Clicca qui sopra per tornare alla pagina iniziale del sito

 

IL MITO DEL PROGRESSO
di Marcel de Corte
(Testo di una conferenza tenuta ai "Martedì universitari" dell’Università di Laval)

La nozione di progresso è tipicamente moderna: per millenni, gli uomini l'hanno ignorata, tanto che le lingue antiche non possiedono neppure la parola per esprimerla.

La concezione dei nostri padri è l'opposto del progresso: è l'Età dell'Oro, collocata nel passato più remoto, epoca felice e gloriosa dalla quale le generazioni si sono sempre più allontanate:

Aetas parentum prior avis tulit
nos requiores, mox daturos
progeniem vitiosorem
.

Per misurare il cammino percorso, basta confrontare questi versi di Grazio con questi altri di Victor Hugo:

Sull'orizzonte nuovo, come una fumata
fugge l'antica storia, orribile, deforme:
il Tempo è venuto...

Valéry ha espresso questo mutamento della storia in una formula comprensiva: "Il fatto nuovo tende ad assumere tutta l'importanza che avevano fin qui il fatto storico e la tradizione".

I nostri avi sapevano che l'uomo è un essere limitato in ogni senso: se tenta di superarsi, il tentativo finisce nell'insuccesso, nella rovina, nella morte. La leggenda di Prometeo concorda con il racconto del Genesi: diventare uguale agli dei è il peccato per eccellenza. Per il saggio greco, la massima "conosci te stesso" significa che l'uomo deve riconoscersi mortale di fronte agli dei immortali. Per il cristiano, l'infinita distanza che separa l'uomo dal Padre celeste si può colmare soltanto se l'uomo ridiventa bambino. In preda al "progresso", il razionalismo moderno non ha visto in questo atteggiamento se non una "regressione verso uno stato infantile".

I nostri antenati inoltre ritenevano che ogni cosa umana avesse il suo aspetto buono e il suo aspetto cattivo, secondo la più rudimentale esperienza. Erano cosi persuasi della legge dell'alternarsi di bene e di male nella vita dell'uomo, che una felicità permanente, continua, senza nubi, li spaventava come presagio di una grande catastrofe. Avendo il senso dell'assoluto e di ciò che non possiamo possedere, avevano anche il senso del relativo. È vero che la pace è dolce, ma essa rammollisce; la scienza è preziosa, ma rende inclini all'orgoglio; la ricchezza è allettante, ma non reca la felicità. In senso inverso, la guerra è atroce, però genera l'eroismo; l'ignoranza è ridicola, ma protegge entro il suo guscio la perla del buonsenso, come la scorza di un frutto ne preserva la polpa.

"Mi piacciono i contadini", diceva Montesquieu, "perché non sono abbastanza istruiti da essere imbecilli". La povertà è dura ma tempra il carattere. Quello che si guadagna da una parte si perde dall'altra. "Ciò che arriva col suono allegro del flauto se ne va col tamburo da morto", diceva la mia vecchia nonna. Nulla nell'esistenza umana è perfetto o portato alla perfezione. Perfino i valori più alti ai quali l'uomo può giungere, il Vero, il Bello, il Bene, hanno anch'essi le loro ombre, non foss'altro perché sono le cose più precarie e più minacciate. Nessuno può mantenersi al loro livello senza sforzo, senza sofferenza. In ogni cosa, l'abisso sta accanto alla vetta.

L'esperienza austera della vita aveva insegnato ai nostri avi che tutto si paga. Ogni sviluppo positivo si accompagna con uno negativo, come nella vita stessa che nasce e cresce, declina e termina nella morte, per prolungarsi in un altro essere dotato dello stesso ritmo: tutto ciò che è umano è ciclico. Soltanto la grazia soprannaturale sfugge a questa legge del ciclo che regge la natura, se l'uomo le resta indefettibilmente fedele. Il solo progresso che i nostri padri abbiano mai ammesso è quello verticale, dal basso all'alto, verso ciò che si chiamava ingenuamente il cielo. L'unico progresso era per loro quello religioso, vivificato e verificato dall'esperienza e dalla pratica delle virtù teologali.

Nulla è maggiormente mortale per l'uomo in quanto tale che il perseguimento della totale perfezione. È un motivo greco per eccellenza questo orrore per la mancanza di misura. E non vi si oppone l'ordine formale espresso dal Vangelo: "Siate perfetti come il vostro Padre che è nei cieli". L'ascesa prescritta dal Vangelo non implica la continuità tra l'umano e il divino propria dello gnosticismo, ma ne sottolinea piuttosto la disparità dei piani. Poiché è nel mondo pur senza farvi parte, il cristiano è un crocifisso, come il suo Maestro. Il mondo è un vicolo nel quale l'esistenza fa il girotondo, ma questo vicolo non ha soffitto: "rorate caeli desuper". Accettare il limite è la condizione per attingere l'Illimitato.

 

Noi moderni abbiamo rinunciato a capire queste rudi e sane lezioni. Del progresso relativo con i suoi beni e i suoi mali, abbiamo fatto un progresso assoluto, con il suo bene illusorio e il suo male reale. Abbiamo fatto del progresso una specie di liquido iddio, la cui corrente irresistibile trascina l'umanità intera e il cui assordante fragore c'impedisce di cogliere le proteste dell'esperienza. Immaginiamo che l'attivo della nostra fortuna cresca all'infinito; anzi che non ci sia neppure un passivo, o per lo meno non sia degno di essere preso in considerazione. Chiamiamo crisi di coscienza quello che è invece manifesto regresso, e la formula copre tutte le nostre cadute. Guerre e rivoluzioni sono soltanto più tappe sulla strada d'un progresso orizzontale, in linea retta, che non comporta nessuna contropartita, nessun ritorno ciclico. Per molti cristiani, neppure la Croce si eleva più verso il cielo - "veritas de terra orta est" - ma è immanente al mondo, vi è interrata, ormai invisibile. Alcuni lo chiamano "fermento evangelico". Non si paga più nulla. Avanti verso il migliore dei mondi! Questo il grido di tutti! Ciascuno poi s'ingegna a buttare sulle spalle del vicino e sulla collettività il peso del progresso. È chiaro che a questo punto il progresso non costa più nulla: muore un uomo? È un incidente, un destino comune. Muoiono cento uomini? È una catastrofe che rapidamente se ne va, portata via dalla caduta quotidiana di quelle effimere foglie che sono i giornali. Muoiono diecimila uomini? È soltanto una statistica che ha l'onore di entrare nelle opere austere consacrate alla storia della civiltà. Che cosa importano le innumerevoli vittime del "progresso tecnico" e del "progresso sociale" in confronto ad una umanità finalmente unificata?

