, rendendo l'uomo il più possibile adeguato a canoni razionali. Inutile poi, anzi condannabile, far ricorso ad una spiegazione soprannaturale del fenomeno: la religione cristiana, con il suo dogma della caduta, mantiene l'uomo ad un livello inferiore, e non gli offre altra via d'uscita se non il mito per innalzarsi. Il suo maggiore interesse è di concepire l'essere umano come un animale ragionevole, abbandonato ai lumi discontinui e casuali del suo preteso buonsenso, rischiarato dall'alto da una luce ingannevole che imita la vera luce della ragione. Questo movimento, che mira a sostituire all'uomo antico e "finito", un "uomo nuovo", capace di trionfare sulla condizione umana, è stato chiamato razionalismo.

Il razionalismo è la concezione oggi dominante, quella che impegna il pensare e l'agire dell'uomo contemporaneo. Esso nasce dal dualismo della natura umana, che il buonsenso riesce a superare solo a tratti, o meglio, dalla tendenza della natura umana incarnata a scindersi in elementi antagonisti: da una parte la carne, dall'altra lo spirito, mentre il legame che li unisce si fa sempre più fievole, e sparisce ogni complementarità fra i due elementi. Il razionalismo disincarna lo spirito, e toglie spiritualità alla carne. Fra l'alto e il basso dell'uomo, fra la sommità e la radice, non rimane altro che il vuoto: il buonsenso che li articola, tende a sparire, sotto l'influenza di un'intelligenza liberata dalle sue relazioni con la conoscenza sensibile, per far luogo a modelli logici artificialmente costruiti dall'attività autonoma dello spirito.

Nessuno come Michelet ha colto il significato di questa disincarnazione. Nella prefazione alla sua "Storia della rivoluzione francese", con il suo genio di veggente e profeta, egli ha enucleato l'essenza dello spirito razionalista moderno: l'ostilità manicheistica verso la carne, questa realtà oscura e potente che appesantisce l'uomo, lo mette in comunicazione immediata con l'universo, e fa da base alla conoscenza di Dio, sia dal punto di vista naturale che soprannaturale. "Grande secolo XVIII", scrive Michelet, "che ha fondato la libertà sull'emancipazione dello spirito fino ad allora impastoiato nella carne, legato dal principio materiale della doppia incarnazione teologica e politica, sacerdotale e reale; secolo dello spirito che ha abolito gli dèi di carne nello stato e nella religione, in modo che non ci fossero più idoli, e non restasse altro dio che Dio".

Nessun'altra analisi va così nel profondo del razionalismo moderno come questa prodigiosa intuizione del poeta-storico. Di ben altro si tratta che della proclamazione dei diritti dell'uomo, o di pura politica; si tratta dell'autonomia radicale della ragione umana nei confronti della carne che la imprigiona, e del buonsenso che unisce l'una all'altra. Il razionalismo è una rivolta contro il buonsenso, in quanto questo indica agli elementi della natura umana incarnata la loro finalità interna reciproca, e in quanto dirige la conoscenza e l'azione dell'uomo verso un fine esterno adeguato alle loro possibilità. È proprio a partire da quest'epoca, individuata da Michelet, che il buonsenso, attaccato da tutte le parti, entra in uno stato di crisi permanente, ad opera dei due grandi despoti della propaganda sociale, i politici e gli intellettuali. Si pensi a tutta l'opera di quel genio di buonsenso contadino che fu Péguy. Notiamo solo che il politico e l'intellettuale provano una segreta ostilità contro il buonsenso, quanto più si esaltano del potere di cui dispongono; tendenza che aumenta in ragione dell'ampliarsi della loro zona d'influenza, e quanto più l'allargarsi dell'ambiente sociale in cui compiono le loro distruzioni non permette il controllo diretto del loro muoversi. Già predisposti alla disincarnazione per il mestiere che fanno e che li eleva in qualche modo, come gli angeli, al di sopra dei comuni mortali, vi si lanciano a corpo morto - è proprio il caso di dirlo - quando il loro dominio è abbastanza vasto da non permettere più la verificazione sensibile del loro agire. D'altra parte le dispute fra politici e fra intellettuali sono tanto più irrimediabilmente vane, quanto la loro naturale disincarnazione li spinge a far valere i punti di vista soggettivi - beninteso accuratamente camuffati - sulle realtà oggettive profonde, che li potrebbero riconciliare. Così, questi conflitti diventano pure e semplici "ideomachie", prive di contenuti, il cui punto di inserimento nel reale è stranamente infimo e superficiale: una piramide di nubi posta a rovescio su un corto dardo, ancora capace di ferire ed uccidere. "Attaccava i suoi epigrammi smussati alla punta di un pugnale", dice Chateaubriand del convenzionale (e poeta) Pons de Verdun.

