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Croce e il pensiero religioso
di Augusto Del Noce
[Testo dell'intervento alla commemorazione crociana promossa dall'Unione Italiana per il Progresso della Cultura, Roma, Campidoglio, 29 aprile 1966, pubblicato in Il Veltro, 1966, IV, pp. 3-10.].

Se mi si chiedesse di riassumere in una formula complessiva l'assunto dell'intera opera di Croce, proporrei : "vivere senza religione trascendente, ma immettendo il senso del divino nell'azione storica dell'uomo, così che ogni suo atto assuma un significato religioso e non ci sia una parte profana della sua vita distinta dalla parte religiosa". Ma su quale delle due parti di questa proposizione deve cadere l'accento? L'attenzione è stata normalmente portata sulla prima, così dai fautori di Croce come dai suoi avversari, così dagli studiosi razionalisti come dai cattolici. Si è perciò detto, assolutizzando sue proposizioni, che egli fu l'avversario più intransigente delle sopravvivenze della filosofia teologizzante, ovunque le trovasse, così nei filosofi che possono esser detti suoi "auttori", Marx, Hegel e Vico, come nel filosoficamente suo fratello-nemico Gentile. Perciò egli fu spesso considerato - soprattutto a partire dalla Storia d'Europa, 1932 - come il maestro di una nuova coscienza illuministica; o addirittura, come, la definizione è del Troeltsch, un nuovo Feuerbach. Molte volte si parlò, in termini di avversione prima, poi di consenso, del suo positivismo storico, come programma di un positivismo rigoroso che renda conto anche della storia.

Vorrei ora proporre in forma sommaria tre idee.

La prima, che l'accento dev'essere portato soprattutto sulla seconda parte della formula dianzi avanzata: cioè che non ci si può render conto dell'opera di Croce, se non si vede in lui un pensatore essenzialmente religioso, all'interno di un presupposto mai messo in discussione, quello per cui l'età della trascendenza religiosa sarebbe ormai conclusa.

La seconda, che se non viene accettata questa interpretazione, ci si trova costretti a escludere Croce, come pensatore eclettico, dalla storia della filosofia vera e propria.

La terza, che esiste nel suo pensiero una contraddizione dinamica tale da dover condurre a fare oggetto di problema l'immanentismo accolto come presupposto.

