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Antonio Capace Minutolo
Autodifesa di un legittimista scomodo

Nato a Napoli nel 1768, Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, compie severi studi di filosofia al Collegio Nazareno di Roma. Intraprende quindi la carriera forense. Nella sua qualità di esponente primo della Deputazione, esordisce in politica in momenti calamitosi per i Borboni, rifugiatisi in Sicilia, dopo la sconfitta subita ad opera dei francesi. Senza mai venir meno al più schietto lealismo, è tra i più accesi fautori dell'idea organica dello Stato, lontano da ogni servilismo nei confronti del sovrano e da ogni soperchieria nei confronti del popolo.
Per difendere l'autorità legittima, accetta di ricoprire l'ingrata carica di Ministro di Polizia. La sua intransigenza nei confronti di Massoni e Liberali, lo mette in cattiva luce presso gli stessi circoli politici legittimisti. E' costretto a lasciare incarichi di governo a Napoli; compie viaggi in tutta Italia, stringendo rapporti con esponenti della cultura e della politica di parte controrivoluzionaria. E' fra i più attivi divulgatori delle idee reazionarie, e collabora alle più prestigiose pubblicazioni che allora le propugnavano (La Voce dalla Ragione, L'Amico della Gioventù, La Voce della Verità, etc.). Per due volte, l'Austria stronca due suoi tentativi di costituire corpi di volontari armati contro la rivoluzione, nel Ducato di Modena e negli Stati Pontifici (1836). Stabilitosi a Pesaro e allontanatesi definitivamente dalla politica, muore nel 1838.
I passi che seguono, raccolti sotto il titolo — di nostra scelta — Autodifesa di un legittimista "scomodo", sono tratti dalla Epistola, ovvero Riflessioni critiche sulla moderna "Storia del reame di Napoli" del Generale Pietro Colletta (1834).
Il principe di Canosa nel Web:
1. http://www.kattoliko.it/leggendanera/personaggi/minutolo.htm
2.
http://www.antoniocapeceminutolo.it
3.
http://www.icapeceminutolo.it/antonio.html
4.
http://lnx.theseuslibri.it/product.asp?Id=800
5.
http://utenti.lycos.it/Corneliu/c222_a10.htm

***

Sono plebeo per genio perché sono cattolico romano per convincimento. Non ho mai corbellato il popolo dandogli ad intendere (come praticano, per ingannarlo, i demagoghi) che esso era il sovrano di diritto; che potea far tutto ciò che gli gradiva, che sarebbe stato ricco ed eguale a' più gran signori dopo la rivoluzione, con tutte quelle altre minchionature ed inganni, che verso il popolo usano i falsi liberali: l'ho per altro amato di cuore; l'ho soccorso quando ho potuto, e con tutti quei mezzi che poteano essere alla mia disposizione.

Egli dice (ha inizio qui una delle feroci tirate con cui il Canosa, nel libro da cui abbiamo tratto queste pagine, intende confutare le accuse calunniose mossegli dal Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli, N.d.C.) che venne a me promesso il ministero di polizia nel caso fosse stato Napoli nuovamente del legittimo Re. Dunque ignorava il somaraccio che il Re Ferdinando IV pieno di buon senso, non volea sapere nulla delle novità rivoluzionarie, ed era in quell'epoca nella piena risoluzione di tutto volere restituire ad pristinum? Troppo inoltre conoscendo l'ottimo Ferdinando quale, pel pubblico, molestissimo magistrato era quello della polizia (se non cade in mano di un angelo incarnato) era di lui pensiero in Sicilia non volerlo in Napoli installare, ma fare che le cose rimanessero com'erano prima che da Napoli si partisse, quando comandava il Duca d'Ascoli.

Argomento tortissimo di quanto asserisco è che in Sicilia trovandosi il Re, e correndo tempi pericolosissimi (i francesi in Napoli, gl'inglesi e giacobini in Sicilia e molti tra finti emigrati ancora), non volle ciò non ostante mai decidersi tormentare i sudditi suoi colla pesante, molestissima istituzione della polizia. Lasciò quindi i capitani come si trovavano, ciascuno comandando il dipartimento proprio per quanto quell'antica istituzione sicula fosse alquanto imperfetta.

