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Giuseppe De Maistre, la forma di governo

 

 

GIUSEPPE de Maistre è il più giustamente famoso fra gli scrittori cattolici ultramontani; il più spesso citato e tradotto, e nello stesso tempo il più odiato dagli assertori del liberalismo e dagli pseudo cattolici di marca tolstoiana, democristiani et similia... Ma, nonostante gli attacchi, i travestimenti, le confutazioni e le accuse, il suo pensiero, che domina le generazioni ed i secoli, continua a risplendere, con la chiarezza di un faro, sui torbidi marosi dell’Errore.

Avversario inesorabile e costante dell'ideologia rivoluzionaria, fornito di vastissima, multiforme cultura, egli scrisse moltissimo su argomenti politici, storici, religiosi e morali. Mai doti più brillanti di scrittore furono poste al servizio di una causa migliore: le armi che gli avversari dell’ordine, sociale e religioso, hanno saputo usare con infausta perizia, egli le ha tutte in pugno e le adopera con lo stesso vigore. È, volta a volta, ironico, sarcastico ed arguto al modo di Voltaire, appassionato e lirico non meno di Rousseau; ma non si lascia mai prendere la mano dall'immaginazione, sottoposto com'è alla rigorosa disciplina mentale, all'intimo controllo dello spirito, che solo Roma sa insegnare ai suoi. A noi Italiani poi dovrebbe esser carissimo: e non solo per questa sua romanità così profonda, tutta di un pezzo, senza attenuazioni, che già di per sé stessa lo fa vicino a noi....

Suddito e servitore della monarchia sarda, il grande savoiardo è un po' una gloria nostra, malgrado il nome gallico e la lingua in cui scrisse. Fino alla prima metà dell'800 anche la nobiltà piemontese, quando non si serviva del dialetto, parlava e scriveva abitualmente il francese ch'era la lingua di Corte; lo stesso Re Carlo Alberto, nella sua corrispondenza privata e nelle conversazioni con gli intimi usava quasi sempre l'idioma di Molière....

Eppure nessuno vorrà dubitare dei sentimenti fieramente italici dei Principi Sabaudi e dei loro fedeli, tutt'altro che teneri verso i cugini d'oltralpe!....

Ed accade lo stesso, anche ai dì nostri, coi buoni montanari valdostani, certo a nessuno secondi nella incrollabile devozione dinastica e nell'amore ardente per la patria italiana....

Così il Conte de Maistre — suddito sardo e quindi politicamente italiano — scrivendo per l'Europa libri di propaganda, ricorreva alla lingua più intesa e più diffusa; ma che per suo conto egli non si sentisse francese, risulta espresso molto chiaramente in una protesta rivolta alle autorità usurpatrici che si erano insediate in Savoia e volevano imporle, all’ombra delle picche, i benefìci della libertà giacobina.
"Domando la giustizia. La si deve anche al nemico. Lungi dal volermi far passare per quello che non sono, mi faccio anzi un dovere di dichiarare che nessuno forse ha odiato più di me la Rivoluzione francese e ne ha meglio date le prove. Domando di essere radiato dalla lista degli emigrati, come straniero, non essendo mai stato francese, non essendolo e non volendolo mai essere; e quando anche ci si ostinasse a considerarmi tale, pur non potendo impedire al Governo francese di volere ciò che vuole, io persisto a richiedere la mia radiazione.... ".
E "questo sia suggel", per chi si ostina a mettere de Maistre fra le glorie esclusivamente francesi.... Per metà almeno è nostro, e va rivendicato.

* * *

Nato a Chambery nel 1753, il Conte Giuseppe Maria de Maistre studiò legge all'Università di Torino ed occupò alte cariche di toga in Piemonte e in Savoia, finché nel 1793, l'invasione non lo costrinse a rifugiarsi a Losanna, dove pubblicò i suoi primi scritti politici; la Lettere di un monarchico savoiardo ai suoi compatrioti e le Considerazioni sulla Rivoluzione francese, con cui prendeva netta posizione contro l'ideologia repubblicana, pur facendo una critica severa degli errori e dei mali dell'Antico Regime.