Questa la visione del progresso affermatasi da più di due secoli, nonostante la clamorosa smentita dei fatti. Confesso che un pensiero che abbia rinunciato all'esperienza e non si sforzi più di distinguere il progresso autentico da quello illusorio, mi lascia sbalordito, perché ricopre d'una vernice abbagliante quanto menzognera una quantità di fatti che vengono snaturati. Ci fa prendere lucciole per lanterne ed è simile a quell'amore di cui La Rochefoucauld ci dice che presta il suo nome a un'infinità di commerci, coi quali ha a dividere più o meno quanto il Doge con gli affari di Venezia.

Bisogna dunque esorcizzare le nostre menti da questa tenebrosa filosofia del progresso assoluto, che ci trasciniamo dietro dal secolo dei lumi, e che imbroglia tutte le nostre prospettive.

Il mito del progresso infinito riappare oggi sotto diverse forme nuove. Per gli uni, l'universo si evolve da biosfera in noo-sfera, e da questa in cristo-sfera, verso un punto Omega: un modo come un altro per reintegrare il Cristo dimenticato nella rassicurante atmosfera della finzione scientifica! Per altri, il movimento della storia porta l'umanità verso la fine di tutte le alienazioni. Le teorie dell'evoluzione e le vampate delle rivoluzioni associate stanno stregando un numero crescente di menti, con un successo da fare invidia al marchese di Condorcet sotto la ghigliottina.

Una teoria poi s'accanisce ad affermare che esiste un progresso generale, che non è quello di un essere particolare, di qualcuno o di qualcosa, ma costituisce una specie di entità gigante e maiuscola, che continuamente e in ogni modo s'accresce: un progresso del quale gli uomini sarebbero soltanto le cellule passeggere, trascinate in una corsa in avanti nel tempo e nello spazio. È la Gnosi della nostra epoca, della quale i professionisti dell'intelligenza sono per lo più gli zimbelli.

Indubbiamente, si da a volte a questo progresso una qualificazione apparentemente limitativa: si fa l'apologia del progresso delle scienze, delle arti, della società, della democrazia, dell'emancipazione dei popoli, della pace, e così via, ma, nel pensiero o meglio nell'immaginazione della maggior parte degli uomini, anche colti, si tratta soltanto di punti di vista su un progresso globale e unico che fa tutt'uno con la civiltà, l'umanità, l'universo. Non c'è dubbio che lo spirito dei nostri contemporanei è assillato continuamente dall'immagine d'un nuovo paradiso terrestre, verso il quale convergerebbero invincibilmente tutte le correnti della storia. Lo dimostra a sufficienza il prestigio persistente di dottrine mille volte ripetute dai fatti, come il socialismo o il comunismo. Sulla porta dell'Eden, l'Angelo con la spada fiammeggiante è ormai sostituito dalla scritta: "Chiuso per restauri". L'umanità odierna vive di questa promessa sempre reiterata con lo stesso successo pubblicitario.

Anche gli avversari del comunismo sono obbligati ad adottarla nella loro propaganda, tanto fa corpo con le aspirazioni delle masse: l'uomo moderno non si nutre più di passato, ma è teso verso l'avvenire. La sua visione del mondo è escatologica. Egli è persuaso che l'umanità sia trascinata, da un'età all'altra, attraverso i risucchi e le crisi di sviluppo di cui egli non deve preoccuparsi, in una marcia collettiva, verso una società perfetta in cui la felicità sarà distribuita gratuitamente a domicilio come l'acqua e il gas. Tutte le aspirazioni dell'uomo moderno verso un "avvenire migliore", verso "un domani festoso", si concentrano nel mito del progresso.

Dal 1848, questo mito non ha perduto nulla del suo favore, e non è cambiato dai suoi cantori del secolo xix: Lamartine, Hugo, Renan, e tanti altri. Sarebbe difficile scoprire un argomento nuovo che lo confermasse presso i suoi attuali portabandiera. Teiihard de Chardin assomiglia come un fratello a Edgard Quinet. Quando si legge, dalla penna di un eminente ecclesiastico attuale, che "il mondo si evolve verso un più ampio spirito ed una maggiore libertà", si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un testo di Lamennais.

Non è difficile scoprire la ragione di questo paradossale immobilismo dogmatico: la nozione del progresso non si colloca più nella sfera razionale della prova, ma in quella irrazionale del fideismo allo stato puro. Risulta da un atto di fede puro e semplice e da una massiccia affermazione continuamente ripetuta. Nessuno infatti può fornire un'ombra di prova del progresso universale. Nessuno può dimostrare che il progresso va verso il meglio. La ragione è molto semplice: se siamo incorporati tutti in un progresso universale e totale, ci è rigorosamente impossibile trovare un solo punto di riferimento dal quale giudicare il progresso che si può constatare solo in rapporto a un punto fisso. È questo che non può esistere: anche le rive del fiume scorrono come il fiume stesso o meglio non ci sono nel nostro caso né rive né fiume per il flusso universale che ci trascina. Soltanto con una finzione possiamo collocarcene al di fuori per affermare che esiste, per vederlo scorrere e per stabilirne le fasi. L'affermazione che esiste un progresso globale dell'umanità è fondata su una finzione arbitraria e su un miraggio dell'immaginazione: "chimera bombinans in vacuo". La verità è che il progresso, nel senso assoluto e singolare del termine, è un mito che non resiste un solo istante all'esame; un mito che presuppone l'esistenza di uno spettatore che, sfuggendo al progresso stesso, lo affermi e lo neghi nel medesimo tempo. Tutte le correnti della storia, atee o battezzate, sono esseri di ragione estrapolati miticamente dal relativo all'assoluto.

