Clicca qui sopra per tornare alla pagina iniziale del sito

TEORIA POLITICA,
UNA PREMESSA METODOLOGICA
di Eric Voegelin

L'esistenza dell'uomo nella società politica è un'esistenza storica: perciò, una teoria della politica che voglia affrontare anche le questioni di principio, dev'essere, nello stesso tempo, una teoria della storia. In questo libro, dedicato al problema centrale di una teoria della politica, cioè alla rappresentanza, l'indagine sarà quindi spinta oltre la semplice descrizione delle cosiddette istituzioni rappresentative, per penetrare la natura della rappresentanza come forma attraverso cui una società politica perviene all'esistenza e agisce nella storia. Inoltre, l'indagine non si fermerà a questo punto, ma si estenderà all'individuazione dei simboli per mezzo dei quali le società politiche interpretano se stesse come rappresentative di una verità trascendente. La molteplicità di tali simboli non si ridurrà ad un monotono elenco, ma risulterà suscettibile di teorizzazione in quanto successione intelligibile di fasi in un processo storico. Un'indagine sulla rappresentanza diventa in realtà una filosofia della storia, se le sue implicazioni teoriche vengono coerentemente esplicitate.

L'approfondimento di un problema teorico fino al punto in cui i princìpi della politica incontrano i princìpi di una filosofia della storia non è per nulla abituale ai nostri giorni. Tuttavia, questo modo di procedere non rappresenta affatto un'innovazione nella scienza politica: esso appare piuttosto come una restaurazione, se si pensa che i due campi, oggi coltivati separatamente, erano di fatto inscindibilmente uniti quando la scienza politica fu fondata da Platone. Questa teoria integrale della politica emerse dalla crisi della società ellenica. In un'ora di crisi, quando l’ordine di una società vacilla e si disgrega, i problemi fondamentali dell'esistenza politica nella storia emergono più facilmente in primo piano che nei periodi di relativa stabilità. Si può anzi dire che il ridurre la scienza politica a una mera descrizione delle istituzioni esistenti e a una giustificazione dei loro princìpi, il degradare cioè la scienza politica a servire le forze al potere, è stato sempre un fenomeno tipico delle situazioni stabili, mentre la sua elevazione alla piena dignità di scienza dell'esistenza umana nella società e nella storia, e di scienza dei princìpi dell'ordine in generale, ha sempre caratterizzato le grandi epoche a carattere rivoluzionario e critico.

Il corso della storia occidentale, considerato nei suoi tratti essenziali, presenta tre di tali epoche. La fondazione della scienza politica ad opera di Platone e di Aristotele ebbe luogo in coincidenza con la crisi ellenica; la Civitas Dei di sant'Agostino fu scritta all'epoca della crisi di Roma e del cristianesimo; la filosofia del diritto e della storia di Hegel fu elaborata in coincidenza con il primo grande momento della crisi occidentale. Quelle indicate sono soltanto le grandi epoche e le grandi restaurazioni; i periodi millenari che le separano comprendono epoche minori e restaurazioni secondarie; in particolare, per il periodo moderno, merita di essere ricordato il grande tentativo di Bodin nel quadro della crisi del secolo sedicesimo.

Per restaurazione della scienza politica intendiamo un ritorno alla consapevolezza dei princìpi, non un puro e semplice ritorno al contenuto specifico di soluzioni del passato. Non si può oggi restaurare la scienza politica semplicemente tornando al platonismo, all'agostinismo o all'hegelismo. Molto, naturalmente, si può imparare dai filosofi, del passato, per quanto riguarda sia la portata dei problemi che la loro trattazione teorica; ma è appunto la storicità dell'esistenza umana, cioè l'individuazione di ciò che è tipico in una data situazione concreta, che rende impossibile una riformulazione valida dei princìpi attraverso un puro e semplice ritorno alle soluzioni concretamente tentate nel passato. Quindi, un'elevazione della scienza politica alla dignità di scienza teorica, nel senso stretto del termine, non è possibile con una ripresa letterale delle conquiste filosofiche del passato; i princìpi devono essere riconquistati attraverso uno sforzo di teorizzazione che prenda l'avvio dalla situazione concreta e storica dell'epoca, tenendo conto delle conoscenze empiriche a nostra disposizione nella loro totalità.

Formulato in questi termini, il compito appare gigantesco sotto ogni punto di vista; e può addirittura apparire disperato a causa dell'enorme materiale che le scienze empiriche della società e della storia pongono oggi a nostra disposizione. Di fatto, però, si tratta di un'impressione erronea. Se, da un lato, non bisogna sottovalutare le difficoltà, dall'altro bisogna riconoscere che il compito comincia ai nostri giorni a diventare possibile grazie al lavoro preparatorio compiuto nel corso dell'ultimo mezzo secolo. Da circa due generazioni le scienze dell'uomo e della società sono impegnate in un processo di riteorizzazione. Questo nuovo processo, lento agli inizi, ha raggiunto notevole consistenza dopo la prima guerra mondiale ed oggi si sviluppa a ritmo velocissimo. Il compito comincia a diventare possibile, perché in misura considerevole ne risultano già poste le premesse, grazie alla convergente teorizzazione dei relativi materiali in sede di ricerca monografica. Il titolo di questo saggio sulla rappresentanza, sottolinea il proposito dell'autore di introdurre il lettore a uno studio dello sviluppo della scienza politica tuttora praticamente ignoto al grosso pubblico e, insieme, di mostrare che la esplorazione monografica dei singoli problemi è già pervenuta a tal punto che se ne può almeno tentare l'applicazione dei risultati a un problema teorico di fondo in politica.

 

2. Questo processo di riteorizzazione è scarsamente noto, sia nella sua portata che nelle sue realizzazioni. Non è possibile, in questa sede, fornirne un resoconto che, per essere adeguato, richiederebbe considerevole spazio. Tuttavia, è necessario fornire alcune indicazioni in merito alle sue cause e ai suoi intenti, per rispondere subito ad alcuni degli interrogativi che inevitabilmente si presenteranno al lettore.

Una restaurazione della scienza politica sul piano dei princìpi presuppone che l'opera di ricostruzione sia necessaria perché si è perduta la consapevolezza dei princìpi. In realtà, il processo di riteorizzazione si presenta come opera di ricostruzione dopo il fenomeno della distruzione della scienza che caratterizzò l'era del positivismo nella seconda metà del secolo decimonono.

La distruzione operata dal positivismo è partita da due presupposti fondamentali. In primo luogo, la splendida fioritura delle scienze della natura, con altri fattori, ha dato origine al presupposto che i metodi usati nella matematizzazione delle scienze del mondo esterno fossero dotati di un proprio intrinseco valore e che anche tutte le altre scienze avrebbero conseguito analoghi successi se ne avessero seguito l'esempio e avessero fatto di quei metodi il loro modello. Di per sé, questa convinzione sarebbe rimasta un'innocua idiosincrasia, destinata a dissolversi non appena gli entusiastici ammiratori del metodo additato a modello lo avessero messo alla prova nell'ambito della loro scienza, constatando che, nonostante la sua applicazione, non si conseguivano i successi sperati. Ma essa divenne pericolosa quando si combinò con il secondo presupposto, quello cioè che considera i metodi delle scienze naturali come criterio di validità teorica generale. Dalla combinazione di questi due presupposti è derivata la ben nota serie di asserzioni che uno studio della realtà si può considerare scientifico soltanto se usa i metodi delle scienze naturali; che i problemi formulati in altri termini sono illusori; che le questioni metafisiche in particolare, le quali non ammettono risposta in base ai metodi delle scienze dei fenomeni, devono essere accantonate; che gli aspetti dell'essere non accessibili a un'esplorazione condotta con i metodi proposti a modello sono estranei alla scienza e, al limite, che tali aspetti dell'essere addirittura non esistono.