Ferdinando IV, ripeterò mille volte, pieno di buon senso, era tanto avverso alle rivoluzionarie novità, e tanto ne conoscea l'interno male, ed i pessimi risultamenti per la monarchia legittima (e di fatto tutto era istituito per la repubblica e le monarchie militari rivoluzionarie), che, con saggio avvedimento e con fina politica, fece brugiare per mano del carnefice pagina per pagina, quel codice napoleonico, che in taluni regni legittimi trovasi in pieno vigore, o perché taluni che governano sono ignoranti, ovvero perché, nel servire in apparenza la legittimità, cercano in sostanza servire la rivoluzione. Dunque l'idea di eleggere un ministero di polizia non entrò in capo giammai a Ferdinando IV, quindi potea molto meno prometterlo al Principe di Canosa.

Più io fui sempre, per grazia di Dio, un galantuomo. Le calunnie, il convocio, gli schiamazzi de' falsi liberali contro me non saranno mai capaci di altro che di rendere più gigantesca la mia opinione, non che presso i legittimisti, ma presso gl'indifferenti, ed i veri liberali che mi rendono giustizia abbenché di sentimenti diversi. Se dunque io sono un galantuomo, e se nessuno mi nega qualche talento e perspicacia, può credermi quando dico, che, conoscendo che il ministero di polizia, non essere mestiere di galantuomo non lo avrei desiderato giammai ne' accettato tampoco.

Reduce dalle Spagne lo accettai, ma perché supposi che se non avrei potuto fare il bene, avrei impedito molti mali: fino in fatti da Milano, trovandomi nel teatro della Scala reduce dalla Spagna nel 1815, sentendo leggere certe gazzette, mi avvidi delle trame de' rivoluzionarii, i quali, colla pelle dell'agnello sul dorso, stavano organizzando una nuova rivoluzione che non era conosciuta che dagli uomini di sopraffino intendimento. Da quell'istante in poi me ne confermai sempre più, e lo andava ripetendo al Re tanto che al marchese di Circello. Mi guardava dirlo soltanto a Medici e Tommasi, come mi guarderei leggere un pezzo di Vangelo al Muftì in Marocco, giacché la mia lettura sarebbe inutile per convertirlo, e sicura per farmi impalare.

Per tale ragione dunque soltanto accettai una carica, la quale se sapea disimpegnarla, se ne avvide per tre anni Saliceti, ma mi era assolutamente antipatica, e non per il mio modo di pensare.

Io immaginava poter impedire una nuova rivoluzione nel mio paese che vedeva nascere, e pargoleggiare fra tutti quegli asini liberali, e quindi salvare la patria mia da quel flagello straniero, che puranco prevedeva.

E ci sarei riuscito felicissimamente, se tutti gli strumenti dell'orchestra suonato avessero d'accordo. Come però andare innanzi con Medici e Tommasi, puerilmente invasati di filosofia, d'illuminismo, di novità, che supponevano che per chiudere le piaghe non eravi rimedio più adatto delle cantaridi e butirro d'antimonio!!!

Il Re Ferdinando era ottimo, e il buon senso di lui lo facea essere tutto d'accordo con me. Egli però mi conoscea poco, mentre avea ogni fiducia e tutta l'opinione in que' due defunti scimmioni ricamati.

Non aveva per me che l'ottimo signor marchese di Circello. Ciò che vedeva io, esso pure vedeva; che se quel signore non erasi consumato sopra i libri, aveva però una grande esperienza, ed una pratica di mondo estesa e profonda, si potea dire di lui ciò che di Platone dicea il Dottore Africano: Rem vidit causam nescivit. Come que' medici di buon senso che hanno studiato poco, e veduti molti ammalati, il prognostico di lui era sicuro. Per il maggior vantaggio per la causa della legittimità, il marchese di Circello era conosciuto e ben veduto dal Re N. S. Uniti dunque si potea fare moltissimo (quante volte tali discorsi con quel venerando patrizio si fecero nel 1821!): come tirare innanzi però quando al marchese mancava ciò che si chiama vigore!! Ecco perciò che spesso rimanea solo esposto al fuoco granellato ed alle mine (iacobinico more) de' due RR. PP. della Patria de Medici e Tommasi che avevano preso tutto l'ascendente sopra l'ottimo monarca!

Vedendo io dunque che la rivoluzione progrediva, e che io non avendo forze da impedirla, andava a fare la figura o dell'asino o del traditore (dopo aver tutto rassegnato a S. M. per ben tre volte in iscritto, e molte più a voce non curando essere chiamato fanatico, testa calda, allarmista) non volendo, dicea, farmi rompere il bicchiere nelle mani rinunciai una carica che, ripeto, sapea disimpegnarla, ma mi era antipatica.