 

Come si è imposto questo mito? Mi pare evidente che questa convinzione priva di oggetto derivi da una fede e da una speranza cristiane, ma degradate e laicizzate.

Il mito del progresso non è altro che la trasposizione, a livello dei tempi, della beatitudine eterna promessa da Cristo agli eletti. È la versione terrestre della grande promessa del regno di Dio, il prodotto della decomposizione d'un cristianesimo che ha perduto la sua anima. "Gli istinti soprannaturali instillati nell'animo umano da parecchi secoli di cristianesimo", scrive Gustave Thibon, "sopravvivono all'estinzione della fede vivente... Materializzandosi, la sete dell'assoluto abbandona la sfera dell'eterno per collocarsi in un futuro che retrocede sempre, tanto che l'adoratore del progresso non è disilluso nella sua fede a dispetto dei fallimenti e dei misfatti del suo idolo... Imbevuto di promesse dell'assoluto, egli trascende le miserie del relativo, che sono per lui soltanto il retaggio d'una ineluttabile ascensione e le sofferenze di un glorioso parto". Poiché non c'è più un padre nei cieli, e non ci sono più cieli, non restano che uomini sulla terra, incaricati di generare l'assoluto con una specie di grottesca immacolata concezione, e destinati a diventare dei terrestri. Alla preghiera del "Pater": venga il tuo regno, Vigny ha sostituito il motivo conduttore di tutti i comportamenti dell'uomo moderno:

È venuto il tuo regno, spirito puro, re del mondo.

Questa convinzione del tutto irrazionale che s'annida nel cuore del razionalismo è anche il punto d'arrivo di un altro fenomeno caratteristico della nostra epoca: la perdita del senso del concreto, dell'individuale, del carnale, cioè dell'uomo in carne ed ossa, il cui spirito ed il cui cuore sono sempre limitati, e la correlativa assunzione di entità sociali, collettive, astratte e disincarnate, che appaiono suscettibili di estensione indefinita, e che tendono tutte, nella loro universalità logica, a martellare sistematicamente l'uomo e il mondo. Se c'è un secolo nel quale l'essere umano in carne ed ossa non conta nulla, o è ridotto a puro e semplice pretesto per le divagazioni cerebrali più scatenate, e per le più fredde generalizzazioni matematiche, è proprio il nostro: un secolo che non cessa di offrirlo in sacrificio, in decine di milioni di esemplari, agli idoli della politica e dello schedario burocratico. I contemporanei sono diventati insensibili alla presenza carnale degli altri, e alla loro stessa. Possiamo citare innumerevoli esempi: la sostituzione del sesso alla carne, della famiglia come elemento demografico ai legami familiari, delle patrie ideologiche a quelle incarnate negli uomini e nei paesi, del moralismo ai costumi, della politica ideologica a quella dell'esperienza, dei discorsi alle azioni, della quantità alla qualità, del numero all'élite, dell'economia pianificata a quella libera, della classe o massa all'individuo, del diploma alla vocazione, del grado alla capacità personale, del sapere alla saggezza, ecc... Ovunque si constata la svalutazione del concreto e, parallelamente, l'inflazione di astrazioni collettive in cui l'uomo in carne ed ossa si spersonalizza fino a diventare, al limite, niente più che apparenza. Dappertutto, il segno si sostituisce all'essere significato. Elaboriamo perfino, come dice Simone Weil, dei "segni dei segni", dei concetti dei concetti. Appena ieri austriaci, sudeti e tedeschi si raccoglievano nel concetto di razza germanica, che a sua volta sfociava nel concetto di Europa ariana. Dietro di loro, gli abitanti dei paesi occupati si accomunavano in un concetto di liberazione nazionale, che andava a diluirsi nel concetto di liberazione economica, nel quale cristianesimo e comunismo, fraternamente abbracciati, mettevano insieme i loro rispettivi paradisi. Oggi gli individui si fondono nelle loro nazioni, e queste nell'ONU. Gli esseri in carne ed ossa che popolano l'Africa del Nord e il Medio-Oriente sono inghiottiti in concetti nazionalistici, che scivolano essi stessi in quello dell'islam, e poi in quello dei popoli di colore. Sulla scena della storia contemporanea, si evolvono delle finzioni collettive, simili alle ipostasi che pullulavano nelle religioni orientali alla fine dell'impero romano. Niente da stupirsi a questo punto che tutte queste astrazioni siano a loro volta inglobate in quell'immensa astrazione delle astrazioni che è il progresso universale, l'evoluzione cosmica, il movimento della storia.

L'uomo contemporaneo, che sostituisce continuamente la rappresentazione generale e astratta degli esseri e delle cose alla loro presenza carnale e concreta, considera il progresso come il motore di un mondo del quale gli uomini in carne ed ossa non sono che passeggeri inerti e senza vita. È impossibile non riconoscere, dietro queste collettività nelle quali l'uomo si disintegra, l'azione di una forza alla quale il mondo moderno si abbandona, e che ha battezzato progresso. Lo schema più generale di tutte le astrazioni collettive che ci divorano ha nome progresso. Il principio che riunisce, impasta e scioglie tutte altre presenze concrete, si chiama progresso. Per merito suo tutto passa, niente si ferma, anzi niente gli resiste. La sua caratteristica essenziale è di essere irresistibile: trascina l'uomo sradicato nel suo flusso.

Ne deriva una conseguenza, d'una gravità estrema e troppo spesso inosservata. Nelle società del passato, non ancora afflitte dal mito del progresso, il potere, per assoluto che fosse, trovava tuttavia dei limiti, delle realtà considerate intoccabili, delle norme ritenute fisse, delle leggi divine e umane immanenti alla natura degli esseri e delle cose; barriere insuperabili, dal momento che il progresso non aveva mobilitato tutto quanto. Oggi è diverso: il mito del progresso ha eroso ogni forma di stabilità, e la conversione della realtà in idea favorisce tutte le manipolazioni, tutti i cambiamenti.