Non ci è consentito, nei limiti di questo studio, di far la lista di tutte le aberrazioni del buonsenso, e rimandiamo il lettore alle nostre opere precedenti. Tuttavia, se tentiamo di riunire in una diagnosi coerente le osservazioni che ciascuno può effettuare per proprio conto in questo o quel settore, non ci sarà difficile constatare che nelle facoltà, sia inferiori che superiori, dell'uomo d'oggi, l'astratto tende a cacciare sempre più il concreto. Le tiranniche astrazioni che reggono la conoscenza ed il comportamento, non sono affatto degli intelligibili staccati dal sensibile, ma delle creazioni della pura ragione, elaborate dal pensiero disincarnato, che tentano di spiegare dall'esterno un dato che l'esperienza sensibile sfiora appena, e che si riduce al suo puro scheletro quantitativo, anch'esso fortemente astrattizzato. È un fenomeno che si manifesta con violenza nelle scienze della natura, e in quelle umane, nella condotta politica come in quella sociale, riguardate dal punto di vista delle masse e delle statistiche, nel comportamento individuale, ridotto a misure tenute insieme da una targa segnaletica.

Non fanno eccezione neppure le arti, nelle quali il peso del sensibile è pur fondamentale: astrazione e rebus vi hanno preso il sopravvento. Astrazioni vuote di senso anche in filosofia: i sistemi che pretendono di ritornare alle "cose in sé", o all'"esistenza", le dialettiche hegeliane o marxiste, il neopositivismo, e così via... Tutte cose che mancano di spessore umano, e si caratterizzano per una specie d'incestuosa introversione dello spirito verso se stesso. La presenza degli esseri e delle cose è soltanto più un pretesto, attorno al quale prolifera un pesante e sottile delirio verbale. Un cerebralismo artificiale e bizantino s'è sostituito all'amicizia che la filosofia deve provare per la natura, se non vuole finire nell'amorfo, e imporle una forma arbitraria che soddisfa il pensiero ma che l'uomo che pensa respinge con energia.

La spiegazione di questo rovesciamento di valori, di questa scissione fra la presenza e la rappresentazione, esige qualche parola. L'intelligenza umana trae sì tutte le sue idee dalle cose, ma può, per sua natura, astrarre dal mondo esterno, per considerare in sé soltanto le idee che sono formate, e deformarle a suo piacimento.

Possiamo toccar con mano ad ogni istante questa disincarnazione dell'intelligenza dal suo legame con il corpo e attraverso questo, con l'universo: l'esempio più netto di questa "Umwertung" è la trasformazione della patria materiale in patria ideologica, propria di tanti spiriti contemporanei. Nel modo di pensare di oggigiorno, si riscontra infinite volte il taglio del cordone ombelicale che lega l'idea al mondo sensibile: quanti uomini affermano impavidi, come verità sacrosante, idee che hanno ruminato senz'aver avuto mai il minimo contatto con le cose e con gli esseri, o che hanno pescato semplicemente su giornale? La facoltà di costruire un mondo razionale immaginario s'è sviluppala in modo inaudito. Ci si potrebbe domandare, con Gabriel Marcel, quale sia la riserva aurea di questa formidabile inflazione concettuale.