L'interpretazione della filosofia crociana come intesa alla restaurazione del divino in un mondo in cui lo sviluppo dell'esigenza critica avrebbe tatto scomparire il Dio trascendente si impone se si porta l'attenzione sugli scritti ultimi; intendendo il periodo ultimo in senso ampio, dall'inizio della seconda guerra mondiale alla morte. Estremamente significativo mi sembra questo passo del suo libro del 1941 Il carattere della filosofia moderna: "Lo storicismo assoluto non nega il divino, perché non nega il pensare filosofico, ma nega unicamente la trascendenza del divino e la metafisica che gli corrisponde; diversamente, dal positivismo, empirismo, e prammatismo che, per liberarsi dalla trascendenza della metafisica, sopprime il filosofare stesso... Quale non dico, identità, ma affinità, può essere, dunque, tra i due? Se mai, lo storicismo si sente più affine alle religioni e alla vecchia e adesso combattuta e sorpassata metafisica, la quale, a modo suo, accoglieva e pensava il divino, che non all'arido positivismo, empirismo prammatismo". E’ un passo che merita di venir analizzato riga per riga; come quello, a mio credere, che meglio permette di fornire i criteri interpretativi dell'intero suo pensiero. Se il pensiero filosofico è sempre pensiero del divino, la così ripetuta frase crociana secondo cui ogni proposizione filosofica è sempre soluzione di un problema storico particolare, deve venire interpretata in un senso diverso dall'abituale. La storicità di un pensiero che, come pensiero del divino, è sempre lotta contro falsi dei, per una sua raffigurazione sempre meno inadeguata; sta nel suo essere promossa da un'occasione storica; il divino non può cioè essere colto direttamente; ma si manifesta in diversi aspetti, a seconda delle varie forme di irreligiosità che l'uomo come servo di Dio si trova storicamente a combattere. "Così la mente percorre ogni parte della realtà come suo dominio, e tuttavia non può attingere l'Uno se non come questo percorso stesso, nel quale va sempre abbracciata con l'Uno. Quel che è impossibile attingere è l'unità sciolta da questo abbraccio...". Questa espressione, in un testo del 1947, non è certamente fortuita. Sembra significare che la differenza tra il filosofo della storia e lo storicista - intendendo lo storicismo in quel senso che specifica la posizione del Croce e la differenzia da ogni altra - stia in questo, che il primo pretende di cogliere il "senso della storia"; e con ciò di "fissare" Dio, mentre il secondo ha un senso di umiltà verso il divino, che gli vieta questa pretesa. Si aprirebbe con ciò la via per una caratterizzazione singolare della filosofia di Croce, come del tentativo della trascrizione della teologia negativa nella filosofia dell'immanenza del divino, lo stesso passaggio dalla trascendenza all'immanenza essendo richiesta dalla negatività della teologia: sotto questo angolo dovendo venir interpretato così il tratto specifico del suo storicismo, come la tesi della non definitività della filosofia per ciò che essa radicalmente diverge dal sociologismo, cioè dalla totale riducibilità delle filosofie al contesto storico a cui appartengono. A partire di qui dovrebbero pure essere intese le sue critiche agli altri filosofi del divino immanente, a Hegel e a Gentile come a coloro che tale immanenza non hanno saputo realizzare, così che si è data nei loro seguaci la separazione tra una destra (platonica, negli hegeliani, agostiniana nei continuatori spiritualisti di Gentile) e una sinistra (atea negli hegeliani, empiristica o positivistica nei gentiliani). Sotto questo rapporto la sua posizione storica potrebbe essere definita come quella del "vicinano dopo Hegel", cioè dopo l'accettazione dell'immanentismo hegeliano: realizzare la filosofia del divino immanente importa si esca dall'hegelismo, pur conservandone, la verità; e perciò egli rifiuta l'appellativo di neohegeliano.

Quanto alla maggiore affinità dichiarata da Croce tra la sua filosofia e la vecchia metafisica rispetto alle posizioni che egli nomina come positivismo, empirismo e prammatismo, penso si possa chiarirla richiamandosi all'opposizione stabilita da Max Scheler tra due tipi di visione della vita, quello ispirato all'idea dell'homo sapiens e quello ispirato all'idea dell'homo faber. Al primo, che storicamente fu la scoperta dei Greci, capitò la maggiore disgrazia in cui un'idea possa incorrere: il prendere il carattere di un'evidenza indiscussa, di una cosa che va da sé. Fu appunto per Scheler - e questo Croce non lo intese e sta qui il momento della sua inattualità - il grande merito di Nietzsche l'aver compreso che l'idea tradizionale di verità è logicamente connessa con la nozione di Dio e sparisce con essa, e col porre con ciò la questione radicale del senso e del valore di ciò che si chiama la verità stessa. E' forse preferibile, dato che il termine di homo sapiens è usato soprattutto nelle discipline antropologiche, definire questa visione del mondo attraverso la teoria della partecipazione che ha dominato in forma incontestata da Platone fino a Hegel, non intaccata neppure dall'antitesi di teismo e di panteismo. Soffermiamoci su alcune delle note che lo definiscono. L'uomo possiede in sé un agente di essenza divina, e questo agente e il potere che eternamente modella e organizza il mondo sono ontologicamente, o almeno quanto al principio, una sola e stessa cosa: onde l'attitudine della ragione alla conoscenza del mondo. Ma platonismo ed hegelismo divergono rispetto a un'altra nota. Per il platonismo e per il pensiero cristiano, questo agente resta assolutamente lo stesso attraverso la storia, mentre per l'hegelismo l'uomo deve accedere in un processo di divenire alla coscienza crescente di ciò che è dall'eternità secondo la sua idea; ed è in questo processo che la divinità eterna prende nell'uomo coscienza di se stessa. Ora, l'opera filosofica di Marx sta, a mio giudizio, nel passaggio da questa negazione a quella dell'altro carattere che specifica l'idea dell'homo sapiens, giungendo così all'antropologia dell'homo faber, che ha come premessa prima la negazione dell'origine metafisica indipendente dello spirito e della ragione, onde la riduzione del pensiero a strumento di produzione, a intelligenza tecnica; tesi poi progressivamente accolta, anche se variamente giustificata, dal positivismo di marca nuova, e dal pragmatismo. Il pensiero crociano appartiene totalmente alla prima visione del mondo, così da non avere neppure idea della seconda e dell'aver bisogno, per combatterne la forma, di ritradurla nel linguaggio della prima. Rappresenta così l'affermazione della più radicale antitrascendenza, ma all'interno della visione del mondo caratterizzata dall'idea dell'homo sapiens. Spesso si definì il suo pensiero nei termini della più grande lotta, nel nostro secolo, della ragione contro l'irrazionalismo. Direi piuttosto che è la difesa dell'idea dell'homo sapiens, con le sue implicazioni teologiche, anche se immanentizzate, contro l'affermarsi dell'idea dell'homo faber.

