La memoria storica degli italiani in questione

di Giovanni Cantoni

Il 9 maggio 1996 l’on. Luciano Violante è stato eletto presidente della Camera dei Deputati. Dopo l’elezione, il deputato progressista ha pronunciato un discorso (1), all’origine di un fiume di parole massmediatiche che va defluendo solo molto lentamente. Il successo dell’intervento mi induce all’esame di due tratti di esso, trascurandone altri, benché di interesse non minore.

I passaggi su cui intendo soffermarmi recitano:

"Il Parlamento non è solo il luogo della legislazione e del controllo del Governo. Il Parlamento è il custode della memoria e della storia delle nazioni. Nella nostra memoria e nella nostra storia c’è un faticoso e continuo processo di conquista di indipendenza e di unità"; quindi: "Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del Paese ed una parte delle forze politiche. Quelle che ne sono uscite sconfitte, ma anche quelle vincitrici, tanto a metà dell’Ottocento, quanto, un secolo dopo, a metà del Novecento, hanno potuto, per ragioni diverse, frenare la portata innovativa e nazionale di quegli eventi.

"Oggi del Risorgimento prevale un’immagine oleografica e denudata dei valori profondi che lo ispirarono.

"La Resistenza e la lotta di liberazione corrono lo stesso rischio e, per di più, non appartengono ancora alla memoria collettiva dell’Italia repubblicana.

"Io mi chiedo, colleghi, me lo chiedo umilmente, in che modo quella parte d’Italia che in quei valori crede e che quei valori vuole custodire e potenziare nel loro aspetto universale di lotta alla tirannide e di emancipazione dei popoli, non come proprietà esclusiva, sia pure nobile, della sua cultura civile o della sua parte politica, mi chiedo, dicevo, cosa debba fare questa Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale e perché si possa uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri.

"Mi chiedo se l’Italia di oggi — e quindi noi tutti — non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri. Non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non bene decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le due parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro Paese, a cominciare dalla Liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce non per essere di destra, di sinistra o di centro, ma per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo Paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, ci potranno essere tutte le legittime distinzioni".

 

1. Comincio osservando che, quando si fanno affermazioni di principio, per certo sempre, ma oggi più che mai di fronte alla babele massmediatica, è importante dare una definizione di quanto si afferma.

Infatti, viene subito da chiedersi quale sia il significato di "nazione", di cui il Parlamento custodirebbe la memoria storica. Non pretendo, sia chiaro, la soluzione scientifica di un problema annoso e forse solubile solo attraverso una convenzione, ma una definizione che permetta almeno d’intendere inequivocabilmente il pensiero del politico che si esprime. Nel caso concreto, che cosa significa "nazione"?

Insieme di persone identificate da caratteri etnici, cioè da caratteri biologici immutabili anche nel lungo periodo? O dalla lingua e dalla cultura, che si possono mutare? O dalla storia comune, cioè da una comunanza di vita nel passato prossimo — ma quanto prossimo? — o dei progenitori in un passato più remoto, ma — di nuovo — quanto remoto? Oppure da una vita comune condotta attualmente, da una contiguità occasionale in un determinato paese, come riferimento geografico, o sotto la tutela di un determinato Stato, come riferimento politico-istituzionale?

Dall’affermazione dell’on. Luciano Violante, niente è di genere chiaro, né illumina il rimando a un non meglio identificato faticoso e continuo processo di indipendenza e di unità caratteristico della altrettanto non meglio identificata "nazione".

 

2. Qualcosa di più dice il riferimento alle due grandi vicende della storia nazionale evocate nominatim, il Risorgimento e la Resistenza.

Azzardo: la nazione è una comunità storica, non etnica e neppure linguistica o culturale; nel caso italiano, i suoi ritmi principali sono costituiti dal Risorgimento e dalla Resistenza, rispettivamente "mito di fondazione" e "mito di rifondazione" della nazione stessa. Ma — azzarda il neopresidente della Camera dei Deputati — né la fondazione né la rifondazione sono riuscite in modo soddisfacente.

Infatti, la nazione — nel caso, evidentemente, quanti abitavano nel paese al momento degli avvenimenti evocati — ha risposto alla ragione dell’arte politica in modo parziale, e i miti di fondazione e di rifondazione non sono entrati a far parte del patrimonio storico, della memoria collettiva della nazione stessa.

 

3. Dunque, con ogni evidenza — nell’ottica del neopresidente della Camera dei Deputati — la nazione non è un dato, identificato da indicatori definiti o almeno ampiamente precisabili, ma un prodotto, un artificio politico, e la sua produzione è stata un fallimento: prova ne è la mancata ricezione non solo dei fatti fondativi e rifondativi di essa, ma anche dei corrispondenti miti, cioè delle ricostruzioni culturali di tali fatti.

