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Monaldo Leopardi
L'unità nella diversità delle culture locali

Il conte Monaldo Leopardi, nato a Recanati nel 1776, fu l'uomo di cultura di maggior spicco dello Stato Pontificio.
Egli mise a disposizione la sua prodigiosa erudizione — coltivata nella ricca biblioteca cui si fa cenno in tutte le antologie scolastiche, a proposito della vita del figlio Giacomo — nella lotta in difesa del Trono e dell'Altare.
Polemista brillante, uomo integerrimo e alieno da compromessi, ebbe non pochi dispiaceri, proprio dai rappresentanti dell'ordine costituito, in difesa dei quali combatteva la sua battaglia.
Lasciata l'amministrazione del patrimonio familiare alla moglie Adelaide degli Antici, alternò i suoi impegni di pubblicista al disbrigo di mansioni politiche di carattere locale e ad un'attività storiografica dì tipo annalistico, circoscritta alle vicende recanatesi. Morì nel 1847.
I passi qui raccolti sotto il titolo — di nostra scelta —
L'unità nella diversità delle culture locali, sono tratti dalla Autobiografia, da La Voce della Ragione, dai Dialoghetti, dal Catechismo filosofico.
Un’ eccellente biografia di Monaldo attende di trovare un editore.
Biografie e opere di Monaldo Leopardi nel Web:
1.
http://members.tripod.com/~davidbotti/monaldo.htm
2.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/personaggi/monaldo.htm 

Nascita
Nacqui al mezzogiorno il dì 16 agosto 1776 dal conte Giacomo Leopardi di Recanati e dalla marchesa Virginia Mosca di Pesare, e da essi nacquero pure successivamente Vito, Ferdinando ed Enea. Credo che l'infanzia mia niente offrisse di singolare, come non l'offre ordinariamente l'infanzia degli altri uomini; tuttavia il mio buon padre che morì nel 1781 avendo egli trentanove anni, ed io non più che quattro anni compiti, voleva pospormi nel suo testamento, chiamando il fratello Vito al maggiorascato della famiglia. I miei zii ne lo distolsero. Non so quale ragione poteva suggerirgli quel proponimento, ma credo che se viveva con me alcuni altri anni, non avria sentito vergogna di essermi padre. Egli avrebbe meglio diretta la mia gioventù, ed io quantunque abbia sbagliato non raramente, tutto assieme ho tenuta una condotta da galantuomo.

La lingua latina deve studiarsi
Se al tempo nostro non fosse contrario al buon gusto e al buon tono il parlare di Religione e specialmente di quella di Gesù Cristo, direi che la lingua latina, se non per altro, dovrebbe venire apprezzata sommamente, e coltivata diligentemente, perché è la lingua della Chiesa Cattolica. Di fatti non solo è dignitoso e conveniente assai che si conservi una lingua destinata espressamente a parlare con Dio ed a trattare delle cose divine, ma la conservazione di questa lingua nella sua purità e nella intelligenza di molti fedeli è indispensabile, perché la usarono i primi padri e i Canoni della Chiesa; perché alcune questioni e materie non sarebbero decentemente trattate in una lingua intesa dal volgo; perché nelle versioni dei sacri libri, fatte in lingua latina, trasfuse la provvidenza quella forza e quelle dolcezze che sarebbe vano di ricercare nelle versioni fatte in alcuna delle lingue volgari, e finalmente perché essendo la Religione Cattolica presieduta da un capo solo e diffusa in tutte le nazioni del mondo deve avere per necessità una lingua universale intera in tutte le parti, altrimenti le basi della Fede, le opere dei Padri, le dichiarazioni e gli ordini del Sacerdote supremo, tradotti successivamente dall'uno all'altro idioma, rimarrebbero corrotti ben presto, e non si manterrebbero in quella unità e purità nella quale appunto li conserva, parlando umanamente, la unità della lingua di cui si serve la Chiesa.