La teoria del progresso universale offre alla volontà di potenza questo inestimabile vantaggio: trasformare l'indeformabile nodo degli esseri in un fantasma malleabile, nel quale essa s'imprime senza sforzo, e del quale dirige facilmente il movimento. Per questo l'hanno adottata e propagata tutti i conquistatori del potere, e non c'è ideologia politica e sociale che non ne faccia uso, in dosi più o meno massicce. La monarchia in decadenza ne ha fatto la prova nel secolo XVIII con Turgot; la decaduta aristocrazia ha tentato di ritemprarvisi con Madame de Stael, Chateaubriand e Tocqueville; le democrazie borghesi non hanno cessato di attingervi, per mezzo dei loro retori e dei loro sofisti; le democrazie socialiste vi giustificano il loro dispotismo. Le colonie, dal canto loro, vi prendono la legittimazione delle rivolte, i manovali proletari non si stancano di agitarne la bandiera. Perfino la Chiesa cattolica, attraverso certi suoi rappresentanti, vede l'unico mezzo per rinvigorire la fede nel progressismo, e in "Gesù Cristo travestito da meccanico nell'atto di condurre la locomotiva del Progresso attraverso la foresta vergine" (sono parole di Flaubert, e neppure troppo caricaturali).

Il mito del progresso non dominerebbe la politica e le società contemporanee se non trovasse nello spirito umano una tacita complicità. Non è esagerato affermare che l'idea del progresso si basa essenzialmente sull'adulazione, e che offre all'individuo, non solo le possibilità d'evadere al di fuori del proprio essere, ma anche tutte quelle capaci di trasformare la sua vanità in esibizionismo, in prestigio. Se io mi colloco nell'irresistibile corrente del progresso, posso diventare senza fatica diverso e migliore, rispetto a quello che sono; posso superare il posto che la mia nascita, la mia natura e i miei doni mi fanno occupare nell'universo, posso essere quello che non sono e che gli altri sono! Il progresso universale di cui mi inebrio mi incita a fuggire me stesso nell'illusione e nella posizione sociale. Mi sento capace, grazie al progresso universale, di lasciare indietro gli altri, i ritardatari, i retrogradi, senz'altro sforzo che mentale. Per poco che mi stabilisca sulla sua sommità, che prenda l'ultimo treno, che mi pieghi al conformismo della novità, mi convinco facilmente della mia eccellenza. Il mito del progresso provoca così l'avvento d'una nuova aristocrazia di "parvenus" senza sostanza, dei quali vediamo il fantasma gesticolare su tutti i palcoscenici del teatro sociale. Ora, in questa corsa ai primi posti, il più vuoto, il più sciocco, il più esibizionista ha tutte le probabilità di arrivare; donde la legge, che possiamo verificare tutti i giorni: più una società è progressista, più le sue élites sono vuote e strombazzanti. Sono delle astrazioni senza contenuto, dei tipi senza personalità: nulla assomiglia di più ad una "vedette" che un'altra "vedette", ad un politico che un altro politico, ad un arrivista qualunque, di qualunque settore, che un altro arrivista, ad un pallone gonfiato che un altro pallone gonfiato. Si diversificano solo per colore e dimensione, per gonfiore quantitativo.

Aggiungiamo poi che la religione del progresso accelera il processo di sostituzione degli esseri e delle cose: le "vedettes" in ogni campo si succedono a ritmo frenetico; politici, letterati, istrioni che si mettono in mostra sul gran teatro del mondo, pseudogenì fabbricati dalla pubblicità, sono paragonabili ad automobili o lavatrici sempre più "up-to-date", sempre più cariche di orpelli. Si moltiplicano le fratture fra il presente e l'esile filone del passato, del quale l'uomo conserva la memoria. Il decadente vive in una perpetua fuga, il suo comportamento ha la mobilità e la discontinuità del sogno. Non conserva nulla perché non assimila nulla, mentre si fa simile a tutto ciò che desidera, come il camaleonte prende il colore del terreno sul quale passa. Non vive la vita, ma è vissuto dalla vita. Jung ha severamente diagnosticato in una formula: "La vita non vissuta genera la nevrosi".

Gl'individui ed i popoli decadenti diventano uniformi con rapidità sconcertante, secondo la legge dettata per l'indomani dai grandi sarti della politica, dell'arte o della scienza. Standardizzazione che non esclude del resto l'incoerenza: tutti si buttano sul nuovo, ma la novità esclude la novità anteriore. Ieri l'altro, Stalin era un democratico sublime, uno dei santi dell'Età dell'Oro in gestazione; ieri, era il più crudele dei despoti; il suo successore, poi, avrebbe cambiato tutto: eccolo che sale al potere, un uomo moderato finalmente, avido di pace; ma ecco che questo fautore della coesistenza pacifica diventa d'un tratto il carnefice dell'Ungheria e poi, di mutamento in mutamento, propone di nuovo al mondo sbalordito, da onesto commesso viaggiatore alla ricerca di borghesia, una leale competizione fra socialismo e liberalismo; e così di seguito, con il succedersi di esaltazioni e denigrazioni, a seconda del momento.

Se è vero che la salute mentale di un'epoca si misura dal suo grado di coerenza, il meno che si possa dire della nostra è che è folle.

 

Fino a che l'uomo contemporaneo rimarrà schiavo di questo assurdo mito del progresso che ne impregna la mentalità, gli resterà oscura la natura del solo tipo di progresso di cui possiamo constatare l'esistenza, quello tecnico, con tutte le disastrose conseguenze di una simile cecità, che già si manifestano nel campo in cui è più forte l'incidenza della tecnica: l'economia, la cui presa sulla vita di oggi è quasi assoluta.