Che se taluno volesse in me trovar contraddizione tra quello che scrivo e ciò che ho operato, mirando che io nel 1821 cedei agli ordini del Re mio signore in Firenze che volle che io la carica riassumessi di ministro di polizia, dirò che lo stesso fine del bene del mio paese mi fece fare quel secondo sagrificio. Mirava la necessità d'introdurre uomini voracissimi nella mia povera patria!! Mi figurava farceli stare poco. Questo pensiero manifestato, rovinò tutti i miei patriottici disegni.

Non può esservi più grave errore di quello generalmente adottato da molti moderni politici, quello cioè di credere che gli uomini veramente tristi, come sono i settari e falsi liberali, in seguito di misure che loro dispiacciono possono diventare maggiormente nemici del governo. Questo errore nasce dalla crassa ignoranza, in cui gli uomini della nostra età sono delle scienze morali. Conciossiacché gli etici filosofi insegnano che quando l'uomo è arrivato ad un certo grado di passione, non può andare più oltre. Ciò che solo può accadere è che gli uomini perversi del movimento o per timore o per accresciuta irritazione possono un mese una settimana prima far ciò che avevano prefisso e stabilito fare dopo l'elasso di altro tempo. Ma non saranno taluni politici atti a comprendere che ciò, anziché male, è un vero e positivo bene? Tutto ciò che è immaturo deve avere un esito infelice. E in vero perché le rivoluzioni hanno fatto sempre fiasco? Per la sola ragione che i somari settarii si sono affrettati sempre.

Ancora calunnioso lo storico (si parla ancora, ovviamente, di Pietro Colletta N.d.C.) viene dimostrato dal conosciuto sistema del Principe di Canosa. Che la sovrana liberalesca canaglia lo voglia accreditare come feroce va benissimo. Ciò conviene alle mire delle sette; che lo stesso proclamino tutti quei sciocconi (anche non rivoluzionarii) i quali, senza causa di scienza, ripetono ciò che hanno sentito proclamare; pazienza, ciò è nella natura imperfettissima del volgo: che voglia sostenersi sul serio che io sia feroce, che abbia fatto correre il sangue a rivi; che abbia spente mille vite come dice il buffone Colletta è la maggiore di tutte le menzogne, smentita da tutti i fatti. Ma non che il mio temperamento mi fa essere nemico fisicamente del sangue (ariserba de' momenti di escandescenza) ma i miei studi mi hanno convinto e persuaso, che lo spargimento del sangue non è rimedio indicato per le infermità di opinioni. Il sangue fa i martiri; e gli esilii rendono i rivoluzionari più pericolosi, perché li trasmutano in apostoli del partito. "Trajanus cum videret Christianissimum per tormenta augeri noluit alterius in Cristianos inquiri" disse Plinio nel suo panegirico a Trajano. Dunque io per carattere morale e fisico per istudii fatti sulla materia e per lunga esperienza, anziché ferocissimo, come dicono gli asini liberali sono stato invece sempre indulgentissimo.

La massima delle pene alla quale si possono e si devono assoggettare i delinquenti per opinioni criminose, dev'essere il disprezzo ed il ridicolo, in cui si devono far cadere in tutti modi. Ciò poi che conduce le trame rivoluzionarie ad una perfetta paralisi; il rimedio vero che non avrebbe fatto parlare più di rivoluzioni è quello di togliere a tutti i dilettanti e professori e mercadanti di rivolte ed opinioni, ogni influenza civile. Il germe della ribellione sbucciò più rigoglioso dopo la restaurazione, perché si lasciò ai rivoluzionarii tutta l'antica influenza nello stato civile, superiore di molto a quelle che aver potessero i legittimisti e gli uomini leali e di onore. L'influenza dunque da un lato; il nullo timore di pena dall'altro (nel caso andasse fallito il colpo, per la conosciuta stazionaria teoria dell'obblio ed amnistia) fece venire il prurito di nuove rivoluzioni; e loro si rese facile concertarle e portarle innanzi per quella grande influenza lasciata a falsi liberali, non che i grandi mezzi che aveano per nudrirle e farle progredire, mentre gli uomini attaccati all'altare ed alla legittimità non erano nella debita proporzione muniti di mezzi per fare loro la guerra di contromine.