Sarebbe facile dimostrare che l'intelligenza disincarnata dell'uomo contemporaneo funziona in tutti i campi come una gigantesca macchina imbottigliatrice, che applica al mondo le forme che ha costruito a priori; forme che con la realtà hanno a che vedere soltanto più a livello degli istinti, delle emozioni viscerali, degli impulsi affettivi, di quel formicolio di forze impure, ora violente ora evanescenti, nel cui meccanismo si degrada la vita quando non è più impregnata di spirito. L'esistenza umana si presenta, a questi livelli inferiori, come un insieme di riflessi condizionati, sui quali viene a sovrapporsi l'automatico imbottigliamento delle astrazioni e, da questo punto di vista, l'uomo assomiglia sempre di più ad un aggregato di fenomeni quantitativi, analoghi a quelli che le scienze positive vanno scoprendo nella materia inerte. È chiaro che il buonsenso non ha più posto in un sistema del genere: come dice Aristotele, non può esistere il bene nelle matematiche, né la finalità nei meccanismi, né la complementarità organica negli ingranaggi che si giustappongono. Che valore possono ancora avere, in una prospettiva del genere, i fini dell'uomo pienamente tale, il Vero, il Bello, il Bene? Sarà vero ciò che riesce, bello ciò che è alla moda, bene ciò che è "eccitante", nel senso che determina lo sfogo d'un potenziale accumulato.

Innegabile ci pare l'influenza delle scienze positive sulla crisi del buonsenso. Con ciò non vogliamo giungere ad una ridicola condanna delle scienze e delle tecniche che ne derivano. Le scienze hanno un senso, ma di per se stesse non contribuiscono affatto al buonsenso. Il progresso scientifico, al quale assistiamo da parecchi secoli, e che ha raggiunto oggi un punto critico, non è di per se stesso un progresso umano, perché non risolve alcun problema umano o, più esattamente, perché non riguarda in nessun modo l'uomo come essere in rapporto con l'essere universale. Infatti l’essere è per l'uomo essere con, include una familiarità, un accordo, una partecipazione con gli altri esseri e con le cose, mentre le scienze positive mettono fra parentesi questo rapporto di comunione e di connaturalità. Per queste, la realtà è strettamente oggettiva, costituita da un puro "prima del (ob) pensiero": il loro ideale è sempre il misurabile, l'inventariabile, che presuppone l'esteriorità ontologica del conoscente e del conosciuto. In sé e per sé, le scienze positive sono fredde: stimolano l'intelletto, non l'uomo in sé. Sono insensibili: e ciò significa non solo che manca loro un sentimento, ma perfino quel minimo di partecipazione all'oggetto che comporta la sensazione qualitativa. In un'atmosfera sociale satura dell'ideale scientifico, il buonsenso soffre d'anemia, e non può essere diversamente; se sussiste, è a titolo sporadico, individuale. Non possono, pertanto, tracciare una direzione per l'uomo: ne rimangono al di fuori la finalità, la soluzione esauriente, anche se solo presentita, il buonsenso. Contribuiscono moltissimo all'intelligenza, e determinano delle approssimazioni che equivalgono a certezze; ma non nutrono l'anima. Dice il proverbio: "Scienza senza coscienza, vale a dire senza il senso dei limiti, rovina l'anima".

Lo si voglia o no, una scienza che arriva ad investire un gruppo qualunque di fenomeni, implica un potere. Ora, la fisica filosofica e qualitativa degli antichi era priva di potere sulla natura, mentre la scienza matematica e quantitativa dei moderni esercita sulla natura un potere teoricamente illimitato e si rivela in pratica gravida di pericoli per l’uomo in quanto tale. La parola ai fatti: senza drammatizzare, il meno che si possa dire della fisica nucleare è che esige dall'uomo infinitamente di più di quanto non apporti alla sua conoscenza della materia. Occorrerebbe un sovrano buonsenso per mantenere la padronanza su questo potere. Il fatto è che l'esercitare un potere assoluto non predispone al buonsenso. E che dire delle tecniche economiche e psicologiche? Siamo di fronte ad un circolo vizioso: quanto più l'uomo domina la natura, tanto più rischia di perdere il buonsenso che dovrebbe al contrario aumentare.

La follia non è più tenuta a bada dalla sua stessa violenza, secondo l'intuizione dei Greci, ma si esercita senza incontrare altro limite che conoscenze e tecniche di senso opposto, che bilanciano i loro pericoli e i loro inconvenienti. Ci si sforza di realizzare una bomba atomica "pulita"; si combattono le crisi economiche con complicati stratagemmi; si oppone al "lavaggio dei cervelli" un altro "imbottigliamento di crani"; il vuoto dello spirito puro o della materia pura, è riempito da fatti storici distillati e trasformati in astrazioni. Il buonsenso si è volatilizzato, e si cerca allora l'equilibrio in una sintesi di antagonismi, gli uni non meno prefabbricati degli altri. È scomparsa l'idea che esista un equilibrio naturale che sì tratta di ricuperare sotto pena di una morte, fisica o mentale, ed è sparita perché lo spirito si è disincarnato. L'uomo concreto, in carne ed ossa, con il suo buonsenso, non svolge più alcun ruolo, non suscita più attenzione né stima. Basta vedere con quale disinvoltura è trattato, o si lascia trattare, da coloro che professano un rispetto nominale per la sua "persona" anch'essa diluita in astrazioni.