È infatti nella tecnica moderna e nel suo formidabile sviluppo che l'uomo d'oggi scopre la prova irrefutabile del progresso. Nessuno oserebbe negarne la realtà. D'altra parte l'evidenza del progresso tecnico deriva dalla definizione stessa della tecnica come insieme di procedimenti che assicurano all'uomo il suo dominio su un oggetto, la sua padronanza sulle cose, la sua capacità di trasformare, nel senso più effettivo del termine, il mondo materiale esterno. Proprio per questo la tecnica, come dice Gabriel Marcel, è "suscettibile d'una messa a punto sempre più precisa, sempre più centrata" e manifesta senza discussione le sue possibilità di perfezionamento. Altrettanto indubitabile è però il fatto che il progresso tecnico sta trasformandosi in mito sotto i nostri occhi, e che questo mito, soltanto per un momento respinto da due guerre mondiali, gli si è appiccicato come un parassita, e se ne nutre, comunicandogli al tempo stesso il suo carattere inintelligibile. Le innumerevoli divagazioni, alle quali da luogo l'incontro del progresso tecnico con la nostra civiltà, le previsioni paradisiache o apocalittiche che suscita, i sommovimenti economici, politici e sociali che provoca in una umanità incapace di distinguere la parte di magia che ne altera la natura: tutto questo è eloquente. Il progresso tecnico diventa a sua volta una gigantesca attrazione della quale l'uomo contemporaneo è la preda: l'astrazione di una umanità prometeica che si emancipa dalla natura, la piega ai suoi ordini e l'organizza a suo piacimento. Le ultime scoperte dell'automazione, dell'elettronica e dell'astronautica hanno contribuito notevolmente a rendere popolare l'immagine di una umanità liberata di tutte le sue antiche schiavitù, e finalmente padrona del suo destino. Il romanticismo di certi "intellettuali" che sognano segretamente di regnare sul mondo come sulla carta alla quale confidano le loro speranze smisurate, ha fatto il resto. Non dimentichiamo il grande simbolo della collettività sovietica, intenta al completo a forgiare con entusiasmo un mondo nuovo, nel quale la materia è definitivamente asservita all'uomo, e del quale il marxismo distribuisce generosamente il modello al mondo; e non dimentichiamoci del ritmo dell'americanizzazione.

È evidente che ci troviamo di fronte a un fenomeno religioso: è nata una vera e propria mistica della tecnica. L'uomo d'oggi non prova più la minima venerazione di fronte alla natura, non scopre più in essa degli dèi, non la sente più come intermediaria fra lui e l'Assoluto. I suoi sentimenti di venerazione, di ammirazione e di terrore vanno alle invenzioni e alle acrobazie della tecnica. Penso perfino che essa abbia il suo clero e i suoi fedeli, e che sia costituita in una "Chiesa", con i suoi ministri che "sanno", e i suoi adepti profani che "non sanno" e quindi "si affidano" ai primi nel senso più letterale del termine.
La prova? La maggior parte dei nostri contemporanei si sente soggetta alla tecnica fin nel profondo dell'essere, nel corpo e nell'anima. La tecnica appare loro come un principio assoluto che governa la totalità del reale, come una specie di divinità misteriosa che distribuisce, a seconda dell'umore, il bene e il male, e dalla quale ricevono le grazie se hanno fatto ricorso ad uno specialista nel maneggiarla. Il mondo antico si suddivideva in settore naturale e settore soprannaturale. Il mondo moderno è diviso in dominio artificiale e dominio "soprartificiale", di cui tengono le chiavi i tecnici.

I tecnici veri d'altra parte, non possono fare a meno di sorridere di questo feticismo. Per loro, la tecnica non ha nulla di sacro, di gratuito, di divino. Conoscono la quantità di sforzi richiesti per mettere a punto un metodo, una macchina, un'organizzazione industriale, e si sentono ben sottomessi ai fini che perseguono. La loro massima costante è ancora l'adagio di Bacone: "Si può dominare la natura soltanto obbedendole". D'altra parte sono proprio questa umiltà, questa pazienza, questa attenzione che rendono possibile il progresso tecnico e arricchiscono lo spirito. Nella misura in cui restano fedeli a queste virtù fondamentali, i tecnici veri sanno che non c'è alcun progresso senza contropartita; sanno che il loro dominio sul mondo non è mai totale, e che si trovano ad affrontare sempre un insieme di fattori interdipendenti, di cui è impossibile far avanzare l'uno senza compromettere l'altro. L'esperienza quotidiana delle difficoltà che devono vincere dimostra loro che questi fattori non si migliorano mai simultaneamente, e che in ogni tecnica esiste un punto di equilibrio come in un organismo vivente: al di là di questo punto il progresso si deteriora e si annulla. Se in ogni campo della tecnica ci sono delle possibilità di perfezionamento, esse non vanno mai al di là di un certo margine critico. Tipico il progresso "sensazionale" dell'automazione, in realtà anch'esso limitato. La piena automazione è un sogno: lo hanno dimostrato specialisti di grande valore come Coales, MacMililan e Jonas, dell'università di Cambridge: il costo degli ultimi operai da eliminare sarebbe assolutamente proibitivo. Un'altra applicazione della legge nel campo della produzione in serie: si credeva che quanto più la divisione del lavoro fosse avanzata, tanto più si sarebbero realizzate delle economie. Un professore dell'università di Harvard, Howans, ha fatto osservare che la divisione del lavoro, come ogni altro procedimento, comporta un limite al di là del quale i vantaggi decrescono, perché la monotonia e la noia diminuiscono il rendimento.

Ciò che vale per la tecnica presa in se stessa, vale ancor più per la tecnica associata all'uomo: è più che mai vero che un chiodo scaccia l'altro. Il progresso tecnico si effettua, umanamente parlando, per sostituzione, per addizione, inevitabilmente accompagnata da una sottrazione. Se con il progresso tecnico io posso andare sempre più in fretta da un posto all'altro, mi è esclusa però la possibilità d'una meditazione interiore che accompagni il cammino. Se giornali e radio mi portano con le loro tecniche notizie sempre più rapide, mi dispensano d'altra parte, anzi m'impediscono di riflettere. Se il riscaldamento centrale mi protegge efficacemente dal freddo mi toglie d'altra parte il piacere di sognare di fronte al caminetto. Non c'è innovazione tecnica che non esautori un valore o ne degradi un altro.