Quindi, non solo vi sono stati degli sconfitti, inevitabili in ogni scontro fra contendenti, ma lo scontro continua e gli sconfitti sul campo militare continuano a resistere su quello culturale. Ma chi resiste a chi? L’unica ipotesi toccata nell’intervento è quella costituita dalla Repubblica Sociale Italiana e di quanti a essa aderirono, così operando "contro i diritti e contro la libertà", allo scopo di denunciare la mancata identificazione delle ragioni di tale adesione, e così via.

Dunque, sia detto di passaggio, nonostante le letture pacificatorie dell’intervento parlamentare, non ci si trova di fronte a qualcosa di diverso dalla proposta di istituire una sorta di commissione — parlamentare? — per l’esame di una malattia storica, cioè per identificare "le ragioni di chi non ha ragione"; e, fra l’altro, non si tratta neppure di qualcosa di diverso — anzi, forse, di qualcosa di meno — da quanto espresso, alla fine della seconda guerra mondiale, da Palmiro Togliatti, per convenienze allora ben decifrabili, che potrebbero essere decisamente utili per decifrare quelle di oggi.

Ma l’attenzione ai vinti di ieri non giunge a comprendere quanti non sono stati eventualmente vinti manu militari, ma sono stati vinti in quanto portatori — con maggiore o con minore consapevolezza — di una cultura diversa da quella dei vincitori.

Infatti, se l’on. Luciano Violante ostenta attenzione ai vinti del fascismo di Salò, nella sua ricostruzione esplicita e implicita — per quanto è dato arguirne — non tiene in nessuna considerazione anzitutto il fascismo come "liberazione dal pericolo bolscevico" — se la Resistenza viene indicata come secondo Risorgimento, perché non immaginare anche una prima Liberazione?—, poi il fascismo del regime, il fascismo del consenso, né la "zona grigia" fra il 1943 e il 1945 — per usare un’espressione di Renzo De Felice (2) —, e neppure i vinti del Risorgimento; inoltre, prima del Risorgimento, sunt leones, è terra inesplorata, esclusivamente abitata da presunti aspiranti all’indipendenza e all’unità.

 

4. Ma il Paese Italia non è stato improvvisamente abitato nell'Ottocento: in esso vi era un popolo anche prima del Risorgimento, era abitato da comunità umane caratterizzate da molti tratti comuni, e non dei meno significativi, come, per esempio, la religione.

E queste comunità altamente omogenee erano organizzate politicamente sulla base di una cultura politica e in seguito a eventi storici non radicali, cioè da forme-Stato in cui "Stato" si potrebbe scrivere con la minuscola, non perché spregevoli — è vero piuttosto il contrario —, ma in quanto di bassa incidenza sulla società e non totalizzanti, monarchie e/o aristocrazie popolari.

Perché tali Stati potevano essere "scritti con la minuscola"? Perché erano nati all’interno della prospettiva definita da un sistema religioso a carattere universale, la Chiesa cattolica, e da un sistema politico a carattere universalistico, il Sacro Romano Impero, quindi all'interno della Cristianità, di una cristianità.

La rapida rottura dell'universalità della Chiesa nei fatti e la lenta eclissi del riferimento imperiale producono l’ispessimento, l’appesantimento del momento statuale e la necessità di affrontare principalmente con la forza il contenzioso interstatuale, sempre più debolmente mediato o addirittura non più mediato da istanze universali e/o universalistiche.

Alla sfida avrebbe costituito risposta adeguata una struttura confederale, una federazione di Stati, ma la maturazione politica di questo esito non ebbe il tempo necessario e, dopo la fine coatta del Sacro Romano Impero nel 1806, su pressione napoleonica, restava da togliere — possibile "in questa valle di lacrime" — il supporto statuale alla Chiesa cattolica.

E l’unità politica viene imposta con la violenza, manu militari. Poiché però si tratta di unità politica di soggetti già uniti da tanti altri punti di vista, i problemi dovrebbero essere ridotti, anzi, non vi dovrebbero essere problemi.

Ma le cose non stanno così perché l’unità politica non intende unire appunto politicamente la nazione esistente, di essa mutando solo il profilo politico, al limite l'elemento politico della sua cultura, bensì vuole mutare i caratteri del popolo, trasformarlo in una nazione nuova, costruire una nazione nuova, caratterizzata da una nuova cultura.

