Unioni di fatto: un oggettivo disprezzo per la famiglia vera e propria
di Alessandro Maggiolini

Può essere utile accennare alla trascuratezza - se non proprio al disprezzo - di cui è circondata la famiglia, questa "risorsa più preziosa e più importante di cui la Nazione italiana... dispone",

come insegna il Papa. Essa, infatti, "è ben poco aiutata per la debolezza e l'aleatorietà delle politiche familiari, che troppo spesso non la sostengono in modo adeguato né economicamente né socialmente. Occorre ricordare qui il chiaro dettato della Costituzione italiana, che afferma: "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi"". Questa citazione è presa dal discorso che

Giovanni Paolo II ha tenuto il 28 giugno scorso: un discorso nel quale il Papa esorta ancora una volta i credenti e gli uomini di buona volontà perché siano premurosamente attenti "alle leggi e

alle istituzioni, nelle quali si esprimono e dalle quali vengono sostenute, o invece danneggiate, la cultura e le convinzioni morali di un popolo".

In tale intervento il Sommo Pontefice si vede monotonamente ma inevitabilmente costretto a richiamare le verità fondamentali circa la famiglia: quelle che dovrebbero essere intuitive, evidenti, lampanti, solari, indiscutibili, innegabili, inoppugnabili, incontrovertibili, pacificamente ammesse; ma che pure così non sono nello scardinamento dei valori umani in cui siamo tutti coinvolti. I periodi più corrotti della storia obbligano a riprendere l'ovvio e a ripresentare ciò che il più disarmante buon senso mostrerebbe d'istinto.

Afferma ancora il Papa: "... Preoccupante è l'attacco diretto all'istituto familiare, che si sta sviluppando sia a livello culturale che nell'ambito politico, legislativo e amministrativo. Esso ignora e distorce il significato della norma costituzionale con la quale la Repubblica italiana "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" (art. 28). È chiara infatti la tendenza a equiparare alla famiglia altre e ben diverse forme di convivenza, prescindendo da fondamentali considerazioni di ordine etico e antropologico".

Risulta chiara da questo brano, in primo luogo, la non possibile equiparazione di "unioni di fatto", pur relativamente stabili, con la famiglia vera e propria. Di mezzo c'è non solo un rito

sacramentale - per chi crede - e un atto di denso significato civile per tutti: di mezzo c'è, in primo luogo, un'ambigua concezione individualistica e sfruttante della vita: una mentalità

e un costume oggettivamente derivati dal più desolante egoismo.

Tale concezione si traduce in una struttura che, da una parte, intende scostarsi o contrapporsi alla società e, dall'altra, proprio dalla stessa società e anzi dallo Stato pretende di essere

riconosciuta.

Non è chi non veda che una simile diffusa situazione di "libere convivenze" - libere da chi? da che cosa? - non consente l'insorgere e lo svilupparsi di un autentico amore coniugale, e penalizza le vere famiglie un poco sotto tutti gli aspetti: da quello culturale a quello legale, a quello abitativo, a quello generalmente economico, a quello ereditario, a quello fiscale, ecc.

La coppia infatti può, a volta a volta, presentarsi o come unita o come disgiunta, secondo l'interesse prevalente del momento.

Chi si unisce in matrimonio e con il coniuge si esprime nella famiglia attraverso la vita donata ai figli, assume responsabilità che non possono essere misconosciute né ridotte all'arbitrio di

manovra che si riservano i "conviventi".

Una convalida di tali "unioni spontanee" da parte di pubblici poteri implicherebbe - volens nolens - un oggettivo disprezzo della famiglia vera e propria. Metterebbe inoltre i cittadini sposati religiosamente nella tentazione di usufruire dei vantaggi che reca, sotto il profilo statuale, la cosiddetta "famiglia di fatto". Con anche maggiore facilità tale coonestazione

legislativa discriminerebbe coloro che intendono limitarsi al matrimonio civile e che sarebbero posti concretamente perfino in una situazione di più acuta istigazione a evitarlo. La minaccia o lo scadimento del "senso dello Stato" in tale condizione possono essere facilmente immaginati.

Un'approvazione legislativa civile di tali "convivenze spontanee" - istintuali? - equivarrebbe, di fatto, non solo a favorirle, ma a incentivarle.