Danni che reca l'abbandono della lingua latina
Coloro che hanno cercato di screditare lo studio della lingua latina o per voglia rabbiosa di novità, o perché intendevano di recare astutissimamente larga ferita alla religione cristiana, hanno sentito il vuoto che lasciavano in tutto l'ordine sociale, ed hanno pensato al compenso fantasticando da più anni intorno al progetto di una lingua universale. La cosa come ognun vede riuscirà facilissimamente, essendo impresa da nulla il concordare mille milioni di uomini che stanno sopra la terra e il persuaderli a consumare il tempo e l'ingegno per imparare quattro sberleffi inventati da un Filosofo Pulcinella di Italia, di Germania, o di Francia, e dopoché questo Pulcinella Filosofo avrà composto il suo alfabeto geroglifico, e trovato nei campi della luna le radici della nuova lingua, immaginati i nomi e verbi e tutte le altre parti della orazione, stese le regole e i precetti grammaticali, compilato il dizionario di tutte le parole cavate dal suo cervello, istituite centomila stamperie perché riempiano il mondo di nuovi scritti; dopoché in una ventina di secoli futuri i Ciceroni, gli Orazi, i Sallustii della nuova lingua ne avranno proposti i modelli nei capi d'opera rispettivi, e tutte le biblioteche saranno piene di libri scritti in questa lingua astratta, e tutti i fanciulli dell'universo in luogo di annoiarsi con il, lo, la, si annoieranno con le nuove filosofiche tiritere, quale sarà il risultato di tutto questo travaglio chimico, e veramente pulcinellesco? Forse verrà smentito il decreto di Dio che confuse la favella degli uomini per umiliare la superbia loro e per altri fini imperscrutabili della sua sapientissima provvidenza? No, signor Filosofo mio, no. Il decreto di Dio resterà in vigore, con vostra buona licenza; gli uomini intenderanno e parleranno soltanto la lingua della propria nazione, e se vorranno intendere e parlare altre lingue dovranno travagliare a studiarle, perché al mondo chi non fatica, non mangia, e molto meno si acquista verun genere di dottrina. Se dunque per imparare la nuova lingua, volere o non volere, bisognerà studiarla e passare a marcio dispetto per le strette grammaticali, siamo là dove ci tiene adesso la lingua latina, e il distruggere questa lingua di oggi e universale, che moltissimi sanno, che ha venticinque secoli di anzianità, che vanta tanti modelli di perfezione, e nella quale sono scritti tanti milioni e milioni di libri, per correre dietro ad un'altra lingua universale che ancora non è inventata, che però nessuno conosce, e che non ha ne' un modello ne' un libro buono o cattivo, sarebbe un accesso maniaco come quello di chi avendo un palazzo vasto, bello, ben fabbricato e fornito di mobili e di ogni comodità, abbruciasse tutto per fabbricarne un altro simile senza avere una piccola pietra con cui cominciare il nuovo edifizio.

Il vestiario deve distinguere
Per riscuotere un rispetto vero, generale e costante ci vogliono talenti e condotta; ma è incredibile quanto concorra un vestiario dignitoso a conciliare il rispetto di quelli con i quali si tratta. Negli anni della Repubblica i soldati francesi ed italiani, furenti per la uguaglianza, e i plebei del paese innalzati alle dignità municipali e più furenti di quelli, mi rispettarono costantemente [...]. Vestitevi con dignità, accompagnatevi con pochi, salutate tutti cortesemente, date qualche soldo in elemosina, e sarete rispettati assai e sempre, se non vorrete commettere a bella posta azioni capaci di meritarvi disprezzo.
Coloro che hanno immaginato di sconvolgere gli ordini delle società e di rovesciare le istituzioni più utili e rispettate hanno incominciato dall'eguagliare il vestiario di tutti i ceti, raccomandando la causa loro alla moda. [...] Non più distinzioni, non più ranghi, non più ordini di società; ma uguaglianza di tutti in tutto, e promiscuità di tratto, di educazione, di matrimoni, di massime e di viltà [Da: Autobiografia].

* * *

Ma secondo la libertà moderna e secondo il progresso dei lumi, l'uomo veramente libero deve essere sempre accompagnato dai segni e controsegni della bolletta di libera circolazione come le merci uscite dalla dogana, deve essere sempre sorvegliato e spioneggiato come i ladri dimessi dalla galera, e deve somministrare ogni anno figli e nipoti ai bisogni e all'appetito della patria, come il pollaio somministra pulcini e uova per la tavola del padrone [da: La Voce della Ragione].

Tolto agli assodamenti municipali ogni senso e movimento di vita, ridotte tutte le città ad essere non più suddite del monarca, ma satelliti delle centrali, e serve della capitale, e obbligati tutti popoli di uno stato a non avere il respiro se non viene il fiato delle metropoli; le occorrenze le più triviali dei più oscuri villaggi si sono convenite in affari di stato, l'intrigo e il monopolio hanno incettato tutti i bisogni e tutti desideri dei popoli, il ministero è diventato un'armata o piuttosto un popolo più numeroso del popolo, il salario degli impiegati si è fatto una voragine in cui vanno a sprofondare tutte le sostanze della nazione, gli uomini si sono trovati abitatori e non più cittadini delle proprie terre, e i principati centralizzando tutta la vitalità dei loro popoli, hanno animato un gigante bisbetico e minaccioso che non intende ragione, si ride della forza, e si trastulla con le scheggio dei troni e con le teste dei re. Noi non sappiamo se questa concentrazione fu un errore della politica, la quale credè di nobilitare la reggia, demolendo tutti i partimenti dell'edificio sociale, ovvero fu l'opera insidiosa della perfida, la quale volendo che si rompesse il freno del potere sovrano, consigliò di tirarlo fuori di misura [Da: La Voce della Ragione].