Che l'uomo contemporaneo tenda sempre più ad essere considerato, e a considerarsi egli stesso, una materia malleabile forgiata da diverse impronte astratte, a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze, questo ci pare evidente. Accade come se l'uomo, diviso da uno scisma interiore profondo, tentasse di rifarsi un'unità razionalizzando i suoi livelli d'essere, fino al momento in cui il suo tentativo incontra l'oscura e irrazionale presenza della materia, le strutture tenebrose e larvali dell'esistenza, non più impregnate d'anima dall'incarnazione. Non importa poi che questi progetti razionali siano scientifici, o ispirati ad una scienza volgarizzata, o nati dall'adattamento del razionalismo al contesto sociale e politico, vale a dire ideologici: il fatto è che vanno incontro agli impulsi ciechi che travagliano i bassifondi dell'essere umano, li captano e li trasferiscono in condotte logiche superiori, allo stesso modo con cui le scienze positive si impadroniscono degli aspetti quantificabili della materia e li elevano alla dignità di meccanismi razionali. Così, come gli aspetti quantificabili della materia si adattano a modelli precostruiti, alla cui forma astratta comunicano esistenza materiale, queste forze torbide s'introducono nei progetti intellettuali e conferiscono loro un'esistenza umana. La paura di morire e di soffrire, la sessualità, l'aggressività, l'invidia, i sentimenti di gregarismo, e così via, sono accolti in sistemi preconcetti; eutanasia, libera unione, matrimonio di prova, divorzio, teoria della lotta di classe, egualitarismo, collettivismo, ai quali, a loro volta, prestano una consistenza.

Nella storia contemporanea, si possono trovare migliaia di altri esempi di astrazioni che innalzano degli istinti animali al livello dello spirito dal quale sono nate: le teorie politiche e sociali che gli uomini d'oggi elaborano per giustificare lo scatenamento dei loro istinti, o le opere d'iniziazione alla vita coniugale che sanno lontano un miglio d'odore afrodisiaco. In ogni campo, l'ideale d'incarnazione cacciato lascia posto agli schemi della razionalizzazione, l'equilibrio naturale cede ad un equilibrio artificiale, l'armonia vissuta ad un'armonia calcolata.

Nasce un nuovo tipo d'uomo che elimina l'uomo di buonsenso dalla scena della storia. Se si guarda con un po' di attenzione il corso dei suoi pensieri e dei suoi atti, si è colpiti dal suo carattere autocentrico. Mentre il buonsenso è eterocentrico, cioè suppone un retto andare verso un fine che non dipende nè dalla nostra intelligenza nè dalla nostra libertà, ma è in qualche modo costitutivo della stessa natura, l'"uomo nuovo" incentra tutto il suo comportamento su se stesso. Non potrebbe essere altrimenti: per diventare diversi da quello che si è per natura, occorre necessariamente prendersi come punto di riferimento, e paragonare ogni cosa a sé. L'uomo di buonsenso non prende se stesso come fine: sa che la coesione interiore gli è necessaria, e che l'accordo delle componenti della sua natura è un requisito per giudicare rettamente e agire come si deve, ma non modifica in nulla la struttura delle sue facoltà, né i loro limiti né la loro complementarità almeno embrionale: non si costruisce, né lo potrebbe; perfeziona il suo essere in funzione delle tendenze naturali che sfuggono alla sua influenza. La sua riflessività poggia sulle solide evidenze che porta dentro, che si proibisce di modificare, e che lo dirigono verso il mondo esteriore, non per perdervisi, ma per illuminarlo e per raggiungere i diversi fini ai quali è destinato.