Il pericolo sta nel secondo presupposto: esso, benché spieghi le capacità distruttive tipiche del positivismo, non ha finora attirato su di sé l'attenzione che merita. Questo secondo presupposto, infatti, subordina la validità teorica al metodo e, quindi, snatura il significalo stesso della scienza. Scienza è ricerca della verità intorno alla natura dei vari aspetti dell'essere. Valido in sede scientifica è tutto ciò che contribuisce al successo di tale ricerca. I fatti hanno rilevanza nella misura in cui la loro conoscenza contribuisce allo studio dell'essenza, mentre i metodi sono adeguati nella misura in cui possono effettivamente essere impiegati come mezzi in vista di quel fine. Oggetti diversi richiedono metodi diversi. Uno studioso di scienza politica che cerchi di penetrare il significato della Repubblica di Platone non sa che farsene della matematica; un biologo che studi una struttura cellulare non sa che farsene dei metodi della filologia classica e dei princìpi dell'ermeneutica. Queste considerazioni possono sembrare banali, ma una delle caratteristiche dell'atteggiamento positivistico, è proprio il disprezzo delle verità elementari ed è appunto per questo che diventa necessario mettere in evidenza anche le cose più ovvie. Forse può essere motivo di consolazione sapere che questo disprezzo delle verità elementari è un problema eterno nella storia della scienza, tant'è vero che anche Aristotele fu costretto a ricordare a certi saccenti del suo tempo che un "uomo colto" non si aspetterà mai di trovare in un trattato di politica un'esattezza di tipo matematico.

Se l'adeguatezza di un metodo non è misurata dal suo grado di utilità rispetto ai fini che la scienza persegue; se, al contrario, l'uso di un determinato metodo è assunto a criterio di validità della scienza, allora va completamente perduto il significato stesso della scienza come spiegazione veritiera della struttura della realtà, come orientamento teorico dell'uomo nel mondo in cui vive, come strumento principe a disposizione dell'uomo per comprendere la sua posizione nell'universo. La scienza prende avvio dall'esistenza prescientifica dell'uomo; dalla sua inserzione nel mondo con il suo corpo, con la sua anima, con il suo intelletto, con il suo spirito; dalla sua fondamentale presa su tutti gli ambiti dell'essere, resa possibile dal fatto che la sua natura li compendia tutti.

Da questa elementare partecipazione conoscitiva, carica di passione, emerge a poco a poco la consapevolezza della via da seguire, del methodos, per giungere alla spassionata contemplazione dell'ordine dell'essere propria dell'atteggiamento speculativo. Tuttavia, alla domanda se in quel determinato caso si è seguita la via giusta, si può rispondere adeguatamente solo risalendo dalla fine al principio del processo. Se il metodo seguito ha consentito di portare a essenziale chiarezza ciò che prima si vedeva oscuramente, allora esso è adeguato; se invece non ha reso possibile il chiarimento, o se ha portato a essenziale chiarezza qualche aspetto della realtà che però nel caso specifico non interessava direttamente, allora esso deve considerarsi inadeguato. Se, per esempio, nella nostra partecipazione prescientifica all'ordine di una società, nelle nostre esperienze prescientifiche del bene e del male, della giustizia e dell'ingiustizia, sentiamo il desiderio di pervenire a una comprensione teorica della fonte dell'ordine e della sua validità, possiamo approdare, nel corso della ricerca, alla teoria che la giustizia dell'ordine umano dipende dalla sua partecipazione all'agathon platonico o al nous aristotelico o al logos stoico o alla tomistica ratio aeterna. Per una ragione o per l'altra, può darsi che nessuna di queste teorie ci soddisfi completamente; tuttavia, sappiamo che la nostra ricerca è diretta alla scoperta di una risposta di questo tipo. Ma, se la via imboccata ci portasse a concludere che l'ordine sociale è determinato dalla volontà di potenza e dalla paura, noi ci renderemmo conto di aver perso di vista, nel corso della nostra indagine, l'essenza del problema, per quanto importanti possano essere i risultati conseguiti, ai fini di un chiarimento di altri aspetti essenziali dell'ordine sociale. Ripercorrendo a ritroso il cammino dalla risposta alla domanda, ci rendiamo conto, insomma, che i metodi della psicologia motivazionale non sono adeguati alla soluzione del nostro problema e che, in questo caso specifico, è molto meglio far ricorso ai metodi della speculazione metafisica e della simbolizzazione teologica.

Subordinare la validità teorica al metodo significa snaturare in radice il significato della scienza. Tale snaturamento si verifica con qualsiasi metodo si scelga come modello. Perciò, bisogna accuratamente distinguere il principio generale dalle sue particolari manifestazioni concrete. Senza tale distinzione è impossibile comprendere il fenomeno storico del positivismo nella sua natura e nella sua portata; e, forse proprio perché tale distinzione non viene fatta, manca ancor oggi un adeguato studio di questa importante fase della storia intellettuale dell'Occidente.
Benché un'analisi siffatta non possa essere condotta in questa sede, tuttavia è necessario indicare con precisione i criteri che essa dovrebbe seguire per mettere in evidenza la varietà dei fenomeni positivistici. Si commetterebbe un grosso errore se si avviasse l'analisi definendo il positivismo come la dottrina di questo o quel pensatore positivista di rilievo - per esempio, definendolo nei termini del sistema di Comte. Questa forma particolare dì "perversione" ideologica metterebbe in ombra il principio generale e impedirebbe la comprensione delle connessioni che con il principio stesso hanno certi fenomeni: infatti, a livello di dottrina, i fautori di diversi metodi modello possono benissimo trovarsi in contrasto tra loro. Quindi, è opportuno prendere le mosse dall'impressione che il sistema newtoniano fece sugli intellettuali occidentali come Voltaire; trattare tale incidenza come centro emozionale da cui il principio di "perversione" ideologica, come forma particolare del modello della fisica, può irradiarsi, isolatamente o in combinazione; e individuarne gli effetti, quale che sia la forma che possono assumere. Questo modo di procedere è opportuno soprattutto perché una trasposizione dei metodi della fisica matematica, nel senso stretto del termine, alle scienze sociali non è mai stata tentata, per la buona ragione che siffatto tentativo era anche troppo evidentemente destinato al fallimento. L'idea di scoprire una "legge" dei fenomeni sociali che funzionalmente corrispondesse alla legge di gravitazione nella fisica newtoniana non andò mai oltre lo stadio di formulazione generica nell'età napoleonica. Al tempo di Comte quell'idea non aveva più la rilevanza precedente ed era ridotta alla "legge" delle tre frasi, cioè a un'erronea speculazione sul significato della storia secondo la quale si sosteneva di aver scoperto una legge empirica della storia. A questo proposito ci pare indicativa la sorte dell'espressione physique sociale.