Quanto all'incidenza sociale del progresso tecnico, inutile spendere troppe parole: l'enorme accumulo di progressi tecnici ha moltiplicato i divieti di origine legislativa e amministrativa. Le comodità tecniche che abbiamo a disposizione hanno diminuito come contropartita la nostra libertà. Se Rousseau ritornasse in terra a vedere la nostra civiltà tecnica, sarebbe più che mai convinto di aver avuto ragione: l'uomo è nato libero, e dappertutto è in catene! Mentre accresciamo i nostri poteri tecnici, sparisce la spontaneità dei nostri riflessi sociali: dove era possibile camminare naturalmente, occorrono oggi innumerevoli stampelle per avanzare d'un passo.

Il tecnico vero sa tutto questo. Ma l'uomo della strada, il filosofo, il teologo, l'intellettuale, e il tecnico stesso in quanto uomo della strada, non lo sanno. C'è una enorme distanza fra chi pratica le tecniche, e chi le utilizza. Il primo urta continuamente contro ostacoli nuovi, e sa per esperienza che i rimedi tecnici che egli vi apporta non possono accumularsi all'infinito senza una concentrazione di mezzi tale da non poterne più controllare la complessità. Chi invece dispone puramente e semplicemente dei risultati delle tecniche ignora questa misura. Il suo sguardo non è fissato sul sottile punto d'equilibrio nel quale sono concentrati i rischi di rottura, ma soltanto sui benefici e sulle comodità che può trarre dalle tecniche e che, naturalmente, vuole moltipllcare all'infinito. Chi pratica le tecniche deve fare i conti con le esigenze d'un oggetto al quale deve sottomettersi, sotto pena di distruggerlo, mentre il consumatore della tecnica incontra solo le esigenze illimitate della propria soggettività, e si perde nel suo desiderio di godere sempre di più dei benefici d'una tecnica che immagina inesauribile, semplicemente perché non ha mai avuto a che fare direttamente con essa, e non ha affrontato di persona i limiti del reale. Il suo giudizio e il suo agire non sono governati da una esperienza della tecnica e delle sue possibilità effettive, ma dal mondo nuovo che essa costruisce intorno a lui, e che egli coglie soltanto dal di fuori perché non ha partecipato alla sua creazione. Insisto molto sulla differenza fra chi pratica e chi utilizza le tecniche, poiché questa ci offre la spiegazione delle difficoltà e, aggiungerei volentieri se la parola non fosse troppo usata, della tragedia della nostra epoca. Il mondo delle tecniche sta sviluppandosi intorno a noi in modo tale, che l'immensa maggioranza degli uomini è incapace di comprenderne il funzionamento, e vi si colloca con la pretesa smodata del parassita e del barbaro: ne possiamo già cogliere le disastrose conseguenze. Invano tenta di nasconderle la pseudo-filosofia del progresso infinito, rinnovata dal secolo xviii e camuffata in moto della storia.

Prima di andare oltre, occorre esaminare da vicino i dati del problema.

Innanzi tutto, bisogna sottolineare che questa separazione fra chi pratica la tecnica, e chi la utilizza, è fenomeno recente, e forse inedito nella storia, almeno nella sua diffusione attuale. Un tempo, essi coincidevano più o meno esattamente. Nulla ci fa pensare che l'uomo del passato, l'uomo della strada, fosse appiccicato al mondo delle tecniche come l'ostrica alla roccia, o il vischio alla quercia: nessuna delle invenzioni fondamentali del medioevo, come il giogo a spalla, il timone a cerniera, la bussola, la stampa, l'energia idraulica e del vento, le cui ripercussioni sulla vita materiale dell'epoca furono grandi come l'avvento delle macchine sulla nostra, sembra aver fatto uscire l'uomo dai suoi limiti, ed aver suscitato in lui, individualmente o socialmente, pretese smisurate. Se non conosceva le tecniche come il loro creatore, l'uomo d'una volta le usava almeno come incorporate al proprio essere: facevano parte integrante, nel senso pieno della parola, della sua esistenza di uomo: le aveva assimilate, la sua natura umana le aveva per così dire digerite e ne aveva naturalizzato gli artifici, nello stesso modo in cui il corpo trasforma la materia inerte in sangue e in vita.

Capiva istintivamente, l'uomo antico, che le tecniche avevano un significato limitato, come il suo stesso essere e come la natura nelle quali s'erano acclimatate: e, proprio come il loro inventore, sentiva di non poterle utilizzare senza danno oltre un certo segno. Non se ne serviva come d'un trampolino per superarsi e per uscire dai limiti della sua condizione umana. Una lunga esperienza di violazioni dei limiti, colpite da castigo nel suo spirito e nella sua carne, gli aveva instillato l'orrore della soggettività abbandonata a se stessa, alle sue impazienze, alle sue sregolatezze. Lo dimostrano la poesia epica, la tragedia, la filosofia greca, come il pensiero ebraico e la concezione cristiana. Per il greco della grande epoca, per il pio ebreo, per il cristiano medievale, l'infinito, e più ancora l'indefinito, che del primo è l'oscena caricatura, sono vietati all'uomo in quanto tale. Il castigo s'abbatte sull'essere umano in preda all'orgoglio, e nessuno può vedere Dio senza morirne. Il soprannaturale è un dono gratuito che passa attraverso la mediazione di Cristo, Dio fatto uomo e adattato, per così dire, all'altezza dell'uomo. In un clima spirituale del genere, il progresso tecnico non poteva essere che moderato, prudente, lento, quasi flemmatico; ma era un progresso umano, assunto su di sé dall'uomo, da lui vissuto e vivificato come se fosse creazione di ciascuno.