L'analisi critica della filosofia di Croce dovrebbe essere quindi condotta a partire da quella definizione dell'avversario che si è veduta, e, insieme, dalla considerazione di un presupposto, il rifiuto, non più oggetto di problema, perché la sua affermazione sarebbe stata condannata dalla storia, del trascendente.

* * *

La necessità del riconoscere questa priorità del momento religioso se si vuol realmente dare un posto a Croce nella storia della filosofia, si può facilmente intendere, se consideriamo il panorama culturale dei nostri giorni. Quali sono, nel campo laico, le correnti oggi prevalenti? Marxismo, nuovo positivismo, pragmatismo, sociologismo, psicanalisi, esistenzialismo di sinistra, nuovo illuminismo; esattamente le forme di pensiero che Croce aveva combattuto. Si potrà almeno dire che questi indirizzi, nella loro rinnovata formulazione, continuino il suo insegnamento, nel senso che lo superino, ossia, lo conservino inverandolo?

No. Il nuovo positivismo, ad es., non vuole essere affatto una sintesi tra il pensiero positivistico di vecchio tipo e il pensiero crociano, ma invece la riaffermazione del positivismo, liberato da tutti quegli elementi per cui aveva ceduto dinanzi alla critica idealista; e il nuovo illuminismo non è affatto la sintesi del vecchio Illuminismo con motivi romantici, ma vuole rappresentare la totale liberazione dal romanticismo; e la nuova presentazione del marxismo vuole liberarlo da quegli aspetti revisionistici su cui si era esercitata la critica di Croce. Conosce oggi un nuovo rigoglio lo spirito sociologistico, ossia la spiegazione di tutte le forme della vita spirituale attraverso le condizioni sociali; è corrente la formula, che farebbe fremere Croce nella tomba, della storia come sociologia del passato.

Diceva Croce che nei riguardi del marxismo non si poteva, a rigore, parlare di superamento, perché non c'era nessuna sua verità da conservare; ma che ciò non lo dispensava dal debito di gratitudine verso di esso, perché ne aveva ricavato la suggestione per la definizione del momento economico, il riconoscimento della cui autonomia gli era stato di grande utilità nella costruzione della "filosofia dello spirito". Si può dire che oggi la posizione si è esattamente rovesciata. Per la più gran parte del pensiero laico di oggi, il pensiero filosofico di Croce è definitivamente morto: anche se molti, non tutti, tra i suoi rappresentanti, sentono per la sua memoria la maggior devozione e gratitudine.

Ma questa non va al Filosofo, ma piuttosto, per dir così, al Pedagogo. Che ha insegnato la diffidenza per il pensiero che non nasce dallo studio dei problemi concreti. Che, tra il 1900 e il 1925, fu quel maestro di studi che promosse il "risorgimento" dell'Italia culturale, come circolazione della cultura italiana e dell'europea, e come oltrepassamento delle culture regionali, vero continuatore e ultimo Grande del liberalismo laico risorgimentale, nel senso che ne rappresentò la consapevolezza teorica e ne proseguì sul piano culturale quell'opera di unificazione che il liberalismo risorgimentale aveva realizzato sul piano della realtà effettuale. Che, tra il '25 e il '43 fu quel maestro di vita morale e politica, in cui i giovani di allora riconobbero il simbolo della condanna dell'irrazionalismo penetrato nella politica, in nome della cultura, e della condanna del fascismo, in nome dello spirito risorgimentale.