Ben presto anche la Svizzera cadde in mano ai Francesi ed egli allora si recò in Sardegna dove la Corte si era ritirata. Il Re Vittorio Emanuele I, dall'asilo sicuro dell'isola fedele, continuava ad agire da sovrano e teneva ministri accreditati in quasi tutte le capitali d'Europa. Il conte de Maistre fu tra questi e dovette recarsi a Pietroburgo, dove, isolato, senza istruzioni precise, con un appannaggio irrisorio, seppe tuttavia tutelare gelosamente il prestigio della dinastia sarda, presso i Ministri e la Corte dell'Imperatore Alessandro. La sua cultura, il suo ingegno, il suo carattere si imponevano ovunque.

Non che a tutti piacessero la sua libertà di giudizio, il suo disdegno per le idee correnti, la grande indipendenza di certi suoi atteggiamenti.... Le critiche severe che non risparmiava neppure agli uomini e alle cose del suo campo; le aspre rampogne che a voce e per iscritto lanciava spesso contro la debolezza e la fatuità imperdonabili delle classi dirigenti francesi prima e durante la Rivoluzione, erano causa di scandalo per gli spiriti gretti ai quali l'esperienza non aveva nulla insegnato.

Ai conservatori di corta veduta che del passato rimpiangevano solo la vita facile ed i privilegi perduti, — e qualche volta agli stessi consiglieri del vecchio Re di Sardegna, — il più grande nemico della Rivoluzione, colui che ne aveva scorto il volto vero, e ne aveva previsto gli ulteriori sviluppi, e additava i rimedi necessari, sembrava una Cassandra querula ed importuna, o addirittura un mezzo giacobino....

Tuttavia quando il Trono di Piemonte appartenne di nuovo al suo Signore, anche il Conte de Maistre, tornato in patria, non fu dimenticato. Nel 1817 il Re Vittorio Emanuele I, in ricompensa dei servigi resi, lo nominò Presidente della Suprema Corte di Giustizia.

Aveva messo a frutto gli anni trascorsi in Russia,, preparando due libri magistrali: quello Del Papa, grandiosa apologia del Cattolicesimo romano, in cui sosteneva la supremazia della Chiesa sui poteri civili e la dottrina, allora controversa, dell'infallibilità pontificia; e l'altro famoso delle Soirèes de St. Petersbourg: due volumi di dialoghi filosofici e storici sopra "il governo temporale della Provvidenza". Fra le sue opere minori si devono ricordare uno scritto polemico sopra il Gallicanesimo, da lui vivamente combattuto, ed un Esame critico della filosofia di Bacone, forse troppo severo. Interessanti sono le sue Lettere inedite e la sua Corrispondenza diplomatica, insieme ad altri saggi e opuscoli politici, raccolti e pubblicati in Francia ed in Italia, molti anni dopo la morte dell'autore, avvenuta a Torino il 26 febbraio del 1821.

L'idea fondamentale del Maestro sta tutta in una formula che coincide perfettamente con la dottrina nazionalista moderna:
"Data la popolazione, i costumi, la religione, la posizione geografica, le relazioni politiche, le buone e cattive qualità, di una nazione, si tratta di trovare gli ordinamenti che le convengono".
"L'errore della scuola liberale - democratica o giusnaturalistica - risiede appunto nella pretesa assurda di stabilire una volta per sempre, sub specie aeternitatis, quale sia la "migliore forma di governo", e di volerla applicare ad ogni costo e in ogni luogo, come una panacea universale.
Per questa specie di taumaturgi laici, le differenze di razze, di civiltà e di tradizioni non contano.
Il governo parlamentare, istituzione prettamente anglo-sassone, ha fatto buona prova in Inghilterra.... Andrà benone in Francia, in Italia, in Spagna, e magari in Lapponia o fra i Niam-Niam! Tutto in virtù degli "Immortali Principii"....