Comte intendeva usarla per la sua speculazione positivistica, ma il suo proposito fu frustrato dal fatto che Quételet l'aveva applicata alle sue investigazioni statistiche; l'area dei fenomeni sociali che sono davvero suscettibili di quantificazione cominciò a separarsi dall'area in cui ogni tentativo di imitazione della fisica si riduce a passatempo da dilettanti di entrambe le scienze. Quindi se si interpretasse il positivismo in senso stretto come un tentativo di sviluppo della scienza sociale mediante l'applicazione dei metodi di matematizzazione, si arriverebbe alla conclusione che il positivismo non è mai esistito; se invece lo si interpreta come un tentativo di rendere "scientifiche" le scienze sociali con l'impiego di metodi il più possibile simili ai metodi impiegati nelle scienze del mondo esterno, allora i risultati di questo tentativo (benché non intenzionali) appariranno estremamente vari.

La prospettiva teorica del positivismo come fenomeno storico è stata posta in evidenza con sufficiente precisione: ora può essere indicata brevemente la varietà delle sue manifestazioni, dato che è chiaro il loro nesso unitario. In questa prospettiva vediamo che l'uso del metodo come criterio di scienza abolisce ogni loro intrinseca validità teorica. Di conseguenza, tutte le asserzioni relative ai fatti risultano elevate alla dignità di scienza, indipendentemente dalla loro importanza, nella misura in cui derivano da un corretto uso del metodo. Poiché l'oceano dei fatti è infinito, diventa possibile una prodigiosa espansione della scienza in senso sociologico, che dà occupazione ai tecnici della scienza e porta a un fantastico accumulo di conoscenze prive di interesse, mediante l'attuazione di giganteschi "programmi di ricerca" la cui caratteristica più interessante è l'entità delle spese sostenute per la loro realizzazione. Grande è la tentazione di soffermarsi a esaminare un po' più da vicino questa lussureggiante flora del tardo positivismo e a svolgere alcune considerazioni sugli orti di Academo nei quali cresce; ma il rigore speculativo non ci consente di attardarci in siffatte piacevolezze da orticultori. Ciò che ci interessa mettere ora in luce è il principio secondo il quale tutti i fatti sono uguali - secondo la formula coniata in proposito - se sono metodicamente constatati. Questa eguaglianza dei fatti è indipendente dal metodo usato nel caso specifico.
L'accumulazione di fatti irrilevanti non è dovuta esclusivamente all'applicazione di metodi statistici: essa può benissimo essere dovuta anche all'applicazione di metodi critici nella storia politica, nella descrizione delle istituzioni, nella storia delle idee o nelle varie branche della filologia. L'accumulazione di fatti non digeriti teoricamente, e forse indigeribili, l'escrescenza per la quale i tedeschi hanno coniato il termine di Materialhuberei è, quindi, la prima delle manifestazioni del positivismo e, a causa della sua diffusione, essa ha importanza molto maggiore di certe seducenti bizzarrie come quella della "scienza unificata".

Tuttavia, l'accumulazione di fatti irrilevanti è inestricabilmente intrecciata con altri fenomeni. Grossi progetti di ricerca che contengano solo materiali irrilevanti sono rari, o forse non ne esistono affatto. Anche nel peggiore dei casi essi presentano, qua e là, qualche pagina di analisi interessanti e possono contenere, sepolto nella loro gran mole, qualche granello d'oro che attende di essere accidentalmente scoperto dallo studioso che ne riconosca il valore. Il fenomeno del positivismo, infatti, è maturato nel contesto di una civiltà ricca di tradizioni speculative; quindi, casi di totale irrilevanza sono praticamente impossibili perché, sotto la pressione dell'ambiente, anche la più ingombrante e inutile raccolta di materiali dev'essere sospesa a un filo, per quanto sottile, che la collega alla tradizione. Anche al più fanatico positivista riesce impossibile scrivere un libro assolutamente privo di valore sul diritto costituzionale americano, almeno nella misura in cui segue con sufficiente coscienziosità le linee dell'argomentazione e i precedenti indicati dalle sentenze della Corte Suprema; anche se il libro si riduce ad un arido resoconto e non inquadra l'argomentazione dei giudici (che non sempre sono i migliori teorici) in una teoria critica della politica e del diritto, il materiale costringerà l'autore almeno a conformarsi alla propria intrinseca coerenza.

Di effetti distruttivi molto più gravi di quelli esercitati nei confronti della scienza da quest'accumulazione di banalità, del resto facilmente individuabile, è responsabile la seconda manifestazione del positivismo, cioè la manipolazione di materiali interessanti in base a erronei princìpi teorici. Studiosi di gran merito hanno consacrato una immensa erudizione alla digestione di materiali storici e il loro sforzo è stato in gran parte sprecato, perché i loro princìpi di selezione e interpretazione dei fatti non avevano un adeguato fondamento teorico, ma derivavano dal Zeitgeist, da preferenze politiche, o da personali idiosincrasie. Appartengono a questa categoria le storie della filosofia greca che si sono proposte soprattutto di trarre dalle loro fonti un "contributo" alla fondazione della scienza occidentale; gli studi su Platone che hanno scoperto in quest'ultimo un precursore della logica neokantiana o, secondo le mode politiche del tempo, un costituzionalista, un utopista, un socialista o un fascista; le storie delle idee politiche che hanno definito la politica in termini di costituzionalismo occidentale e quindi non sono più state in grado di trovare molta teoria politica nel medioevo; o quelle altre storie che hanno scoperta nel medioevo un ricco "contributo" alla dottrina del costituzionalismo, ma hanno completamente ignorato il complesso di movimenti politici settari che culminarono nella Riforma; o un'opera imponente come il Genossenschaftsrecht di Gierke, viziata in radice dalla convinzione dell'autore che la storia del pensiero politico e giuridico muovesse provvidenzialmente verso il proprio culmine, rappresentato dalla teoria della Realperson elaborata dall'autore stesso.

In casi di questo genere, il guasto non è dovuto a un'accumulazione di materiali privi di valore; al contrario, i trattati di questo tipo molto spesso sono ancor oggi indispensabili per le loro attendibili informazioni su fatti (richiami bibliografici, lettura critica dei testi, ecc.). Il guasto proviene piuttosto dall'interpretazione. Il contenuto di una fonte può essere citato correttamente e nondimeno la citazione può fornire un quadro interamente falso, perché sono omesse parti essenziali. E l'omissione è determinata dal fatto che princìpi d'interpretazione non criticamente fondati impediscono di riconoscere quelle parti come essenziali. L'opinione acritica, privata o pubblica (nel senso della doxa platonica), non può sostituirsi alla teoria in sede scientifica.