Voi, o principi, per zelo mal inteso della sovranità, avere levato alle comunioni tutti i loro privilegi, tutti i loro diritti, tutte le loro franchigie e libertà, e avete concentrato nel governo ogni filo di potere, ogni moto e ogni spiro di vita. Con questo avete reso gli uomini stranieri nella propria terra, abitatori e non più cittadini delle loro città, e dalla abolizione dello spirito patrio è insorto lo spirito nazionale, il quale ha ingigantito gli orgogli e i progetti dei popoli. Distrutti gli interessi privati di tutti i municipi, avete formato di tutte le volontà una massa sola, la quale deve muoversi tutta con una sola tendenza, ed ora vi trovate insufficienti a reprimere il moto di quella mole terribile e smisurata [Da: Dialoghetti].

Divide et impera, dividete popolo da popolo, città da città, lasciando ad ognuna i suoi interessi, i suoi statuti, i suoi privilegi, i suoi diritti e le sue franchigie. Fate che i cittadini si persuadano di essere qualche cosa in casa loro, permettete che il popolo si diverta coi trastulli innocenti dei maneggi, delle ambizioni e delle gare municipali, fate risorgere lo spirito patrio con la emancipazione delle comuni, e il fantasma dello spirito nazionale non sarà più il demonio ubriacatore di tutte le menti [Da: Dialoghetti] (nota 1).

Alleatevi di buona fede al Sacerdozio, e senza mettervi sotto i suoi piedi, cedetegli la mano perché voi siete i primogeniti della Chiesa, ma siete i figlioli della Chiesa... Ristabilite le pietre dell'Altare, e la solidità dell'Altare sarà la fermezza dei vostri Troni [Da: Dialoghetti].

Trattando dell'Italia nessuno le augurerà quei giorni nei quali tutto il suo popolo era uno schiavo solo incantenato ai piedi del senato e della plebe di Roma, e nessuno ardirà sostenere che nei secoli successivi la moltitudine dei suoi stati le abbia vietato di essere il suolo delle scienze e delle ricchezze, della prosperità e della gloria e non vi è ragione perché gli Italiani si graffino il volto, accorgendosi che la loro casa è divisa in più camere e non consiste in un solo salone [Da: Catechismo filosofico].

La nazione nella quale viviamo, propriamente parlando, non può chiamarsi la nostra patria, perché coi nazionali stranieri non abbiamo comunità di interessi, di istituzioni, di leggi, e non siamo legati con essi da quasi nessuno di quei vincoli e di quei rapporti che stringono fra di loro i cittadini di una medesima patria [Da: Catechismo filosofico].

L'indipendenza italiana consiste in questo — secondo i liberali — che l'Italia non dipenda da un principe e da un governo straniero. Per tutti gli stati che formano tre quarti d'Italia, la indipendenza italiana è bell'e fatta, gli abitatori di queste provincie la godono per lungo e per largo, senza bisogno di andarla cercando. Per il restante, cioè per i domini austriaci, credete voi che per le provincie di una nazione sia veramente una calamità il dominio di un principe straniero, e parlando delle provincie italiane soggette alla dominazione austriaca, credete voi che i monarchi della Casa d'Austria siano antropofagi, e mangino per pranzo e per cena i loro sudditi veneziani e lombardi? [Da: Catechismo filosofico ].

E similmente è d'uopo ravvisare che la indipendenza dell'Italia immaginata dalla filosofia e desiderata da tanti sconsiderati Italiani, non è un diritto degli Italiani, non è necessaria al buono stato dell'Italia, ed è solamente una parola cabalistica proferita dai furbi e dai perfidi per mettere sottosopra l'Italia con tutti gli Italiani [Da: Catechismo filosofico ].

 

 

NOTE

1 Cfr. anche Li politicati di Odoardo Nampelli, in Alessandro Avoli, Appendice all'Autobiografia, cit. pag. 107: " Togliamo ai fanciulli li loro balocchi, si daranno a spezzare le stoviglie e i mobili della casa. Li popoli sono sempre fanciulli et li bisognano di loro trastulli. Togliamo ad essi le privilegia, li statuti, le gare, li diritti, et le libertà di comunali, darannosi a sconquassare le cose dello Stato".