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Karl Ludwig von Haller, teorico della scienza politica

 

Fra i grandi teorici della Restaurazione lo svizzero De Haller fa parte per sé stesso.
La sua dottrina, infatti, che per il lato critico coincide sostanzialmente con quella degli altri contro-rivoluzionari più illustri, se ne distacca invece in molti punti, quando entra nella fase costruttiva, e certo questa sua caratteristica, di apparire isolato anche nel proprio campo, ha nuociuto non poco alla sua fama ed alla diffusione dei suoi scritti.
Eppure nel pensiero di questo protestante, nato repubblicano in una città libera e condotto alla luce e all'unità di Roma ed alla esaltazione dell’ordine monarchico attraverso una lenta evoluzione — politica dapprima e quindi religiosa — un cercatore attento può trovare, ancora grezzo e appena digrossato. tutto un ricco e prezioso materiale, capace di fornire solide fondamenta a grandi ed armoniose costruzioni. Se l'Haller, non ha sempre saputo usarlo bene, ha tuttavia il gran merito di averlo accumulato, preparando un magnifico arsenale ai combattenti della buona causa. E di questo dobbiamo essergli grati.

* * *

Nato a Berna nel 1768, da un'austera famiglia calvinista del vecchio patriziato cittadino, che vantava parecchi luminari della clericatura protestante ed aveva occupato a ogni generazione le alte magistrature comunali, il giovane Carlo Luigi de Haller sembrava destinato a seguire le tracce dei maggiori, senza uscire dall'ambito della città natia, fra gli studi di Storia e di Diritto e le cure pacifiche dell’amministrazione locale.

Senonchè venne la Rivoluzione, — nata in riva alla Senna, ma presto di francese mutata in europea, — a prenderlo fra i libri della sua biblioteca e a gettarlo di colpo fra i marosi delle lotte di parte: sorte comune a tanti del suo tempo che avrebbero altrimenti vegetato fra le strette pareti famigliari.

Nel 1789 le principali città della Svizzera, unite da un elastico vincolo federale, ma in possesso di larghe autonomie, si reggevano su basi aristocratiche, godendo in esse i diritti di governo solo una minoranza di famiglie più antiche e più cospicue, e restandone escluso il basso ceto e tutti gli abitanti del contado, considerati sudditi e vassalli dei Consigli Sovrani. Ma questo ordinamento, che durava da secoli e aveva assicurato alla nazione svizzera la sua antica e gloriosa indipendenza, non andava d'accordo con gli schemi della nuove teorie democratiche dal cui contagio nessuno degli stati limitrofi alla Francia poté restare immune. D'altra parte in Svizzera si erano rifugiati moltissimi monarchici francesi e ai giacobini una tale vicinanza non poteva piacere. Bastò l'agitazione di pochi malcontenti, sobillati dai soliti zelanti demagoghi, per fornire a Parigi l'occasione e il pretesto di un intervento armato.

Nel 1798 il generale Brune, a Stantz presso Lucerna, disperse le milizie cantonali, e l'anno stesso venne proclamata, sulle rovine della "oligarchia", la Repubblica Elvetica Una ed Indivisibile, con grande gioia degli infranciosati e malcontento dei conservatori, costretti ad espatriarsi od a nascondersi.

Anche a Berna il partito aristocratico fu posto al bando dai trionfatori e all’Haller, segretario del Nobile Consiglio, parve prudente trasferirsi in Austria intanto che passava la bufera.

Gli avvenimenti ai quali egli aveva assistito lo indussero allo studio ed alla riflessione circa le cause dei rivolgimenti che allora insanguinavano l'Europa e dovette ben presto ravvisarle nella filosofia razionalista e nei principii dell'Illuminismo che avevano minato le vecchie istituzioni, diffondendo dovunque l'utopia ugualitaria e le assurde teorie contrattualiste. Egli aveva capito che per vincere un male, non basta combatterne le manifestazioni esteriori, ma bisogna trovarne l'origine ed il germe, per cercare di troncarlo alle radici. Verità elementare ed evidente della quale moltissimi non tengono alcun conto nella lotta politica e di idee.

A che serve gridare contro i delitti commessi dalle folle sovversive, quando non si dimostri lo stretto nesso logico che lega tali eccessi alle premesse teoriche, spesso remote e in apparenza innocue, dei cattivi pastori?
Opporre gli argomenti agli argomenti, i principii ai principii, smontare e demolire in ogni parte il sistema ideologico avversario, mostrando che le idee, se sono buone, non possono, applicate, dare cattivi frutti, e da questi, pertanto, si devono giudicare…

Ecco il grande concetto ispiratore dell'opera intrapresa dallo scrittore bernese, appena le mutate condizioni politiche gli resero possibile il ritorno nella città natia, dopo circa due lustri di volontario esilio.