La terza manifestazione del positivismo è stato lo sviluppo della metodologia, specialmente nel mezzo secolo che va dal 1870 al 1920. Questo movimento fu una tipica fase del positivismo, perché lo snaturamento del criterio di validità, col passaggio dalla teoria al metodo, ne fu il principio animatore e vivificatore. Nello stesso tempo, tuttavia, esso ebbe funzione strumentale nel superamento del positivismo, perché generalizzò la rilevanza del metodo e quindi favorì la presa di coscienza della necessità di metodi diversi per le diverse scienze. Pensatori come Husserl e Cassirer, per esempio, erano ancora positivisti di ispirazione comtiana per guanto riguarda la loro filosofia della storia, ma la critica dello psicologismo di Husserl e la filosofia delle forme simboliche di Cassirer furono importanti passi sulla via della restaurazione della validità teorica. Tuttavia, questo movimento, nel suo insieme, è stato troppo complesso per consentire generalizzazioni senza accurate ed ampie precisazioni. Soltanto su un problema si può e si deve richiamare in particolare l'attenzione, per la parte da esso avuta nella distruzione della scienza: sulla pretesa cioè di rendere "oggettiva" la scienza politica (e le scienze sociali in genere) attraverso una esclusione metodologicamente rigorosa di tutti i "giudizi di valore".

Al fine di mettere in chiaro la questione bisogna prima di tutto tener presente che i termini "giudizio di valore" e scienza "libera da giudizi di valore" non facevano parte del vocabolario filosofico prima della seconda metà del secolo decimonono. La nozione di giudizio di valore (Werturteil) è di per sé priva di significato; essa acquista significato solo in una situazione nella quale venga contrapposta a giudizi di fatto (Tatsadienurteile). Questa situazione è nata dalla presunzione positivistica che solo le asserzioni relative ai fatti del mondo fenomenico sono "oggettive", mentre i giudizi relativi al giusto ordine dell'anima e della società sarebbero "soggettivi". Soltanto le asserzioni del primo tipo si potevano considerare "scientifiche", mentre le asserzioni del secondo tipo esprimevano decisioni e preferenze personali, non suscettibili di verifica crìtica e, quindi, destituite di validità oggettiva. Questa classificazione aveva senso se veniva accettato, in linea di principio, il dogma positivistico; ma tale dogma poteva essere accettato soltanto da pensatori che non conoscessero a fondo la scienza classica e cristiana dell'uomo; infatti, né l'etica e la politica classica, né l'etica e la politica cristiana contengono "giudizi di valore" ma studiano, empiricamente e criticamente, i problemi dell'ordine che derivano dall'antropologia filosofica come parte di una ontologia generale (1). Soltanto quando l'ontologia non fu più considerata una scienza e quando, di conseguenza, l'etica e la politica non poterono più essere intese come scienze dell'ordine in cui la natura umana raggiunge la sua massima attuazione, questo ambito della conoscenza poté diventare sospetto ed essere considerato come un campo nel quale si esprimevano soltanto opinioni soggettive e acritiche.

Nella misura in cui accettarono il dogma positivistico, i metodologi parteciparono alla distruzione della scienza. Nello stesso tempo, tuttavia, tentarono validamente di salvare le scienze storiche e sociali dal discredito nel quale erano fatalmente destinate a cadere per effetto di quella opera distruttiva alla quale essi partecipavano. Quando l'episteme è distrutta, gli uomini non cessano di parlare di politica, ma sono costretti a esprimersi nei modi della doxa. I cosiddetti giudizi di valore poterono costituire un serio problema per i metodologi perché, nel linguaggio filosofico, essi erano doxai, cioè opinioni acritiche relative al problema dell'ordine; e il tentativo dei metodologi di ridare credito alle scienze sociali eliminando dal loro orizzonte le opinioni acritiche correnti ebbe, se non altro, il merito di far assumere coscienza della necessità di certi standards critici, anche se non poteva ricostituire una scienza dell'ordine. Quindi, sia la teoria dei "giudizi di valore", sia il tentativo di costituire una scienza "libera da giudizi di valore" furono ambivalenti nei loro effetti. Nella misura in cui la lotta contro i giudizi di valore fu una lotta contro l'opinione acritica camuffata da scienza politica, essa ebbe il salutare effetto di una purificazione teorica. Nella misura in cui fu fatto rientrare nel concetto di giudizi di valore l'intero corpus della metafisica classica e cristiana, e specialmente dell'antropologia filosofica, l'esito non poteva essere altro che quello di confessare che non esiste una scienza dell'ordine umano e sociale.

La varietà dei tentativi concreti ha perso gran parte dell'interesse di un tempo, ora che le grandi battaglie metodologiche si sono placate. Quei tentativi, in genere, si ispiravano al principio che si dovessero estromettere dalla scienza i "valori", ridotti al rango di ipotesi o di assiomi indiscussi. Per esempio, in base al presupposto che lo "Stato" fosse un valore, alla storia politica e alla scienza politica si conferiva la qualifica di "oggettive" solo se si limitavano alla ricerca delle motivazioni, azioni e condizioni che hanno incidenza sulla creazione, preservazione ed estinzione degli stati. Naturalmente, il principio conduceva a risultati dubbi se il valore di legittimazione era lasciato alla discrezione dello scienziato. Se la scienza era definita come analisi di fatti in relazione ad un valore, ci dovevano essere tante storie politiche e scienze politiche quanti erano gli studiosi che avevano idee diverse su ciò che aveva valore. I fatti che sono considerati degni di interesse, perché hanno un dato rapporto con i valori di un progressista, non sono gli stessi fatti ritenuti degni di interesse da un conservatore; e i fatti degni di interesse per un economista liberale non sono gli stessi del marxista.

Né la più scrupolosa cura nel mantenere "libero da giudizi di valore" il lavoro concreto dello studioso, né il più coscienzioso rispetto del metodo critico nello stabilire i fatti e le relazioni di causalità, potevano impedire alle scienze storiche e politiche di sprofondare nella palude del relativismo. In realtà, fu anche lanciata l'idea (che peraltro riscosse larghi consensi) secondo la quale ogni generazione doveva riscrivere da capo la storia, perché cambiavano i "valori" che determinavano la selezione dei problemi e dei materiali. Se la confusione che ne derivò non fu più grave di quella effettivamente determinatasi, la ragione va cercata anche in questo caso nella pressione di una tradizione culturale che mantenne entro i propri limiti generali la diversificazione dell'opinione acritica.

 

3. Il movimento della metodologia, per quanto riguarda la scienza politica, giunse al limite estremo al quale lo spingeva la sua logica immanente nella persona e nell'opera di Max Weber. Non possiamo tentarne in questa sede un'analisi esauriente: ci limiteremo perciò a mettere in luce soltanto alcune delle caratteristiche che fanno di lui un pensatore che conclude un'epoca e ne apre un'altra.