La presa di posizione di Giovanni Paolo II - ma non si tratta ancora che di "buon senso" - rifiuta a maggior ragione di equiparare alle famiglie autentiche le convivenze di tipo omosessuale. Non è che la fede e la ragione condannino per principio come moralmente responsabile e colpevole ogni tendenza omofilica nella persona umana. Tale tendenza altro non è che una realtà di cui prendere atto e da contrastare. Essa può presentarsi in diversi gradi di intensità e rimanere allo stadio di tendenza, appunto, senza passare all'azione o all'abitudine: ancor più, senza passare alla situazione di coppia. A questo riguardo occorrerà riconoscere l'inviolabile dignità di ogni persona umana, anche omosessuale. Occorrerà però riconoscere pure l'evidenza: di una non perfetta "eguaglianza" tra persone umane. Non solo dal punto di vista sessuale, ma anche a motivo di qualche dote particolare e di qualche "anomalia" che si possono riscontrare in questo settore e in altri della vita umana. Un poco come si può essere bassi o alti, diritti o sciancati, longilinei od obesi, ecc., analogamente ci si può scoprire eterosessuali od

omosessuali in varia intensità. Senza negare possibili componenti di intelligenza, di sensibilità, di emozione, di eroismo, ecc. che in queste e simili situazioni "diverse" si possono registrare e perfino accentuare. Si può essere omofilici e inventori e artisti e poeti e musicisti e perfino santi a un tempo.

Ciò che il "senso comune" non accetta - o non dovrebbe accettare - è l'ostentazione magari chiassosa e addirittura la pretesa di costituirsi in "famiglie" da parte di persone dall'orientamento omosessuale. Il "vanto" dell'omofilia pubblicizzata può essere letto come il tentativo sofferto - e rabbioso, talvolta - di esibire una "normalità" almeno dubbia. Le coppie omofiliche non appaiono né identiche né abbastanza analoghe con le famiglie vere, perché possano anch'esse venire denominate famiglie, appunto. L'equivocità va lasciata tale, quando c'è e risulta evidente. (A modo di immagine e di insegnamento della Scrittura al riguardo, si possono vedere due brani spaventosi, non passati di attualità: Gen 19, 1-29; Rom 1, 18-32).

V'è da scoraggiarsi nel vedersi costretti a recare le motivazioni - per cui una coppia omosessuale non è, e non può essere, riconosciuta come una famiglia. Il mutuo completamento

coniugale viene negato, e non basta parlare di "amore" per capire esattamente a che cosa ci si riferisce: a meno di adattarsi a un linguaggio da rotocalco scadente. Quanto poi alla fecondità, spiace, ma v'è da temere che la soluzione del problema della denatalità non si risolva per questa strada: una strada che non si apre e anzi si proibisce e ripudia il futuro.

Almeno quando si tratta di coppie di maschi. Per le donne, occorre interrogarsi seriamente circa l'opportunità di una fecondazione artificiale o di forme di adozione o simili di bambini che rimarrebbero senza padre.

Ancora una volta - e per cause più gravi - si mette in crisi il "senso dello Stato", quando si procede con la politica del fatto compiuto da parte di autorità civili locali che creano registri di

"coppie gay" senza rilevanza giuridica e con evidente finalità propagandistica: si vuole così esercitare una pressione culturale perché i pubblici poteri giungano, quasi costretti, a una

legislazione permissiva al riguardo.

E di nuovo: non si riesce a comprendere quando e perché delle "formazioni sociali fondate sulla solidarietà", com'è stato detto, di due - o anche più? - persone del medesimo sesso "meritino

tutela" giuridica, economica, ecc. dal momento che sarebbero "coppie", o si limiterebbero a coabitare. Occorre insistere sul rischio - almeno sul rischio - di penalizzare le famiglie vere.

Almeno perché le "convivenze omofiliche" legalizzate tenderebbero a moltiplicarsi in base al tornaconto. Se non ci si inginocchia davanti al mito - al "dogma" illuministico - dell'innocenza dell'umanità contro ogni esperienza, queste e simili osservazioni appaiono evidenze e basta.

Circa le deviazioni possibili e concrete riguardanti la famiglia, il Papa prende in considerazione anche un aspetto decisivo della fecondità. Sostiene: "Sono ugualmente espliciti e attuali i

tentativi di dare dignità di legge a forme di procreazione che prescindono dal vincolo coniugale e che non tutelano sufficientemente gli embrioni".

Si osservi: ciò che viene rifiutato non è soltanto, come si è detto, la possibile fecondazione artificiale di donne omofiliche unite in una presunta famiglia. È anche una fecondazione artificiale che avvenga al di fuori del matrimonio e della dinamica - pur aiutata - dell'atto di amore coniugale. Soprattutto se a tale scopo si "utilizza" "materiale biologico" maschile o/e

femminile derivato da chi non è né sposo, né sposa. Si tratta della fecondazione comunemente chiamata eterologa.

I valori gravissimi in gioco sono soprattutto due: la paternità e la maternità anche fisiche che devono essere assicurate all'eventuale figlio; e l'insorgere di nuove vite umane a modo di

dono dentro una logica di autentica mutua donazione coniugale.

Tratto da L'OSSERVATORE ROMANO, Venerdì 25 Settembre 1998