L'improvvisa proliferazione dei progressi tecnici negli ultimi due secoli ha spezzato questa armonia fra pratica della tecnica e utilizzazione dei suoi risultati, ed è qui che esplode l'essenziale e costitutiva relatività del progresso. Un osservatore imparziale e obiettivo non può negare l'enorme squilibrio provocato nell'umanità dall'invasione delle tecniche: i più entusiasti, sono pur costretti a chiamarlo rivoluzionario, ed il meno che si possa dire di ogni rivoluzione è che si trascina dietro un confuso corteo di beni e di mali. L'incontro fra progresso tecnico e società moderna ha avuto incalcolabili conseguenze: l'innegabile miglioramento della vita materiale degli uomini si è proiettato con inaudita brutalità in una vita spirituale, politica e sociale indebolita e declinante. Sotto l'influenza nefasta del mito del progresso, l'uomo d'oggi non solo ha mistificato il progresso tecnico, ma ha immaginato che la facilità di vita si accompagni con un progresso - quanto contestabile! - nel governo di se stesso e della comunità.

La storia umana è fatta di ironia: sembra retta dal vecchio proverbio: "Chi ha pane non ha denti, chi ha denti non ha pane". Da una parte, una solida vitalità sociale, ma nessuno sviluppo materiale; dall'altra, un prodigioso balzo delle scienze della natura, ma un correlativo infantilismo nella sfera del bene comune e delle scienze umane. La coincidenza del progresso tecnico con il regresso della salute politica e sociale, è la caratteristica più saliente, e meno conosciuta, della nostra epoca. Incominciamo soltanto a intravedere che questi due fattori, uno di sviluppo, l'altro di decadenza, sono stati arbitrariamente confusi in una immaginaria ascesa simultanea dell'umanità.

La democrazia ideologica delle masse ha polverizzato le comunità naturali, famiglia, aziende, comunità professionali, piccole patrie; ha eccitato uomini e gruppi gli uni contro gli altri, tanto che la società, o piuttosto la "dissocietà", è diventata incapace di assimilare organicamente il progresso delle tecniche. Per un inconcepibile paradosso, l'umanità si è ubriacata di dottrine di divisione e di morte proprio nel momento in cui i tecnici hanno dato vita ad uno sviluppo economico inedito nella storia, in cui il dinamismo economico può risolvere il grave problema della distribuzione dei beni materiali necessari alla vita dell'uomo. In larghe zone della terra, per non dire dappertutto, sarebbe tecnicamente possibile soddisfare i bisogni economici elementari degli uomini, e assicurare le basi materiali del bene comune, se una politica ora statalizzante ora feudalizzante non distogliesse a suo solo vantaggio, e a svantaggio degli uomini in carne ed ossa, le finalità dell'economia. Accecati dalle propagande politiche, gli uomini rifiutano il pane che hanno a portata di mano e vogliono nutrirsi di vuote ideologie.

La storia contemporanea insegna che la democrazia delle masse si è evoluta in due direzioni.
La prima è caratterizzata dall'indebolimento dello Stato, dal disprezzo in cui è tenuto dai cittadini e dalla costituzione di gruppi di produttori le cui pressioni politiche fanno deviare il dinamismo dell'economia verso la soddisfazione dei loro interessi privati. Chi ne fa le spese è il consumatore, l'uomo in carne ed ossa che costituisce il solo fine del processo economico, dal momento che si produce per consumare, e che soltanto l'uomo è capace di consumare beni materiali.
La seconda direttrice invece è caratterizzata dal culto e dalla tirannia dello Stato che occupa "manu militari" una classe o un partito unico, i quali rivolgono le finalità dell'economia a loro esclusivo profitto. Asservito ad uno statalismo totalitario, il progresso tecnico ha instaurato una forma di schiavitù ignota fino ad oggi all'umanità, nella quale l'individuo non ha altra risorsa che quella di gloriarsi d'esser membro di un gregge: una schiavitù irreversibile, a meno di non provocare una regressione tecnica che diminuirebbe le briciole che lo schiavo raccoglie dalla sua situazione. La peggiore tara della nostra epoca è data dall'appropriarsi del progresso tecnico da parte del collettivismo. Siamo a questo punto.


Per concludere, una domanda: sarà il progresso tecnico diretto dall'uomo? Sarà integrato alla sua sostanza umana e, in definitiva, alla sola realtà umana che esista, l'individuo in carne ed ossa?

L'esperienza relativamente recente che abbiamo del progresso tecnico e del dinamismo economico, la cui nascita e il cui sviluppo sono fenomeni inediti nella storia, non ci permette di concludere senz'altro con una affermazione. L'ottimismo della maggior parte dei contemporanei a questo proposito mi pare, sotto molti aspetti, un rifiuto di orientare il progresso tecnico nel senso del progresso umano. Del resto, l'abbandono a questa provvidenza da quattro soldi che è il determinismo della storia, investita del compito di condurre l'astrazione "Umanità" di trionfo in trionfo, si accompagna sempre con un sereno e sanguinoso disprezzo nei confronti dell'uomo in carne ed ossa. Impossibile tuttavia negare alle conquiste della tecnica e alle loro conseguenze economiche il carattere generale di forze benefiche, ma per lo più distolte dal loro fine. Tecnica ed economia soffrono senza dubbio, a dispetto dei loro sensazionali progressi, d'una crisi di finalità che deriva da un'altra ancor più profonda, quella dell'uomo stesso: l'uomo non sa più che cos'è l'uomo. Come potrebbe allora il progresso tecnico essere un progresso umano?