Una scienza libera da giudizi di valore significava per Weber la ricerca di cause ed effetti, la costruzione di tipi ideali che consentissero di distinguere le regolarità delle istituzioni e anche le loro deviazioni da essi, e soprattutto la costruzione di relazioni causali tipiche. Una scienza siffatta non sarebbe stata in grado di dire a qualcuno se doveva essere un economista liberale o un socialista, un costituzionalista democratico o un rivoluzionario marxista, ma poteva indicargli quali sarebbero state le conseguenze di un eventuale tentativo di trasposizione nella pratica politica dei valori da lui professati. Da una parte, c'erano i "valori" dell'ordine politico, al di là di qualsiasi valutazione critica; dall'altra, c'era una scienza delle strutture della realtà sociale che poteva essere utilizzata come conoscenza tecnica dall'uomo politico. Approfondendo il problema di una scienza "libera da giudizi di valore", in vista di questa finalità pragmatica, Weber sollevò il dibattito oltre il piano delle dispute metodologiche riconducendolo al piano dei princìpi. Egli voleva la scienza perché voleva veder chiaro nel mondo al quale appassionatamente partecipava: perciò egli si ritrovò sulla strada che conduce alla scoperta dell'essenza. La ricerca della verità, tuttavia restò limitata al livello dell'azione pragmatica. Nel clima intellettuale del dibattito metodologico i "valori" dovevano essere accettati come incontestabili e la ricerca non poteva procedere fino alla contemplazione dell'ordine. Per Weber la ratio della scienza non si estendeva fino a princìpi, ma soltanto fino alla causalità dell'azione.

Il nuovo senso della rilevanza teorica poteva quindi esprimersi solo nella creazione delle categorie della "responsabilità" e del "demonismo" in politica. Weber riconobbe i "valori" per quello che sono, cioè idee regolative dell'azione politica, ma attribuì ad essi il carattere di decisioni "demoniche", oltre il piano dell'argomentazione razionale. La scienza poteva venire alle prese con il demonismo della politica solo facendo assumere ai politici coscienza delle conseguenze delle loro azioni e risvegliando in essi il senso della responsabilità. Questa weberiana "etica della responsabilità" non è affatto cosa da poco. Weber la mise a punto per raffrenare l'ardore rivoluzionario degli intellettuali politici dogmatici, soprattutto dopo il 1918, e per rendere familiare il principio secondo il quale gli ideali non giustificano né i mezzi né i risultati dell'azione, l'azione coinvolge nella colpa e la responsabilità degli effetti politici ricade direttamente sull'uomo che ne è stato la causa. Inoltre, con la sua diagnosi del "demonismo" dei valori egli mise in luce che i "valori" incontestabili non possono essere fatti risalire alle fonti razionali dell'ordine e che la politica del tempo era davvero diventata un'arena di demoniaco disordine. Il fatto che questo aspetto dell'opera di Weber sia stato e sia con assoluta regolarità ignorato dai più diretti interessati è forse la migliore prova della sua importanza.

Se Weber si fosse limitato a sostenere che una scienza politica "libera da giudizi di valore" non è una scienza dell'ordine e che i "valori" sono decisioni demoniche, si potrebbero avere dubbi sulla grandezza della sua opera (che, del resto, è più intuita che realmente compresa). La marcia all'insù verso l'essenza si sarebbe fermata al punto in cui si dirama la strada secondaria che viene convenzionalmente indicata col termine di "esistenzialismo", àncora di salvezza per tutti i disorientati, diventata negli anni recenti di moda sul piano internazionale grazie all'opera di Sartre. Weber invece andò molto più avanti, anche se i suoi interpreti vengono a trovarsi in una posizione difficile, costretti a enucleare il risultato positivo dai conflitti intellettuali e dalle contraddizioni in cui Weber restò impigliato. Quest'approccio al problema di una scienza libera da giudizi di valore solleva più di un interrogativo. La concezione weberiana della scienza, per esempio, presupponeva una relazione sociale tra scienziato e uomo politico, resa attiva nell'istituzione di una università, dove lo scienziato come maestro illustra ai suoi discepoli, ai futuri homines politici, la struttura della realtà politica. A questo punto sorge spontanea la domanda: quali finalità dovrebbe avere siffatta illustrazione? Uno dei presupposti della scienza di Weber era di lasciar fuori discussione i valori politici dei discepoli, dato che i valori sono al di là della scienza. I principi politici dei discepoli non potevano essere formati da una scienza che non si estendeva fino ai principi dell'ordine. Poteva essa forse avere l'effetto indiretto di indurre i discepoli a rivedere i loro valori quando si rendevano conto di quali inattese, e forse indesiderate, conseguenze sarebbero state in pratica responsabili le loro idee politiche? Ma, in tal caso, i valori dei discepoli non avrebbero più avuto quella matrice demonica che invece si dava per scontata. Diventava possibile far appello al giudizio; e un giudizio che portava a manifestare una preferenza ragionata per un valore piuttosto che per un altro, non era forse un giudizio di valore? In definitiva, erano dunque possibili dei giudizi di valore razionalmente motivati? Insegnare in una università una scienza della politica libera da giudizi dì valore sarebbe senza senso se non ci si proponesse di influenzare i valori dei discepoli mettendo a loro disposizione una conoscenza oggettiva della realtà politica. Nella misura in cui fu un grande maestro, Weber praticamente smentì la sua convinzione che i valori fossero decisioni demoniche.

In che misura il suo metodo di insegnamento potesse essere efficace è un'altra questione. In primo luogo, si trattava di un insegnamento per vie traverse, perché egli evitava un'esplicita esposizione di principi positivi dell'ordine; e, in secondo luogo, anche se avesse comportato una diretta elaborazione dei princìpi, non poteva risultare efficace se il discepolo era davvero demonicamente radicato nei suoi atteggiamenti. Weber, come educatore, poteva contare soltanto sul senso di vergogna (sull'aidos aristotelico) nel discepolo come sentimento capace di promuovere una considerazione razionale. Ma che cosa accadeva se il discepolo non provava vergogna? Se il richiamo al suo senso di responsabilità aveva soltanto l'effetto di metterlo a disagio, senza fargli mutare atteggiamento? O se addirittura non lo metteva neanche a disagio, ma piuttosto lo induceva a ripiegare su quella che Weber chiamava un'"etica dell'intenzionale" (Gesinnungsethik), cioè sulla tesi che il suo credo conteneva in se stesso la propria giustificazione e che, quindi, le conseguenze dell'azione non avevano importanza se l'intenzione dell'azione era buona? Neanche a questo interrogativo Weber si preoccupò di dare risposta. Come esempio paradigmatico per la sua "etica dell'intenzione" egli usò una indefinita moralità cristiana "oltremondana"; inoltre, non si pose mai la domanda se i valori demonici non fossero per caso demonici proprio perché partecipavano della sua "etica dell'intenzione" invece che della sua "etica della responsabilità", in quanto si era arbitrariamente qualificata come comando divino una velleità umana. Un esame di questi problemi sarebbe sfato possibile solo a livello di quell'antropologia filosofica dalla quale Weber rifuggiva. Nondimeno, pur rifuggendo da tale esame, egli, per il carattere stesso della sua intrapresa, aveva finito col cimentarsi razionalmente con i valori.