Di me potrebbe dirsi come l'abate Proyart disse di Luigi XVI. Detronizzato prima di ascendere al trono. Né a me (che li conosco assai) isfuggirono le trame fino da che venni da Pisa chiamato dal fu Ferdinando in Firenze. Le conobbi benissimo e tutto dissi a D. Alvaro Ruffo, raccomandando al lupo la conservazione delle pecore. Siccome però a me non importava punto rimanere Ministro di Polizia (carica come dissi sempre a me antipatica) così non reagii punto, ed ogni reazione sarebbe stata ancora inutile. Molti difatti devono come e quanto me conoscere l'indole, la forza, l'influenza delle società segrete, e questi godere la piena fiducia de' Monarchi, a' quali spettava paralizzarla.

Tremò la Massoneria al primo sentirmi eletto Ministro della Polizia in Napoli. Fece tutti i suoi sforzi per impedire una tale scelta. Essa però si trovò impotente e frastornata.

Spaventava maggiormente i massoni il mio dimostrato carattere. Essi non ignoravano le seduzioni che avea avute da Saliceti, da Giuseppe Bonaparte e da Gioacomino. Più che ogni altro essi vennero atterriti dal ritornare che feci in Sant'Elmo, quando mandato ambasciatore dei francesi all'ammiraglio Nelson, dopo aver perorato contro l'oggetto della mia missione, ritornai tra quei nemici che mi avevano anticipatamente condannato alla morte. Questo tratto di buona fede in un'età tanto disonorata e corrotta, colpito aveva ancora i miei nemici, per cui i veri liberali moltissimo mi rispettavano. Cosa poter sperare da uomo di tale pasta? dicea in Firenze un reverendissimo tuttora (ai ciechi) invisibile!!

I Pifferi della Montagna, ch'erano comparsi tre mesi prima della ribellione del 1820 aveano reso la mia riputazione troppo colossale, mentre veniva riguardato come un Profeta, ed uno de' pochissimi (ed era troppo vero, se mi avessero fatto agire liberamente). Ogni discorso dunque che veniva introdotto contre me veniva respinto come un parlare di persona sospetta. Per poche settimane divenni l'uomo di moda, e da tutti (coloro che non partecipavano ai segreti massonici) riguardato con il maggior rispetto: Ecco dunque che non poterono punto frastornare il mio novello inalzamento.

Trattare debitamente un tale argomento non è di questo luogo né del presente momento. Serviranno questi pochi cenni per avvertire gli uomini che hanno perduto ogni sinderesi; e spensierati né del passato si rammentano, e vivono come non andassero incontro ad uno spaventoso futuro, che sopra questa terra permette Iddio che esiste un Uomo, il quale può contro essi anticipare quell'universal giudizio spaventevole che farà imbrividire tutti gli iniqui, gli oppressori ed ingiusti.

 

Ove non vi è Monarca non vi è nobiltà. Ove non vi è nobiltà non vi è Monarca, ma si ha uno stato popolare o dispotico. Ecco ciò che dicea e scrivea nello scorso secolo il dotto autore dello spirito delle leggi. Ecco quello che scrivea uno non profano a quella filosofia negativa che ridusse la specie umana in uno stato, a quello degli stessi bruti, inferiore.

L'aristocrazia, la madre delle generose azioni e dell'eroismo, è dunque tanto essenziale alla monarchia moderata, che senza aristocrazia non può sussistere monarchico reggimento. Unitamente a tutti i politici disse ciò il medesimo Montesquieu, il quale vaticinò la caduta della monarchia francese molti anni prima che seguisse, e ne prognosticò il rovescio, solo perché i magistrati di quella nazione (che in corpo erano giacobini, come si dice del manicheismo prima di Manete) cercavano distruggere l'aristocrazia tanto sacerdotale che patrizia. "Certuni magistrati di un grande stato europeo da molto tempo cercano distruggere la giurisdizione patrimoniale degli ecclesiastici e dei signori. Non cerchiamo censurare (perché era della lega) così saggi magistrati, ma lasciamo indeciso fino a quel segno ne sarà cangiata la costituzione".