Noi abbiamo in mano il grimaldello per tutte le conoscenze, ma abbiamo perduto la chiave della sola che valga, quella dell'uomo e, ripetiamolo, dell'uomo reale, concreto, composto di un'anima e di una carne che sono irriducibilmente le sue, che ha un nome proprio, uguale a nessun altro. Nella mentalità comune di oggi, si è offuscato il riconoscimento dell'elemento sacro che greci e cristiani hanno sempre sentito nell'individuo: vedi la lezione dell'"Antigone" di Sofocle e quella del Vangelo. Abbiamo perduto il sentimento del sacro, di ciò che sfugge alla nostra presa, di ciò che resiste all'attacco della ragione, del calcolo e della conquista metodica. Nel mondo moderno, Creonte è dappertutto, sotto forma d'una riduzione dell'individuo e del suo mistero a entità astratte e collettive: ciò che noi chiamiamo ancora società o comunità, è soltanto più un mucchio di sabbia che sta insieme per forza d'inerzia, o grazie allo stampo sempre più complesso e più coesivo delle leggi, dei regolamenti, dei piani, di statalismi e super-statalismi diversi: tutte cose che si prestano a pennello alla manipolazione della realtà umana ed alla sua trasformazione in statistiche anonime. Confessiamolo pure: anche certi membri delle Chiese cristiane sono assillati dal mito "comunitario". Per imitazione, essi finiscono col relegare in secondo piano la salvezza personale dell'anima, per buttarsi a loro volta dietro alla salvezza collettiva dell'umanità. E anche la molle viltà degli individui, la loro rinuncia, la loro infedeltà alla propria vocazione, il loro abbandono del pensiero, la loro rinuncia ad agire, prevedere in modo personale, la loro fuga panica dalle responsabilità, la segreta propensione a essere soltanto più le rotelle di una macchina che distribuirà gratuitamente la felicità, contribuiscono in grande misura a far loro dimenticare che sono degli uomini, e che devono salvare in sé un mistero inaccessibile nel quale Dio non si introduce che tremando. Evidentemente, il progresso tecnico e il dinamismo dell'economia non possono essere benefici, se non toccano l'uomo in ciò che lo fa uomo.

Ora, se è vero che senso dell'individuale e senso del sacro sono la stessa cosa; se è vero che il sacro null'altro è che la partecipazione dell'uomo al divino, al trascendente, al soprannaturale, è innanzi tutto nel risveglio delle superstiti energie religiose dell'anima che noi possiamo sperare. L'uomo non può conoscere l'uomo al solo livello umano. La conoscenza dell'uomo è inseparabile da quella di Dio: la crisi di finalità di cui soffrono la tecnica e l'economia potrà terminare soltanto in un clima religioso, nel quale l'uomo sollevi il capo verso il cielo, e si ritrovi esistenzialmente legato a ciò che lo sorpassa.

Ma l'essere umano non è soltanto un animale religioso: appartiene anche alla terra, a diversi corpi sociali che sono un po' il prolungamento del suo corpo, ad una patria, ad uno stato, ad un genere umano. Anche su questo terreno deve essere ricuperato il senso dell'uomo in quanto realtà individuale, sotto pena di vedere insabbiarsi il progresso tecnico nel collettivismo che lo preme da tutte le parti, e lo devia dal suo sbocco naturale. Siamo di fronte ad un mondo di pregiudizi, di provata dannosità, che la maggior parte degli uomini non osa prendere di petto. Il fatto è che, in questo campo, il sentimento di presenza dell'individuale si conserva in maniera vivente solo in comunità relativamente ristrette.

Soltanto un ambiente umano che corrisponda ai limiti della vivente capacità di apertura dell'uomo, può preservare l'individuo dalla caduta nell'anonimato. Il contesto sociale nel quale s'inserisce l'individuo non può dilatarsi all'infinito senza rischio di esplodere, e di danneggiare l'uomo stesso. Oggi sono di moda i grandi stati, i super-stati, le organizzazioni mondiali. È proprio questa tendenza che bisogna risalire. Il progresso tecnico non potrà raggiungere il suo fine, che è l'individuo in carne ed ossa, se non sul terreno nel quale può sussistere questo individuo. Fino a che non riprenderanno vigore le piccole comunità naturali e seminaturali, la realtà dell'essere individuale sarà soltanto una parola priva di senso, e il progresso tecnico non sarà finalizzato e regolato sulla misura dell'uomo, ma su di un corteo di spettri che le potenze politiche e tecnocratiche faranno danzare a loro piacimento.

Soltanto l'individuo è capace di scegliere, fra i beni materiali che la tecnica mette a sua disposizione, quelli che servono ai suoi bisogni e contribuiscono allo sviluppo del suo essere: nessuno può farlo per lui. L'originalità e la irriducibile diversità dei desideri, dei gusti, delle richieste sono senza dubbio più accentuate ancora a livello del corpo che a quello dello spirito. L'umanizzazione del progresso tecnico e dell'economia è legata alla libertà di mercato, alla scomparsa del dirigismo, alla sostituzione dello statalismo rigido o morbido con un'autorità politica indipendente dal gioco della domanda e dell'offerta, che possa arbitrare i conflitti fra i gruppi, eliminare i monopoli e i trusts, resistere alle pressioni finanziarie dall'estero, mettere l'afflusso dei beni materiali al servizio dell'interesse generale rappresentato dal consumatore; che sappia elaborare e applicare un codice dell'economia, la cui urgenza è manifesta, e che varrà a sopprimere i parassiti e i truffatori che abbondano allorché il progresso, privato della sua finalità, cade nell'anarchia, nella "organizzazione" permanente della disorganizzazione.

In breve, bisogna che il progresso tecnico, invece d'invadere il mondo in senso orizzontale, come un diluvio che sommerga ogni forma di vita, obbedisca alla legge umana della verticalità e si inserisca nel moto organico d'una linfa viva che nasce in basso e fiorisce in alto. Resta vero quello che disse Augusto Comte: il progresso, qualunque esso sia, non è altro che lo sviluppo dell'ordine. E ordine, per l'uomo, non significa cadere nella materia ne’ evadere nelle nuvole, ma rimanere, umilmente e pienamente, in piedi. Il destino dell'uomo, oggi più che mai, riposa sulle spalle di tutti coloro che, nell'inespugnabile recesso della loro forte personalità, avranno saputo mantenere l'uomo in se stessi e intorno a sé, contro il fascino dei miraggi, il richiamo delle sirene e l'impudenza dei pretendenti. È l'Ulisse cristiano che in definitiva trionferà sul Leviàtan.