Era animato da una fede mistica nella missione alla quale si era accinto, e si sentiva capace di attuarla.

"Attristato dalle sciagure della Rivoluzione — scriveva nel Discorso introduttivo al suo grande trattato sulla "Restaurazione della Scienza politica" — inquieto per i pericoli della mia patria, e diffidando delle dottrine correnti, misi alla fine da parte tutti i libri, tutte le autorità, per non interrogare più gli uomini, ma Dio, nella natura che è opera Sua". La osservazione e l'esperienza storica gli avrebbero permesso di "distruggere, in tutte le sue ramificazioni, la radice di un errore e di una scienza falsa e perniciosa che regna da due secoli nelle scuole e nel tempo; a manifestare l’Ordine istituito dal Creatore e a ristabilire così la pace negli spiriti, riconducendo in terra la vera giustizia che i sofisti ne hanno troppo a lungo bandita". E la vera giustizia non è quella impossibile, pseudo razionale ed astratta, che hanno sempre sulle labbra i demagoghi: giusto è ciò che è conforme alla natura delle cose e degli uomini, quindi alle leggi eterne del Signore.

Si può notare qui la coincidenza delle conclusioni a cui giungono tanto i positivisti della scuola comtiana (Per esempio, il Maurras) che i tradizionalisti cattolici, a prima vista così diversi e lontani.
Gli uni e gli altri difatti badiamo a ricercare le leggi naturali della vita mondiale, e chiediamo alla Storia luce ed ammaestramento, solo per noi cattolici la Natura e la Storia non sono che le ancelle dei voleri di Dio....
"La dottrina del Diritto Divino non ha in sé nulla di straordinario e di soprannaturale.... — spiega a questo proposito l’Haller nell’opera citata — Né la potenza dei principi, né la ineguaglianza dei mezzi o dei doni della fortuna diversamente distribuiti fra gli uomini, non sono state create dagli uomini stessi, bensì derivano dalla natura delle cose, che è come dire da una istituzione divina".

Definizione semplice e precisa che chiarisce il concetto di "diritto divino", troppo spesso frainteso o deformato, e lo mostra, qual è, accettabilissimo nella sua essenza vera.
Poste così le basi inattaccabili della dottrina che egli vuole opporre a tutti gli erramenti giacobini, l’Haller rifa la storia del contrattualismo dall’Hobbes al Rousseau denunciando l’assurdo del sistema che fa dipendere le società ed i governi da un ipotetico libero patto degli uomini, già viventi allo stato di natura, senza vincoli e senza costrizioni.
È il presupposto falso ed arbitrario da cui deriva l'idea dell'uguaglianza e della sovranità popolare, l'utopia del potere delegato, dell’obbedienza negata o consentita, delle assemblee deliberanti elette, e gli altri postulati democratici codificati nell’89 con la Dichiarazione dei Diritti.

Questa leggenda dell'uomo presociale che un bel giorno ha lasciato le selve e le caverne unendosi ai suoi simili per fondare lo Stato, rinunciando con atto volontario all'uso di una parte della sua libertà, in vista di un presunto benefizio, Haller la nega e la respinge in pieno.
"Imperocché — egli scrive — invece di dire che gli uomini hanno abbandonato lo stato di natura, io sostengo che questo stato non ha sofferto mai interruzioni e lo considero una istituzione divina da cui non possiamo e non dobbiamo uscire. Invece del contratto sociale io riconosco una moltitudine di convenzioni particolari....; invece della volontà generale la legge divina naturale; invece della sovranità popolare la sovranità di colui che è indipendente per nascita e per fortuna; invece del potere delegato, il potere personale; invece di un mandato immaginario o di funzioni imposte, i doveri di giustizia e di amore che obbligano tutti gli uomini; invece del governo di tutte le cose quello dei propri affari; infine, invece della formazione degli Stati dal basso in alto, quella dall’alto in basso: il padre prima dei figli, il principe prima dei sudditi, e non i figli prima del padre e i sudditi prima del principe".