Ma, quali che possano essere stati i suoi meriti, Croce apparterrebbe, in questo caso, alla storia della cultura e della vita morale, piuttosto che a quella della filosofia vera e propria, nel senso che la sua opera sarebbe troppo strettamente legata a un determinato periodo storico, a quell'età liberale, tra il '71 e 11 '14, che si suole infatti denominare spesso come l'età dei distinti. Come epoca in cui cultura e vita pratica e politica si presentavano al modo di attività distinte e coordinate; nel senso che la politica sembrava rinunciare al tentativo di modellare la realtà storica secondo l'ideale ultimo e definitivo, per la ricerca della soluzione dei problemi concreti che l'esperienza storica offriva; e che, per converso, il compito dell'uomo di pensiero si configurava come quello di chi deve preservare la purezza dell'attività conoscitiva da ogni inquinamento di schemi e di esigenze provenienti dalla pratica, di chi, insomma, deve distinguere.

Quest'età prende inizio con la sconfitta della Rivoluzione nella Comune parigina e con la caduta del potere temporale dei Papi, e vive nell'impressione di due definitivi crolli, quello dell'utopia rivoluzionaria, e quello del cattolicesimo. Ora, l'accettazione di queste due esclusioni, del pensiero rivoluzionario e della religione trascendente, caratterizza appunto il pensiero di Croce. Egli è il filosofo di un'epoca convinta che nella storia "nulla si sia perduto" e che non si siano battute false vie, che qualcosa sia definitivamente superato, senza possibilità di restaurazioni e di ritorni, e che questo sia quel che la filosofia moderna ha combattuto, la trascendenza; ed, espressione più compiuta della religione della trascendenza, il cattolicesimo. Filosofo di un mondo che continua a essere, in certa maniera, cristiano; ma di un cristianesimo che si pensava fosse proceduto oltre alla sua "medioevale" forma cattolica attraverso Rinascimento, e Riforma e Illuminismo, e Romanticismo e Storicismo, per trovare espressione moderna in una immanentistica "religione della libertà".

Ed è anche da osservare come un tale periodo storico non potesse giustificarsi davanti a se stesso che in un pensiero che, pur abolendo la trascendenza, conservasse, contro il pensiero rivoluzionario, l'idea della continuità con la tradizione; non poteva perciò cercare la sua autogiustificazione che in una filosofia che sostituisse al Dio trascendente il divino; in un eclettismo in cui il momento laico e illuminista si trova bloccato da un persistente motivo teologico e romantico e in cui il momento religioso si trova reciprocamente bloccato dal momento mondano. Vista sotto questo riguardo la filosofia di Croce rischia di apparire come l'autogiustificazione che un periodo storico fornisce a se stesso; autogiustifìcazione piuttosto che vera consapevolezza, perché gli sfuggono i fermenti che già minavano questo mondo. Non è caratteristico il silenzio, nella Storia d'Europa, su Kierkegaard, su Dostojevski e su Nietzsche, sui pensatori, appunto, della crisi?

Certamente, si può osservare come l'oltrepassamento della filosofia crociana sia richiesto dallo stesso suo canone fondamentale quello di pensare in rapporto a nuovi problemi suscitati dall'esperienza storica. Pero, nelle filosofie immanentistiche di oggi, tale oltrepassamento si profila come un annullamento, il loro distinguere nel pensiero crociano il vivo e il morto porta a dichiarare vivo l'avversario contro cui la critica crociana si era rivolta. E ciò avviene per il marxismo come per il nuovo positivismo come per l'esistenzialismo ateo.