Il suo tentativo di dar vita a una scienza oggettiva della politica rendeva inevitabile il cimento razionale con i valori incontestabili degli intellettuali. La concezione originaria di una scienza libera da giudizi di valore si andava disgregando. Per i metodologi che lo avevano preceduto, una scienza storica o sociale poteva essere libera da giudizi di valore, perché il suo oggetto era costituito dal "riferimento a un valore" (wertbeziehende Methode); entro il campo così delimitato si presupponeva che lo scienziato potesse lavorare senza far ricorso a giudizi di valore. Weber riconobbe che c'era una pluralità di "valori", fra loro in conflitto, nella politica del suo tempo, ciascuno dei quali poteva essere utilizzato per costituire un "oggetto". Il risultato non poteva essere che quello del già ricordato relativismo, con degradazione della scienza politica a mera giustificazione delle inquiete fantasie degli intellettuali politici, degradazione che di fatto essa subì e, in misura considerevole, tuttora subisce. Come mai la sua attività scientifica poté evitare codesta degradazione, che in realtà gli fu totalmente estranea? Se nessuno dei valori in conflitto costituiva per lui il campo della scienza, se egli mantenne la sua integrità critica di fronte ai valori politici correnti, quali erano dunque i valori che costituivano la sua scienza? Una risposta esauriente a questi interrogativi non può essere fornita in questa sede e ci limiteremo perciò a illustrare il criterio tecnico da lui seguito. La "oggettività" della scienza di Weber poteva derivare solo dagli autentici princìpi dell'ordine quali erano stati scoperti ed elaborati nella storia del genere umano. Poiché nella situazione intellettuale di Weber l'esistenza di una scienza dell'ordine non poteva essere ammessa, il suo contenuto (o la maggior parte possibile di esso) doveva essere recuperato attribuendo alle sue espressioni stanche il carattere di fatti e fattori causali nella storia. Mentre, in quanto metodologo della scienza libera da giudizi di valore, dichiarava di non aver argomenti da opporre a un intellettuale politico che avesse "demonicamente" elevato il marxismo a suo "valore" preferito, tuttavia Weber poté, senza difficoltà, intraprendere uno studio dell'etica protestante e dimostrare che certe convinzioni religiose, più che la lotta di classe, hanno svolto un ruolo importante nella formazione del capitalismo. Nelle pagine precedenti abbiamo ripetutamente sottolineato che l'arbitrarietà del metodo non degenerò al punto da rendere assolutamente priva di interesse tutta la produzione scientifica, perché la pressione esercitata dalle tradizioni teoriche rimase un fattore determinante nella selezione dei materiali e dei problemi. Si potrebbe addirittura dire che questa pressione è stata da Weber elevata alla dignità di principio. Per esempio, i tre volumi della sua sociologia della religione fecero entrare nel dibattito sulla struttura della realtà una considerevole massa di verità, più o meno chiaramente intraviste, relative all'ordine umano e sociale. Ma, mettendo in evidenza l'indiscutibile fatto che le verità relative all'ordine - e non soltanto la sete di potere e di ricchezza o la paura e l'inganno - erano fattori attivi nell'ordine della realtà, si poteva riconquistare una sperimentale oggettività della scienza, anche se i princìpi dovevano essere introdotti dalla porta di servizio delle "credenze" in competizione e in conflitto razionalmente insolubile con i "valori" contemporanei di Weber.

Va segnalato tuttavia che anche qui Weber non si preoccupò delle difficoltà teoriche nelle quali restava impigliato per questo suo modo di procedere. Se per esempio lo studio "aggettivo" dei processi storici dimostra che l'interpretazione materialistica della storia è sbagliata, allora evidentemente esiste nella scienza uno standard di oggettività che impedisce che si costituisca l'oggetto della scienza mediante il "riferimento" dei fatti e problemi al "valore" di un marxista; cioè - uscendo dalla terminologia metodologica - uno scienziato non può essere marxista.

Ma se l'oggettività critica impedisce a uno scienziato di essere marxista, è mai concepibile che un uomo possa essere marxista senza rinunciare agli standards di oggettività critica che avrebbe l'obbligo di rispettare in quanto essere umano responsabile? Nell'opera di Weber non si trova risposta alcuna ad interrogativi di questo genere. Non era ancora giunta l'ora di affermare esplicitamente che il "materialismo storico" non è una teoria ma una falsificazione della storia o che un interprete in chiave "materialistica" della politica è un ignorante che farebbe molto meglio ad attenersi ai fatti nella loro elementare concretezza. Quale seconda componente del "demonismo" dei valori comincia dunque ad emergere, anche se non riconosciuta come tale da Weber, una buona dose di ignoranza. E l'intellettuale politico che "demonicamente" decide quale debba essere per lui il "valore" supremo, comincia ad aver l'aria sospetta di un megalomane ignorante. Il "demonismo" finisce insomma con l'apparire una qualità che un uomo possiede in proporzione inversa all'ampiezza delle sue conoscenze valide.

L'intero complesso di idee - di "valori", di "riferimento a valori", di "giudizi di valore" e di "scienza libera da giudizi di valore" - sembrava sul punto di disintegrarsi. Era stata riconquistata alla scienza una "oggettività" che, evidentemente, non poteva più adattarsi al contesto del dibattito metodologico. Tuttavia, neppure gli studi di sociologia della religione poterono indurre Weber a compiere il passo decisivo verso una scienza dell'ordine. La ragione profonda della sua esitazione, se non fu la paura, resta forse insondabile; ma si può con relativa facilità individuare il punto tecnico al quale egli si fermò. I suoi studi di sociologia della religione hanno sempre suscitato ammirazione per il loro carattere di tour de force, se non per altre ragioni. L'enorme quantità di materiali che padroneggiò nei suoi voluminosi studi sul protestantesimo, sul confucianesimo, sul taoismo, sull'induismo, sul buddismo, sul giainismo, su Israele e sul giudaismo, che dovevano essere completati da uno studio sull'Islam, è davvero impressionante.

Di fronte a una realizzazione così imponente, non si è forse sottolineato a sufficienza che al complesso di questi studi conferisce la sua impronta generale una significativa omissione, quella del cristianesimo anteriore alla Riforma. La ragione dell'omissione appare ovvia: non è possibile impegnarsi in un serio studio del cristianesimo medievale senza scoprire tra i suoi "valori" la credenza in una scienza razionale dell'ordine umano e sociale e specialmente del diritto naturale. Inoltre, questa scienza non rimase soltanto allo stadio di aspirazione, ma fu effettivamente elaborata come opera della ragione. Qui Weber si sarebbe imbattuto nel "fatto" di una scienza dell'ordine; del resto, gli sarebbe capitata la stessa cosa se si fosse seriamente occupato di filosofia greca.

La disponibilità di Weber a introdurre come fatti storici le verità relative all'ordine si fermo alle soglie della metafisica greca e medievale. Prima di degradare la politica di Platone, di Aristotele o di san Tommaso al rango di "valori" fra i tanti, uno studioso coscienzioso avrebbe dovuto dimostrare che era infondata la pretesa di quella politica alla dignità di scienza. Ma un tentativo del genere è destinato al fallimento per la sua stessa intrinseca contraddittorietà: il critico potenziale, nel momento in cui ha penetrato il significato della metafisica con profondità sufficiente a dare fondamento di serietà alla sua critica, è diventato egli stesso un metafisico. Si può attaccare la metafisica con coscienza tranquilla soltanto dalla distanza di sicurezza di una conoscenza imperfetta. L'orizzonte della scienza sociale di Weber era immenso e, appunto per questo, la sua renitenza ad andare troppo vicino al suo centro decisivo mette in luce le sue limitazioni positivistiche.