Vien perfino fatto di domandarsi se questo atteggiamento possa essere definito di riflessività; non si tratta infatti in alcun modo di un ritorno del pensiero su se stesso per cogliersi o analizzarsi, ma di una adesione a se stessi e ai lumi della natura umana incarnata. Al contrario, l'uomo moderno disincarnato, che si vuole diverso da ciò che è, può trarre soltanto dal suo spirito il materiale della sua autocostruzione, e riguardarsi continuamente nella sua scelta e nella sua sistemazione, così come, nella misura in cui "la sua esistenza precede la sua essenza", tutti i suoi atti presuppongono una riflessività radicale, anteriore alla fabbricazione dell'essere. Soltanto lo spirito può ripiegarsi su se stesso, isolarsi dal resto, rimirarsi come Narciso, e dare la forma costruita liberamente in sé all'essere considerato come un puro esistente. In questo senso, il punto in cui confluiscono tutte le correnti razionaliste contemporanee, dichiaratamente o meno, è l'esistenzialismo di Sartre: testimonianza che l'"homo rationalis" dei nostri giorni tende a se stesso e all'autonomia assoluta della ragione nei confronti del corpo, ai gruppi sociali e al mondo esteriore. Schema di questo esistenzialismo è null'altro che la pura ragione, o pura riflessività, che precede l'esistenza, la quale, a sua volta, precede l'essenza. Motivo ispiratore: il razionalismo integrale. È sufficiente del resto constatare come, per volersi diversi da quelli che si è secondo la natura incarnata, occorre necessariamente un piano preliminare, il quale può formarsi soltanto nella riflessività propria dello spirito, per mezzo di esseri di ragione, aventi sede unicamente nello spirito, e che questo elabora a suo modo.

A questo ripiegarsi egocentrico dello spirito su se stesso, e sulle sue elaborazioni, si aggiunge poi la considerazione supplementare dell'io che si tratta di costruire, e al quale bisogna dare, per così dire, una nuova "natura", un essere artificiale.

Non inganniamoci: il mondo d'oggi è pieno di uomini e donne che vogliono apparire diversi da come sono, e il cui comportamento, intellettuale e morale, obbedisce proprio allo schema esistenzialista. La stella del cinema che fa di se stessa un personaggio, la piccola dattilografa o la commessa che la imitano ciecamente; l'indivìduo che si identifica con l'immagine che s'è fatto di sé, con la sua carica, la sua professione, i suoi desideri, le sue passioni individuali e politiche, le pressioni collettive che subisce, le ideologie che fa sue, insomma la parte del suo essere che ha elevato a tutto, escludendo la sua natura globale, incarnata: abbiamo di fronte un'immensa serie di esempi. La macchina imbottigliatrice del volgare razionalismo, fatta per la produzione in serie, lavora a pieno ritmo.

Non bisogna allora esitare a dire che questo mondo in cui ciascuno si vuole diverso da quello che è, è un mondo di alienati, in preda alla follia, e agli antipodi del mondo del buonsenso.

Come ritornare allora a questo buonsenso, dal momento che le zone sane vanno restringendosi sempre più? È un problema fondamentale ed urgente: ma non c'è soluzione che possa essere indicata da un profeta, come non esiste una soluzione razionale, poiché la ragione disincarnata tende a coincidere con la follia. Ritornare al buonsenso, significa ritornare alla vita ordinaria, in cui la salute dell'uomo non si percepisce più di quanto non ci si accorga dell'aria che si respira. Ma nulla è più difficile: forse è addirittura impossibile, una volta imboccata la via della stravaganza. Neppure gli avvenimenti più terribili hanno mai potuto rendere più saggia l'umanità: basta pensare al secolo XX, così pieno di guerre atroci. Al contrario, sembra che essi valgano a far precipitare il corso delle cose. È quello che si chiama "il moto della storia".

Non resta allora che disperare? No: sarebbe il peggiore dei nonsensi, una sciocchezza assoluta come sempre è la disperazione. La via d'uscita è una sola, quella che l'esperienza indica in modo lampante: il buonsenso supremo, il cui termine è Dio, non solo creatore della natura, ma anche suo salvatore. Per compiere i gesti più normali della vita, per pensare e per agire secondo natura, occorre nientemeno che la grazia del cielo. In ultima analisi, è proprio la piccola santa Teresa del Bambin Gesù che indica all'uomo del nostro tempo la strada da seguire fino in fondo per uscire dalla crisi del buonsenso.