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Diversamente si presenta la questione per il pensiero religioso. Si è già detto come la negazione della trascendenza sia in Croce un presupposto. Per sé, questa, non è una critica, ma una semplice constatazione. Non c'è filosofia che non parta da un presupposto. Così, i pensatori, medioevali partivano da quello di un'indiscussa Rivelazione divina, contenente una teologia della storia umana (il dramma della caduta e della Redenzione, del peccato e della Grazia). I filosofi, che abitualmente vengono detti moderni, nel senso di razionalisti, non differiscono dal teologo medioevale che nel loro partire da una nuova storia sacra, che rifiuta soprannaturale e Rivelazione; da una filosofia, cioè, non più da una teologia della storia. Si potrebbe forse dire, e lancio qui l'idea senza approfondirla, che ogni filosofia è sempre una teologia, perché la "filosofia della storia" non è che uno sviluppo eterodosso del pensiero gioachimita. Al quale, lo stesso Croce non può non fare riferimento al momento di concludere il capitolo che nella Storia d'Europa nel secolo decimonono ha dedicato alla "religione della libertà": "...quella terza età, l'età dello Spirito, che nel secolo dodicesimo Gioacchino da Fiore aveva profetata, e ora si schiudeva dinanzi all'umana società che l'aveva preparata e aspettata". La domanda che deve invece venir posta è se la continuazione del momento critico di una filosofia non debba portare a porre in discussione lo stesso presupposto iniziale nel cui orizzonte si è formata. Nel caso di Croce, prende questa forma: si può dire riuscito, o continuabile, il suo tentativo di separare, attraverso l'immanentismo, religione da mitologia?

Occorre sin dall'inizio osservare come non si sia trattato per lui di un presupposto passivamente accolto, così che si potrebbe scartarlo senza alterare il significato delle sue ricerche metodologiche. Perché si è trattato invece di un principio coscientemente affermato e portato alle conseguenze ultime; e tale da condizionare il senso di ogni sua affermazione parziale.

L'ultimo periodo del pensiero di Croce, in cui il problema centrale è rappresentato dalla definizione del male, fornisce, nel riguardo della definizione del presupposto, una risposta decisiva. Il male, la negatività è rappresentata dal vitale; e "vitalità" ha il significato di egoità e di individualità. "La forma della vitalità - scrive egli in Filosofia e Storiografia - riceve facilmente la denominazione metaforica di materialità e di animalità, laddove bisognerebbe definirla per quel che veramente è: la forma della mera individualità". Ci si può chiedere se si introduca così un momento dualistico e pessimistico nel pensiero crociano, ossia se non riemerga, non vinto, quel pessimismo iniziale di cui egli pensava aver trionfato. Rispondere a ciò è difficile, e quel che si può dire è che Croce fa ogni sforzo per non cadere nel dualismo e nel pessimismo. Da ciò il suo nuovo richiamo a Hegel in quegli ultimi anni e la definizione del significato della scoperta della dialettica: "a chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha redento il mondo dal male, perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale".

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Intendiamo a questo punto la ragione per cui Croce deve evitare di porre il problema dell'immortalità dell'anima individuale; perché, in dipendenza della sua concezione dell'individualità, essa gli appare suggerita dall'egoismo umano. Le sue frequenti irrisioni contro il "sovramondo" e contro i "massimi problemi" trovano dunque origine non già in una sordità alla religione, come fu spesso asserito, ma in una motivazione specificamente religiosa. Questa determinazione nell'individualità del principio del male è infatti perfettamente coerente con il razionalismo religioso, nel senso di esclusione del sovrannaturale. Infatti, il razionalismo religioso quando pone il problema del male avendo escluso il mistero della creazione divina, non può non ravvisarne il principio che nella stessa individualità e finitezza dell'uomo. Che, per Croce, si redimono nell'opera (onde la caratterizzazione, esatta, della sua filosofia, come "filosofia delle opere"). È da osservare come con la categoria della vitalità si trovi ristabilito il peccato di origine. È sotto questo riguardo che prende forma ultima la critica crociana al pensiero utopistico e rivoluzionario, al pensiero, cioè, che parla di liberazione definitiva, per via politica, del mondo dal male.