Il risultato dell'opera di Weber fu dunque ambiguo. Egli aveva ridotto ad absurdum il principio di una scienza libera da giudizi di valore. L'idea di una scienza libera da giudizi di valore, il cui oggetto fosse costituito dal "riferimento a un valore", poteva trovare realizzazione solo a condizione che lo scienziato fosse disposto a decidere quale "valore" scegliere come termine di riferimento. Se lo scienziato rifiuta di fare questa scelta, se tratta tutti i valori come uguali (come fece Max Weber), se inoltre li tratta come fatti sociali tra gli altri, in tal caso, di "valori" che possano costituire l'oggetto della scienza non ne resta alcuno, perché tutti sono diventati parte dell'oggetto stesso. Questa abolizione dei "valori" come elementi costitutivi della scienza portò a una situazione teoricamente insostenibile, perché l'oggetto della scienza, dopo tutto, ha una "costituzione", cioè l'essenza verso la quale procediamo nella nostra ricerca della verità. Ma poiché la passione positivistica non ammetteva l'esistenza di una scienza dell'essenza, di una vera episteme, princìpi dell'ordine dovevano essere introdotti nella scienza come fatti sforici.
Quando Weber costruì il grande edificio della sua "sociologia" (che è poi la scappatoia positivistica dalla scienza dell'ordine), non considerò affatto tutti i "valori" come uguali. Egli non sì dedicò affatto a una inutile raccolta di materiali qualunque, ma manifestò sensibilissime preferenze per fenomeni ritenuti "importanti" nella storia del genere umano; e seppe fare una netta distinzione fra grandi civiltà e fenomeni secondari, meno importanti, come pure tra "religioni mondiali" e fenomeni religiosi di scarsa importanza. In mancanza di un principio di teorizzazione razionalmente fondato, egli si lasciò guidare non dai "valori", ma dalla auctoritas majorum e dalla propria sensibilità per quanto c'è di più elevato.

Fino a questo punto, dunque, l'opera di Weber può essere considerata come un fruttuoso tentativo dì disincagliare la scienza politica dalle secche della metodologia e di conferirle dignità e validità teorica. La nuova teoria verso la quale stava procedendo, tuttavia, non poté diventare esplicita, perché egli rispettò religiosamente il tabù positivistico nei confronti della metafisica.

Ma, in sua vece, qualcos'altro divenne esplicito, perché Weber voleva essere esplicito, come dev'esserlo ogni teorico, in fatto di princìpi. In tutta la sua opera egli cercò di fornire una esplicazione della sua teoria sotto il titolo di costruzione di "tipi". Non è possibile, in questa sede, illustrare le varie fasi attraverso le quali passò questo tentativo di esplicazione. Nell'ultima fase egli fece riferimento a tipi di "azione razionale" considerandoli come i tipi standard e trattò gli altri tipi come deviazioni dalla razionalità. Questo modo di procedere dovette apparire ovvio a Weber, perché egli concepiva la storia come evoluzione verso la razionalità e la sua propria età come il punto più alto fino allora raggiunto dalla "autodeterminazione razionale" dell'uomo. In maniera più o meno esauriente egli applicò questa teoria alla storia economica, politica e religiosa e, più compiutamente, alla storia della musica. La concezione generale derivava naturalmente dalla filosofia della storia di Comte; e l'interpretazione weberiana della storia può a giusto diritto essere considerata come l'ultimo dei grandi sistemi positivistici. Ma, nella realizzazione del piano di Weber, si avverte un accento nuovo. L'evoluzione del genere umano verso la razionalità della scienza positiva era per Comte uno sviluppo nettamente progressivo; per Weber era un processo di disincantamento (Entzauberung) e di dedivinizzazione (Entgottlichung) del mondo. Col suo acuto rimpianto per la scomparsa dell'incanto divino dal mondo, con la sua accettazione del razionalismo come una fatalità da sopportare ma non da desiderare, col manifesto rincrescimento che la sua anima non fosse all'unisono col divino (religiós unmusikalisch), egli mostrò chiaramente di sentirsi partecipe del dolore di Nietzsche, benché, nonostante quella sofferta confessione, la sua anima fosse abbastanza all'unisono col divino da impedirgli di seguire Nietzsche nella sua tragica rivolta. Egli sapeva quel che cercava, ma qualcosa gli impedì di trovarlo.

Egli vide la terra promessa, ma non poté entrarvi.

 

4. Con l'opera di Max Weber il positivismo giunse al suo termine ed emersero le linee lungo le quali doveva compiersi la restaurazione della scienza politica. La correlazione tra un "valore" costituente e una scienza costituita "libera da giudizi di valore" era venuta meno e i "giudizi di valore" rientravano nella scienza sotto forma di credenze "legittimatrici" che creavano un'unità di ordine sociale. L'ultimo baluardo era la convinzione di Weber che la storia procedesse verso un tipo di razionalismo che relegava la religione e la metafisica nel campo dell' "irrazionale". Ma diventò un baluardo trascurabile, dal momento che ci si rese conto che non era necessario espugnarlo, ma che si poteva benissimo aggirarlo e riscoprire la razionalità della metafisica in generale e dell'antropologia filosofica in particolare, cioè delle aree della scienza dalle quali Max Weber si era tenuto scrupolosamente lontano.

L'enunciazione del rimedio è più facile della sua concreta applicazione. La scienza non si riduce alla conquista solitaria di questo o di quello scienziato particolare: essa è uno sforzo cooperativo. Il lavoro scientifico, in realtà, è possibile solo nell'ambito di una tradizione culturale e intellettuale. Quando la scienza è completamente in rovina come lo era intorno al 1900, la semplice riscoperta della capacità di padroneggiare la teoria diventa un arduo compito, per non parlare della quantità di materiale che si deve rielaborare per ricostituire l'ordine di rilevanza dei fatti e dei problemi. Inoltre, non bisogna sottovalutare le difficoltà particolari in cui si dibattono coloro che tentano tale ricostituzione, dato che la formulazione di idee apparentemente nuove e singolari finisce inevitabilmente con l'incontrare la resistenza dell'ambiente. Basterà un esempio a facilitare la comprensione della natura di queste molteplici difficoltà.

Weber, come abbiamo ora accennato, concepiva ancora la storia in senso positivistico come progresso del razionalismo. Tuttavia, dal punto di vista di una scienza dell'ordine, l'esclusione della scientia prima dal regno della ragione non rappresenta un incremento, ma un decremento di razionalismo. Quello che Weber, sulla scia di Comte, considerava come razionalismo moderno si sarebbe dovuto reinterpretare come irrazionalismo moderno. Questa inversione del significato socialmente corrente dei termini avrebbe incontrato fatalmente una certa ostilità. Ma la reinterpretazione non poteva fermarsi a questo punto. Il ripudio di scienze che avevano già avuto ampio sviluppo e il ritorno a un più basso livello di razionalità avrebbe dovuto ovviamente avere motivazioni profondamente radicate a livello di esperienza.

Una più attenta indagine avrebbe necessariamente messo in luce l'esistenza di certe esperienze religiose alla base del rifiuto di riconoscere la ratio dell'ontologia e dell'antropologia filosofica; e, di fatto, negli anni 1890, cominciarono i tentativi di interpretazione del socialismo come movimento religioso, tentativi che sboccarono più tardi nell'ampia ricerca sui movimenti totalitari come nuove forme di "mito" o di religione.