La vera legge di natura è questa: è che il più forte e il più capace regni, e l'ignorante e il debole obbedisca; e la superiorità da una parte e la necessità od il bisogno dall'altra sono alla base di tutti gli umani rapporti: fra l’uomo e la donna, fra il padre ed il figlio, fra il maestro ed il discepolo, fra il medico e il malato, fra il sovrano ed il suddito. Quindi la signoria che un uomo si è acquistato in virtù della propria superiorità naturale, la possiede iure suo, per proprio conto, e nessuno può toglierla a lui ed ai suoi eredi.
"I sovrani regnano in virtù dei loro diritti personali e non in virtù di diritti delegati; il popolo non li ha né istituiti né creati, i principi non sono gli amministratori od i funzionari del popolo, bensì persone interamente libere, signori indipendenti, i quali come tutti gli altri signori governano da soli e in buona regola il proprio patrimonio famigliare..."

È il concetto feudale dello Stato dinastico e patrimoniale che l’Haller contrappone a quello liberale dello Stato giuridico: l’educazione, il sangue, ed il temperamento lo spingevano a prendere per modello gli stati patriarcali della vecchia Germania, misconoscendo i grandi insegnamenti dell'ordine monarchico romano.
Ma — ripeto — nell’Haller, l’opera costruttiva è assai meno perfetta della critica, davvero magistrale.
Allorché controbatte le artiglierie polemiche dei pubblicisti rivoluzionari e squarcia con un colpo ben diretto le vesciche leggere delle variopinte utopie, la sua prosa, talvolta un po' prolissa, assume una eloquenza singolare ed una rara forza persuasiva.

Così quando respinge l'abile distinzione che gli avvocati della Democrazia cercano di stabilire fra gli errori e gli eccessi della prima repubblica francese, e la bontà ideale dei principi nel cui nome era sorto quel regime....
"No ! — esclama, senza cedere una zolla delle sue posizioni — non è vero che il tentativo di realizzare il preteso sistema filosofico sia fallito soltanto perché gli uomini non vi erano ancora maturi o perché se ne siano esagerati o male applicati i principi, od ancor meno in quanto per fini ambiziosi, non si sia veramente voluto realizzarlo. Esso è fallito perché doveva fallire e perché il sistema in se è falso, impraticabile, contrario alla ragione, e perché la forza onnipotente della natura si oppone alla sua realizzazione".

* * *

I tre grossi volumi della Scienza politica, pubblicati dapprima in tedesco, fra il 1814 ed il 1817, furono presto tradotti in francese e valsero all’autore — il quale occupava una cattedra di Diritto Pubblico a Berna ed era stato inoltre chiamato a far parte del Consiglio Sovrano restaurato — un quarto d'ora di notorietà quasi mondiale.
Tuttavia non mancarono fra i suoi concittadini — calvinisti incalliti e intransigenti — quelli che ravvisarono in alcune sue pagine qualche traccia di spirito "papista", peccato imperdonabile per quei bravi ugonotti!....
Specialmente un capitolo parve loro sospetto — dal punto di vista dell'ortodossia protestante — ed era quello nel quale lo scrittore osava proclamare apertamente la solidarietà insopprimibile fra l'autorità religiosa e quella temporale, mostrando naturale e necessaria l'alleanza del Trono e dell'Altare.
Certo nessuno scrittore cattolico avrebbe potuto esprimere meglio il grande concetto dell'"unità nell'imperio" che affratella lo Scettro e il Pastorale, per il buon governo dei popoli.
"Dall'idea chimerica di rendere la ragione individuale indipendente da qualsiasi autorità, e di distruggere qualunque fede, al progetto non meno ridicolo di sciogliere gli uomini da qualsivoglia vincolo o di distruggere qualunque servitù esteriore, sia pure volontaria, non c'è che un passo, facile e inevitabile.... Questi due generi di dipendenza non sono essi forse nell'opinione dei moderni sofisti, ugualmente contrari alla pretesa dignità dell'uomo?"