Se dunque alla monarchia è necessaria la nobiltà, e se distrutta la giurisdizione patrimoniale del clero e della nobiltà deve per forza della natura delle cose venire distrutta la monarchia, se il principe di Canosa era aristocratico, lo era perché fedele alla monarchia, e non ad essa ribelle, come sogna il nostro canta storie. Volea l'aristocrazia come necessaria alla difesa del re contro le macchinazioni demagogiche, non per sostituire il governo aristocratico al regio. Egualmente avverso il principe di Canosa tanto al dispotismo quanto alla licenza popolare, era attaccatissimo alle diverse classi aristocratiche e differenti ordini dello stato, riguardando in essi tanti argini alla licenza popolare, che, tutti uniti, agendo di concerto venivano a formare un fiume che, circondando il trono della monarchia moderata, impediva l'accesso tanto al dispotismo che alla tirannide popolare.

Il baronaggio, che era l'istituzione la più atta alla difesa della monarchia (però la più odiata dal manicheismo innanzi Manete, ovvero dai dilettanti di democrazia innanzi la rivoluzione francese), il baronaggio, io dico, resosi un poco troppo potente, diede qualche volta a pensare ai Re, facendoli talvolta impallidire sullo stesso di loro trono. Questo era un eccesso ed un abuso. Ma di che non abusa l'uomo! Quali possono essere le umane istituzioni perfette! e quali quelle che col corso del tempo non vengano ad atterrarsi!!?

A porre riparo ad un tale grave disordine i più saggi monarchi crearono una classe che, posta a fronte del baronaggio, lo tenesse in iscacco, e ne rendesse meno terribile l'influenza potentissima. Questa classe fu quella degli uomini di toga e dei dottori in legge, quella precisamente che in Napoli chiamavasi paglietti. Questo gran pensiero, figlio delle più profonde riflessioni dei politici regi, ebbe il compiuto desiderato effetto. Il corpo de' togati divenne un tale contrappeso al potere de' baroni, che già da gran tempo, utilissimi rimasero alla monarchia (come si osservò nell'epoca della rivoluzione di Masaniello e nella guerra di Velletri per citare due soli esempi) senza menomare o intimorire il potere monarchico moderato.

Se però col tempo degenerò l'istituzione feudale, degenerò egualmente quella che, formata dagli uomini di toga e di legge, se gli era posta incontro per menomarne l'influenza ed il potere. I togati andando troppo in là, col perpetuo contraddire ed abbassare l'orgoglio de' baroni, ne resero una classe di poltroni, ed inutili in conseguenza al re, al popolo, alla monarchia. Il fiume che circondava i piedi del trono venne con questa politica a seccarsi, per cui libero si rese il passo tanto al dispotismo che all'audacia popolare.

Un tale argomento porterebbe una lunga disamina e sarà uno di quelli che tratterò nelle mie opere inedite. Per ora mi restringerò a dire che, entrata nello spirito de' paglietti, già da gran tempo, la smania dell'eguaglianza, dopo che riuscirono avvilire i baroni, passarono ad attaccare la nobiltà ne' suoi diritti e privilegi che la rendeva (per proprio interesse ereditario) così ligia del potere monarchico ereditario. E siccome più o meno da monarchi poco politici e da' paglietti, nemici di tutto e di tutti (fuorché della propria borsa) una tale operazione venne più o meno praticata in tutta l'Italia, così quei baroni e que' nobili che aveano per lo passato dato a' diversi regni tanti eroi in fedeltà e valore, e che resi avevano a' monarchi i più segnalati servigi, combattendo strenuamente gli avversarii di loro tanto esterni che intestini, si resero una classe di poltroni egoisti, ed in seguito (spogliati di tutti i loro dritti, privilegi, ricchezze) di nemici, in talune monarchie in particolare ove aveano maggiormente sofferto.

Tutto questo corso di vita politica delle diverse istituzioni e classi dello stato le avea io studiato con tutta la possibile riflessione sulla storia del mio paese. Posto ciò, conoscendo molto bene quanto valere poteano i miei colleghi baroni tanto che patrizii, ancora che fossi stato un fellone (come mi caratterizza lo storico mendace e buffone) ed un ribelle, avrei dovuto essere assai poco calcolatore, onde supporre che in tempi tanto burrascosi fossero i patrizi napoletani capaci di reggere alla bufera della più gran forza, ponendosi alla testa di un governo aristocratico.