Questa ricerca, inoltre, finì col porre gli studiosi di fronte al problema generale di una connessione tra tipi di razionalità e tipi di esperienza religiosa. Certe esperienze religiose si sarebbero dovute considerare superiori, altre inferiori, in base al criterio aggettivo del grado di razionalità implicito nella loro interpretazione della, realtà. Le esperienze dei filosofi, mistici della Grecia e del cristianesimo si sarebbero dovute considerare superiori perché consentivano la fioritura della metafisica; le esperienze religiose di Comte e di Marx inferiori perché negavano la possibilità stessa di proporre problemi di natura metafisica.

Considerazioni di questo genere avrebbero dovuto scardinare la concezione positivistica di un'evoluzione del genere umano da una primitiva fase religiosa o teologica verso il razionalismo e la scienza, in questa prospettiva l'evoluzione procedeva invece da un superiore a un inferiore grado di razionalismo, almeno per quanto riguarda il periodo moderno; inoltre, questo declino della ragione non poteva non essere interpretato come conseguenza di un regresso religioso. Si sarebbe dovuto, insomma, rivoluzionare totalmente un'interpretazione della storia occidentale che era andata maturando nel corso di secoli; ma una trasformazione tanto radicale avrebbe incontrato l'opposizione dì tutti i "progressisti" che venivano di colpo a trovarsi nella posizione di retrogradi irrazionalisti.

Le possibilità di una reinterpretazione del razionalismo, come pure della concezione positivistica della storia, sono state espresse al condizionale per indicare il carattere ipotetico di una restaurazione della scienza politica a cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo. Idee del genere di quelle formulate più sopra erano abbastanza diffuse, ma lunga era la strada che restava da percorrere per passare dalla constatazione che nelle condizioni della scienza c'era qualcosa che assolutamente non andava, alla precisa comprensione della natura del male; come pure lunga era la strada che restava da percorrere per passare dalle intelligenti congetture sulla direzione da dare alle ricerche fino al raggiungimento dell'obiettivo. Insomma, molte condizioni dovevano essere preventivamente adempiute prima che le prospettive enunciate in forma ipotetica potessero diventare realtà. Si doveva ritornare di nuovo alla comprensione dell'ontologia e recuperare la padronanza della speculazione metafisica e, in particolare, si doveva riportare l'antropologia filosofica alla dignità di scienza.

Dai nuovi standards così raggiunti era possibile individuare con precisione e con rigore tecnico la particolare natura dell'irrazionalità propria della posizione positivistica. A questo scopo era necessario analizzare con cura le opere dei maggiori pensatori del positivismo, per scoprirvi il loro rifiuto critico dell'argomentazione razionale; era necessario, per esempio, mettere in evidenza i passi delle opere di Comte e di Marx nei quali questi pensatori riconoscevano la validità delle questioni metafisiche, ma si rifiutavano di prenderle in considerazione, perché questo avrebbe impedito loro di persistere nella loro visuale irrazionale.

Procedendo nella ricerca, fino all'individuazione delle motivazioni dell'irrazionalismo, il pensiero positivistico finiva con l'apparire, sempre in base alle fonti, una variante del pensiero teologizzante e se ne dovevano diagnosticare le soggiacenti esperienze religiose. Questa diagnosi poteva essere formulata con successo soltanto se una teoria generale dei fenomeni religiosi fosse stata elaborata in misura tale che consentisse di sussumere il caso particolare nell'ambito di un tipo. L'ulteriore generalizzazione in merito al nesso fra gradi di razionalità ed esperienze religiose, e il confronto con gli esempi greco e cristiano, richiedevano uno studio su nuove basi della filosofia greca, onde fosse messa in evidenza la connessione tra la fioritura della metafisica greca e le esperienze religiose dei filosofi che l'avevano elaborata; successivamente, lo studio della metafisica medievale doveva mettere in evidenza la parallela connessione per quanto riguarda il caso cristiano. Inoltre, tale studio doveva mettere in evidenza le peculiari differenze tra la metafisica greca e la metafisica cristiana che potevano essere attribuite alle differenze religiose. Compiuti tutti questi studi preparatori, elaborati i concetti critici per la trattazione di questi problemi, fondate sulle fonti le relative asserzioni, si doveva poi intraprendere lo sforzo conclusivo, quello cioè della ricerca di un ordine teoreticamente intelligibile della storia, nell'ambito del quale questi multiformi fenomeni trovassero il loro criterio organizzatore.

Questo sforzo di restaurazione è stato effettivamente intrapreso ed oggi è pervenuto a un punto tale da consentirci di affermare che sono state gettate almeno le fondamenta di una nuova scienza dell'ordine. Una descrizione dettagliata di un'opera di così largo respiro esula dai limiti del presente lavoro, anche perché dovrebbe assumere il carattere di una sintesi di storia della scienza nella prima metà del secolo XX. (2)

I saggi sul problema della rappresentanza, raccolti nel volume, si propongono di avviare il lettore alla comprensione di questo processo e di fargli intendere quali prospettive concrete esso apra a una restaurazione della scienza politica.

 

Eric Voegelin

_____

NOTE

(1) L'ontologia è lo studio dell'essere, ovvero di ciò che è, esiste, è pensabile. L'ontologia è in effetti l'ultimo mattone del castello di domande che ci possiamo porre. Essa riassume in un senso profondamente teoretico, la domanda intorno al senso profondo d'ogni cosa (Nota del correttore di bozze).

 

(2) La storia intellettuale della prima meta del secolo XX è estremamente complessa, perché è la storia di una lenta ricostruzione (con molti tentativi falliti) dalla totale distruzione della cultura intellettuale nella seconda metà del secolo XIX. Uno studio critico di questo processo sarebbe oggi forse ancora prematuro, essendo il campo tuttora ingombro dalla polvere della lotta; e, di fatto, nessuno studio complessivo di questo genere è stato ancora tentato. È stata tuttavia recentemente pubblicata un'introduzione alla filosofia contemporanea che (nonostante presenti alcune deficienze tecniche) dimostra quanto in questo campo si possa fare già fin d'ora; si tratta dell'opera di I.M. Bochenski, Europaische Philosophie der Gegenwart (Berna 1947). Nella sua interpretazione l'autore si lascia guidare dalle due epigrafi riportate in testa al volume; quella di Marc'Aurelio: "Il filosofo, questo sacerdote e collaboratore degli dèi", e quella di Bergson: "Anche la filosofia ha i suoi scribi e farisei". Le varie filosofie vi sono classificate in relazione al loro valore come ontologie, dalle inferiori alle superiori, in capitoli che recano i titoli di "Materia", "Idea", "Vita", "Essenza", "Esistenza", "Essere". L'ultimo capitolo, dedicato ai filosofi dell'essere, tratta dei metafisici inglesi e tedeschi (Samuel Alexander, Alfred N. Whitehead, Nicolai Hartmann) e dei neotomisti. Il primo capitolo tratta delle filosofie di grado inferiore, risalendo via via dal livello più basso, con Bertrand Russell, col neo-positivismo e col materialismo dialettico.