"La sottomissione all'autorità spirituale è almeno libera in certo qual modo, giacché la convinzione e la fede non si possono imporre con la forza; laddove l’obbedienza nelle cose temporali è spesso il risultato di una costrizione o dei bisogni fisici.... Se non è più permesso agli uomini di ricevere con fede e confidenza una dottrina vera e salutare, a maggiore ragione non si possono costringere ad ubbidire a comandi concernenti le loro persone fisiche e le loro azioni esterne; comandi che limitano sempre, dal più al meno, la loro libertà.... Se non devono più esistere né dottori né discepoli, né autorità né fede, perché dovrebbero esserci ancora a questo mondo dei padroni e dei servi, dei capi e dei gregari? Se nel campo spirituale e specialmente in materia religiosa, ogni individuo può considerarsi un maestro, e farla da pontefice a suo modo, perché non potrebbe considerarsi al tempo stesso sovrano nelle cose temporali, indipendente da ogni altrui comando? E se crediamo alla possibilità di rendere gli uomini perfettamente uguali, nel raziocinio e nella intelligenza, perché non sarebbero uguali anche nella potenza, nelle ricchezze, e in tutti gli altri doni della sorte?.... La naturale associazione delle idee doveva necessariamente condurre a questa conseguenza e si spiega pertanto che la lotta contro l'Altare e contro il Trono, contro la Chiesa e contro Io Stato, contro i sacerdoti e contro i re, si sia sempre svolta di pari passo: condotta simultaneamente dagli stessi uomini, in nome degli stessi principi".
I censori ugonotti non si erano ingannati: chi pensava e scriveva queste cose non era più dei loro col cuore e con la mente, anche se continuava in apparenza a praticare il culto riformato.

D'altra parte, a quell'anima diritta le situazioni equivoche non potevano piacere e l'Haller, pur negando di essersi già convertito in segreto, come da molti si andava ripetendo, lasciò capire che stava attraversando una profonda crisi di coscienza e ammise francamente di essere assai vicino a un passo decisivo. Intanto, per sottrarsi alle indiscrezioni e al brusio, venne in Italia per un lungo viaggio di studi che si protrasse oltre un anno, fino nel ‘19. Fu a Roma e subì il fascino augusto del Papato, assistette con animo devoto ai riti millenari della Chiesa latina, ebbe lunghi colloqui con dotti sacerdoti, pregò nelle basiliche e nei chiostri.... Vinti gli ultimi dubbi tornò a Berna e finalmente vi compì l'abiura il 17 ottobre del 1820, nell'oratorio privato del Vescovo di Friburgo, che salutò con gioia quell'illustre neofita.
È facile pensare lo scalpore che si levò nel campo protestante appena si diffuse la notizia di quanto era accaduto....
Pastori e demagoghi si diedero la mano andando a gara nel coprire d ingiurie il rinnovato e il venduto.

Ma l'Haller tenne testa alla bufera, e in una lunga lettera ai suoi cari, data alle stampe in Parigi, volle spiegare le cause della sua conversione. L'opuscolo, tradotto in varie lingue, si diffuse ben presto per tutta l'Europa. In esso lo scrittore dopo aver narrato le origini e le fasi dell'intima crisi che per più di due lustri aveva agitato il suo spirito, levava un inno al porto ritrovato e precisava e integrava la tesi già adombrata nei suoi libri, riaffermando la fondamentale esigenza di una concezione unitaria in religione e in politica.

Anzi, era stata proprio la politica che lo aveva condotto a odiare l'eresia: egli lo dichiarava francamente.
"La rivoluzione del XVI secolo, che noi chiamiamo la Riforma, è nel suo principio, nei suoi mezzi e nei suoi risultati, l'immagine perfetta e la foriera della rivoluzione politica dei nostri giorni, e la mia avversione per quest'ultima mi cagionò disgusto anche verso la prima".

Non a caso Rousseau, gran sacerdote del nuovo credo laico e sovversivo, era nato a Ginevra, la città di Calvino!....

Dopo questa solenne professione di fede, accadde quello che era inevitabile; l’Haller venne radiato dal Consiglio Sovrano, infeudato al partito anticattolico, e fu costretto di nuovo ad esiliarsi.
Si recò in Francia, accolto con favore dal Governo borbonico, e ottenne facilmente un posto di fiducia al Ministero degli Affari Esteri. Nella sua nuova patria poté liberamente occuparsi dei suoi studi sociali e filosofici e trovò negli ambienti ultramonarchici un folto stuolo di caldi ammiratori.
Ma la Rivoluzione del '30 che rovesciò per la seconda volta la Dinastia dei Gigli, ricondusse al potere i liberali e gli tolse l'impiego.
Tanto valeva che tornasse in Svizzera dove malgrado tutto contava amicizie fidate ed aveva la casa e i parenti.
Così fece difatti l’anno stesso e fu l'ultima tappa della sua lunga odissea.

Morì a Soleure nel 1854, dopo aver pubblicato altre due opere di argomento politico – storico, sempre ispirate ai principi autoritari e cattolici a cui restò fedele finché visse; una Storia della rivoluzione religiosa o della Riforma protestante nell’Elvezia occidentale, in parecchi volumi, data alle stampe nel 1838, e alcune Miscellanee di Diritto Pubblico e di Alta politica, nel 1840.