L'accentuazione, o meglio la dichiarazione esplicita, del primato del momento religioso lo porta a un'interpretazione della storia contemporanea che è in termini politico-religiosi e non politico-economici, o che anzi è la più decisa tra quante furono affermate in questo senso: "Ma eccomi ritornato a uno dei miei pensieri che, per essere stato più volte ripetuto, rischia di prender l'aria di una fissazione. Al pensiero che la crisi presente nel mondo sia la crisi di una religione da restaurare o da ravvivare o da riformare, e che a soccorrere ad essa non bastino i soli politici e guerrieri, ma ci vogliano i geni religiosi e apostolici, dei quali noi, non vedendo la presenza, non perciò non sentiamo, più o meno oscuramente, il bisogno, e come una tacita invocazione, nei nostri cuori". Due espressioni sono da sottolineare in questo passo: "religione da restaurare, o da ravvivare o da riformare". Non si tratta dunque di una religione nuova, ma di una purificazione della religione già esistente. Con la "religione della libertà" non si esce perciò dal cristianesimo, ma lo si presenta nella sua forma più pura, la filosofia moderna avendo rappresentato non già la sua negazione, ma la sua purificazione; onde la prospettiva storica da lui delineata nel noto scritto "perché non possiamo non dirci cristiani", onde il suo appello, alla fine della seconda guerra, a "un risveglio cristiano". Ma proprio perché egli pensava di aver chiarito la forma più vera di religione nella religione della libertà, non riesce agevole intendere il bisogno e l'invocazione a geni religiosi ed apostolici di cui non si vede la presenza.

Ha avuto l'impressione di un'insufficienza della sua immanentistica religione della libertà? Se stiamo ai testi non troviamo, mi pare, al riguardo, altro passo che questo : "La redentrice non dogmatica religione della libertà che aveva suscitato fervori, apostolato, e martirii e sacrifici ed entusiasmi, quasi oltre la metà dell'ottocento, era troppo aristocratica e fine e troppo elevata di natura sua, e non si riusciva a tradurla, e anzi ripugnava a tradursi, nelle ideologie che le moltitudini chiedono". E tuttavia a me pare di scorgere, nella frase prima ricordata, il sentimento vissuto che il suo pensiero, perché sorto in una situazione storica diversa, non si trovasse ora più completamente adeguato e necessitasse sì di essere ripreso, ma dopo una rottura, continuato, ma dopo una negazione; e lo collegherei quindi alle righe finali dello scritto Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, che, come è stato già più volte osservato, hanno un sottinteso significato autobiografico, ed esprimono questo stato d'animo.

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Ma perché vi siano rottura e continuazione, c'è bisogno di una contraddizione dinamica. Ora la contraddizione fondamentale, in cui incorre il pensiero crociano, può venire formulata così: per un verso il suo storicismo è l'"affermazione che la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia ‘il che implica’ che le idee o valori, che sono stati assunti a modelli e misure della storia, non sono idee e valori universali, ma fatti particolari e storici essi stessi, malamente innalzati a universali"; ma per altro riguardo la sua negazione così del pensiero religioso trascendente, come del pensiero rivoluzionario, porta, per via indiretta, a innalzare a modello un particolare periodo storico, l'età liberale-borghese '71-'14. Ma ciò segna il fallimento della proposta purificazione della religione dall'elemento mitico attraverso la filosofia del divino immanente. Nel mito, ossia nell'assolutizzazione dell'empirico, è proprio questa filosofia a cadere. L'insegnamento che si può trarre da Croce è che il pensiero religioso può affermarsi soltanto accentuando, non negando, il momento della trascendenza; ed è questa poi la linea della filosofia religiosa più recente. Pensiero che può venire formulato anche in questi termini appena differenti: la sua critica della filosofia della storia, come laicizzazione della direzione teologica gioachimita, non è stata condotta sino in fondo, tanto è vero che resta, immutata, la visione del periodizzamento storico che ne deriva, il carattere e il pensiero della civiltà moderna visti in una progressiva liberazione dalla trascendenza.

Rottura dunque decisiva col pensiero crociano. Ma, tuttavia, rottura in una continuità, se nessuno come Croce difese contro le suggestioni pantecnicistiche la visione della vita centrata sull'idea dell'homo sapiens, e se oggi il processo di ritrovamento del pensiero religioso è, prima di tutto, ritrovamento di tale visione.