 

Quanti sono i mali civili che affliggono tutte le società europee nell'età in cui viviamo, sono tutti conseguenze dell'anatemizzata massoneria, della congiura de' filosofi miscredenti, della rivoluzione per dirlo in una sola parola. Lo stupendo per altro, e ciò che è degno veramente della morale del buon senso del secolo del progresso de' lumi, è, che coloro che seguono le massime e le dottrine negative di que' filosofi del secolo XVIII; quelli che, a' mali presenti dai quali vengono afflitte le società europee, il doppio, il triplo, del centesimo di maggiori mali le aggraverebbero, per solo guadagnare pochi zecchini, sono quelli per l'appunto che il Papa, i Cardinali, il clero, i cenobiti, ed in particolare i Gesuiti incolpano di tutti que' malanni dei quali la sola vera unica colpa non sono che essi esclusivamente.

Fu nel 1787 che io, uscito dal collegio Nazareno (ove compii i miei studii di filosofia) entrai nella grande scena del mondo, in seguito di essere stato per due anni nella città di Canosa coi miei buoni genitori. Che bella cosa era il mondo allora sotto il tiranno Ferdinando IV e sotto il giogo della superstizione di tanti frati e preti intolleranti e fanatici! La maledetta filosofia avea principato in verità a fare le sue stragi (appunto per la soverchia tolleranza e dolcezza del governo temporale, come del potere spirituale); queste però non aveano attaccato la massa sociale. Andando col saggio ed imponente mio genitore nelle grandi conversazioni, egli mi notava a dito i frammassoni conosciuti ed i dottori in miscredenza, e diceami: "Con quelli non farai discorso giammai; con quello non ti assoderai, evitandone ancora l'incontro e negandogli il saluto. Sono frammassoni, sono nemici del Papa (allora era ancora un segreto sconosciuto l'essere nemico del Re). Sono senza religione e scostumati".

Che bella cosa era mai Napoli sotto la tirannide e il regno della benefica superstizione. Non si pagava nulla sulle terre; pochissimo pagavano i Baroni; le gabelle erano mitissime. Ciascuno potea fare ciò che voleva. I passaporti non erano che una pura e vera formalità. Tutte le più esatte regole usavansi nell'inquirire dalla giustizia criminale; ed uomini dottissimi e venerandi mi rammento esser quelli che giudicavano e presiedevano alla custodia della sicurezza e della proprietà de' cittadini. Si volle stare meglio; cioè la filosofica canaglia, la quale sotto il salvocondotto della libertà ed eguaglianza volea occupare il posto dei Re e dei Signori (servendosi delle braccia della sconsigliata gioventù e della canaglia rapace) guastò tutto, tutto il bene disparve con il senso comune; né età al mondo più infelice e miserabile vide mai la terra, che quella succeduta alla maledetta filosofica rivoluzione. Al presente si miri Vienna e quei paesi che non vennero sconvolti dal rivoluzionario contagio!

Uno de' peggiori malanni, di cui siamo debitori alla maledetta rivoluzione figlia primogenita del progresso de' lumi, si è il pesantissimo, molesto e spesso tirannico magistrato della polizia. Chi è entrato in una tale putrida pozzanghera è solo capace conoscere quali sconcerti, inconvenienti, danni gravissimi non vengono prodotti dalla istituzione della polizia. Ma come si fa? Cosa ci entrano i poveri Sovrani legittimi! Essi sono tutti (senza quasi eccezione alla nostra età) ottimi, ne sarebbe (come le mille volte ho ripetuto nelle mie opere) dell'interesse di loro esser cattivi, come lo devono, per la ragione de' contrarii, esserlo gli usurpatori ed ogni rivoluzionario reggimento. Non sono difatti stati essi giammai che inventarono o stabilirono questa nocevole magistratura. Essa è figlia di quella rivoluzione che ci prometteva felicità e rigenerazione. I sovrani legittimi altro non hanno fatto che conservarla, e perché? Quelli scellerati, i quali (fino i regicidi!!!) dopo essere stati perdonati di un numero pressoché infinito di misfatti, dopo essere stati di beneficenza ricolmati, congiurando ed intrigando ancora contro i sovrani legittimi di loro benefattori, minacciarono, come minacciano sempre il Potere. Il molestissimo e pesante magistrato di polizia si rese dunque tanto necessario quanto la cura del sublimato e dell'arsenico per coloro, pe' quali altro rimedio non rimane per prolungare la vita. Se dunque il magistrato di polizia fu tutto di liberalesca istituzione, la conservazione di questo mostro civile è tutta dovuta alla pervicacia, ostinazione, incorreggibilità dell'ostinata liberalesca ingratissima canaglia.