Ma procediamo nelle citazioni.
"È un errore il credere che una costituzione sia un'opera dello spirito come un'ode o una tragedia".
"Più la ragione umana si rinchiude in se stessa, più si sforza di trovare in sé tutti i suoi mezzi, più si rivela assurda ed impotente. Ecco perché quella che si chiama la filosofia è sempre stata in tutti i secoli, il più gran flagello dell'Universo".
E come la scienza politica non è il prodotto della ragione pura, così la sovranità non deriva da una volontà espressa.
"L'uomo essendo necessariamente associato, e necessariamente governato, la sua volontà non influisce per nulla nello stabilire il governo".
Dunque "i Sovrani non esistono per grazia dei popoli", ma sono imposti dalla Storia e da Dio. Ma in quale modo otterranno l'obbedienza? Con "l’impero dei dogmi nazionali".
"L'uomo dalla culla deve essere circondato da dogmi, e quando la sua ragione si sveglia, bisogna che trovi tutte le sue opinioni già fatte, almeno per quello che riguarda la sua condotta. Non vi è nulla di più importante dei pregiudizi".
Per "pregiudizio" qui bisogna intendere il frutto della esperienza secolare, che l'uomo accetta senza discussione.
È il principio antitetico alla teoria liberale che sottopone ogni cosa al controllo e al giudizio della ragione individuale, e che arriva ad escludere il catechismo dall'insegnamento "per non violentare la coscienza del fanciullo"!
Dal concetto suesposto della sovranità e dell'obbedienza sorge la negazione della "legge scritta", come sola guida dei popoli, altra idea fissa di tutti i democratici.
"Se è vero che la legge scritta è tutto, quale legge ci ordinerà di ubbidirle?".
"Scrivere una legge — dice Demostene — non basta : si tratta di farla valere".
Nessun codice potrà mai prevedere tutti i casi possibili: bisogna quindi che l'arbitrio sovrano intervenga a colmare le lacune, provvedendo secondo la necessità del momento.
E’ il motivo che domina in De Maistre: la pratica vale più della teoria.
Nulla è più sterile del "mandarinismo".
"Se vi è una cosa certa a questo mondo, essa è, a mio credere, che non spetta affatto alla scienza il compito di guidare gli uomini. Ad essa non è affidato nulla di quanto è veramente necessario. Bisognerebbe essere pazzi per credere che Dio abbia incaricato le accademie d'insegnarci ciò che Egli è, e ciò che Gli dobbiamo. Tocca ai prelati, ai nobili, ai grandi servitori dello Stato, l'essere depositari e custodi delle verità tradizionali, od insegnare ai popoli ciò che è male e ciò che è bene; ciò che è vero e ciò che è falso, nell'ordine morale e spirituale. Gli altri non hanno voce in capitolo: hanno le scienze naturali per passare il tempo: di che si lamentano?... "

"Quanto a chi parla o scrive per togliere al popolo un dogma nazionale, meriterebbe di essere impiccato come un ladro domestico! Perfino Rousseau ne convenne, senza pensare che ciò si poteva applicare anche a lui. Perché si è commessa l'imprudenza di accordare la parola a tutti quanti?..."
"È quel che ci ha perduti. I cosiddetti filosofi hanno tutti un certo orgoglio aspro e ribelle che non è mai contento di nulla: detestano senza eccezione, tutte le distinzioni delle quali non godono; non vi è autorità che rispettino, non vi e niente sopra di loro che non odino. Lasciateli fare e assaliranno tutto. Anche Dio, perché è un padrone. Vedete: sono gli stessi che hanno scritto contro i monarchi e contro colui che li ha istituiti!..."

La politica di Giuseppe De Maistre — bestia nera di tutti i modernisti — è perfettamente conforme ai dettami del cattolicesimo più ortodosso.
Si basa sulla fede nella Provvidenza, cioè nell'esistenza di un fine generale e di finalità particolari a cui tendono le azioni degli uomini. Il bene "vuol essere" e tende continuamente a realizzarsi. Quindi i "meglio intenzionati", sono in definitiva i più abili. Hanno per sé "la natura, il tempo, le circostanze, cioè Dio".

Profondamente religioso. De Maistre tuttavia sa distinguere tra morale religiosa e morale politica. Non ignora i diritti della "ragion di Stato".
Raccontano che un cortigiano domandasse al Re Sole un'alta carica per un suo fratello, — Ma — rispose il Sovrano — vostro fratello è giansenista. — Mio fratello è ateo, Maestà! — Ah, è differente! — E il posto fu accordato.
"Luigi XIV aveva ragione — commenta De Maistre — Era differente infatti: l’ateo doveva essere dannato, e il giansenista cadere in disgrazia. Un Re non giudica come un confessore".
Lo stesso spirito positivo e realistico troviamo espresso efficacemente anche altrove: "Bisogna ricordarsi di giudicare le istituzioni politiche solo nei loro effetti, mai nelle cause che non significano nulla".