Nel rapporto fra società e Stato, fra cultura della società storica — cioè della nazione — e Stato, lo Stato si vuole operatore di cultura, in presenza o in assenza di un ministero della cultura popolare, così come — in tempi diversi e con diverse modalità — si vorrà operatore economico. Ebbene — confessa l’on. Luciano Violante più di centotrent’anni dopo —, l’opera di unificazione culturale è fallita.

 

5. Ma, come testimonia inequivocabilmente l’intervento del parlamentare progressista, il fallimento della costruzione artificiale degli italiani, da "fare" dopo aver "fatto l’Italia", non produce assolutamente la realistica accettazione del fatto che le nazioni non si inventano, e che gli Stati ne devono rispettare e proteggere la soggettività.

Al contrario, ci si chiede come proseguire l’opera "contro natura e contro storia", e si cercano complici. E, allo scopo, si lascia correre il sospetto che esista una solidarietà fra avversione all’unità politica, ieri e oggi, cioè fra legittimisti e secessionisti, e avversione alla cultura che ieri l’ha prodotta e che ancora oggi si vuole radicare ope legis.

In estrema sintesi: "chi è stato ed è contro l’unità politica è il nemico comune della nazione e della sua cultura"; inoltre, "quanti sono favorevoli all’unità politica hanno una cultura comune".

L’asserto deve essere negato con forza così come l’apparente "logica" conclusione.

Infatti, è vero precisamente il contrario: chi oggi avversa l’unità politica, lo fa in nome della stessa cultura che ieri l’ha prodotta; chi ha prodotto un’unità artificiale ha la stessa cultura politica di chi ieri ha prodotto Stati artificiali come la Repubblica Cisalpina e oggi vagheggia la Repubblica del Nord.

Con ogni evidenza, in entrambi i casi è rovesciato il rapporto fra Stato e società, compresa la società storica, cioè la nazione; in entrambi i casi la cultura non è un prodotto culturale, ma l’esito di un’opera politica.

Credo indispensabile rispondere a un quesito spontaneo: chi ieri ha avversato l’unità politica e chi oggi avversa la secessione hanno una cultura comune?

Non vi è nessun automatismo. È possibile, ma non necessitato. La risposta sta nell’esame della qualità della cultura e dei contenuti di questa, non nella semplice proclamazione dell'unità politica in quanto tale.

 

6. Stando così le cose, i fronti si definiscono correttamente in base ai rapporti indicati, il cui presupposto è costituito da un popolo vivente su un determinato territorio.

La cultura di questo popolo è il primum che lo Stato deve difendere e promuovere, e non la realtà da contrastare e da mutare, dal momento che lo Stato non totalitario è portatore di una cultura di servizio, e di servizio alla società storica e alla sua cultura, cioè alla nazione.

Dunque, "Stato notaio"... No, la politica e lo Stato hanno una dignità e una funzione anche intrinseche, ma unica legittimazione a un intervento coercitivo dello Stato — dei politici — sulla cultura della nazione è costituito dalla immoralità della cultura in questione, per altro possibile "in questa valle di lacrime": per esempio, se tale cultura comporta "princìpi" come il furto e/o l’omicidio, l’uccisione dell’innocente.

Ancora; se lo Stato si deve limitare a difendere e a promuovere la cultura della nazione, la cultura è un dato non solo formalmente, ma anche sostanzialmente immutabile?

Una cultura è un patrimonio immutabilmente presente in ogni singolo e in ogni comunità umana.

Ma la sua presenza non ne definisce i contenuti come atteggiamenti paradigmatici nei confronti delle problematiche tipiche della condizione umana, individuale e sociale; quindi il suo mutamento deve avvenire per scontro fra culture, della cui esistenza e del cui esito lo Stato deve prendere atto, sempre con la riserva indicata.

E, in quest’ottica, l’unità politica è un mezzo, non è un fine; è un mezzo ordinato al miglior perseguimento del fine dello Stato, la difesa e la promozione della cultura nazionale in un determinato frangente della vita nazionale e internazionale.

Quale cultura dunque? E quale rapporto fra lo Stato e la società storica?

Questo è il dilemma vero attorno a cui si definiscono i ruoli, gli amici e gli avversari.

Poi viene il problema dell’unità politica, un problema che, trattandosi di un mezzo — alla stregua del regime elettorale proporzionale o maggioritario —, va esaminato nel caso concreto, cioè identificando la sua validità oggi, e non va confuso con quello dell’unità nazionale attorno alla sua cultura.

 

 

( 1 ) Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Resoconto sommario della seduta di giovedì 9 maggio 1996 (continuata nella giornata di venerdì 10 maggio 1996), pp. 10-13. Tutte le citazioni senza riferimento sono tratte da questo documento.

( 2 ) Cfr. RENZO DE FELICE, Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995, pp. 55-65.